A
100 anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, ci sembra utile accompagnare il
ricordo della prima e straordinaria vittoria duratura della
Rivoluzione con una riflessione che non si nasconde quel che è accaduto
dopo. Ma che, al tempo stesso, non cade nel vecchio vizio di andare a
“trovare l’errore decisivo” nel comportamento di Tizio o Caio o
addirittura – come fanno i pentiti di ogni epoca – nell’idea stessa di
Rivoluzione. Viene tracciata un’ipotesi di ricerca storiografica,
certamente complessa ma almeno all’altezza dell’oggetto.
A
voi l’intervento elaborato da Francesco Piccioni per il convegno ‘Il
vecchio muore ma il nuovo non può nascere’, di dicembre 2016.
*****
Idee per un programma di ricerca
Se
si guarda alla storia del movimento comunista, oggi, l’impressione è
spesso quella di trovarsi davanti a un deserto di macerie. In cui vagano
alcuni fantasmi che, se si incontrano, si mandano a quel paese...
Dopo
un secolo, bisogna però essere ambiziosi o rassegnarsi a scomparire.
Sarebbe un peccato, perché solo ora il modo di produzione capitalistico
funziona esattamente come lo aveva ricostruito Marx.
Perciò bisogna assumere su di sé, per quanto poco si sia adeguati allo scopo, il compito di fare il punto nella storia del movimento comunista internazionale e determinare le coordinate del possibile sviluppo.
La dico alla Mao Zedong: non si può fare più nemmeno un passo in avanti se tagliamo il piede per farlo entrare nella scarpa. Tradotto: saremo anche un piccolo insieme di sfigati e nostalgici, ma bisogna darsi il compito di pensare in grande.
E agire di conseguenza. Naturalmente, pensare in grande è il contrario
della supponenza boriosa. Significa misurarsi con compiti giganteschi,
senza alcun provincialismo nella testa, sapendo in ogni istante che
siamo troppo piccoli per “mettere le mutande al mondo”. Ma fare il
contrario, ossia adattare la dimensione dei compiti alla nostra piccolezza non serve a nessuno, neanche a noi.
Per questo, qui, non si propone un lavoro conclusivo, ma un programma di ricerca. Uno sforzo come quello che bisogna fare richiede infatti un intellettuale collettivo – a livello internazionale, va da sé – che punti a superare il punto di crisi del movimento comunista.
Premesse metodologiche
1 Dobbiamo inquadrare i problemi, non le facce.
Gli incagli e le disfatte, così come le vittorie, sono eventi che
superano infinitamente qualsiasi capacità individuale, anche geniale. Le
facce passano, i processi storici sono molto più lunghi e duraturi. A
volte questi si ripresentano, in forme trasformate; la facce mai. Per
questo sarebbe necessario fare una storia senza nomi. Luoghi, date e problemi bastano e avanzano per capire, senza farsi distrarre da personalismi fuori stagione.
2 La Storia non si fa con i se...
Nel ricercare l’origine della crisi del movimento comunista – crisi
globale, nessuna esperienza ne è esente, con le ovvie e abissali
differenze tra la lenta caduta dell’Urss e la resistenza di Cuba – è
facile cadere in due errori speculari e speculativi:
a) addebitarlo ad un errore teorico della soggettività rivoluzionaria,
in uno qualsiasi degli snodi fondamentali che il movimento comunista ha
dovuto affrontare, dividendosi, la “colpa” di aver preso una strada
rivelatasi sbagliata;
b) arrovellarsi su cosa sarebbe successo “invece se”
fosse stata seguita una strada diversa, introvertendo così la relazione
causa-effetto e ogni altro aspetto dell’attività rivoluzionaria.
3 La Storia va come va.
Non esiste alcun determinismo storico-politico che decide a priori se
un tentativo rivoluzionario ha possibilità di riuscita o meno. Tutto –
marxianamente – dipende da condizioni date, livelli di sviluppo (economico, industriale, culturale, ecc), rapporti di forza sociali e capacità della soggettività.
Si è vinto là dove era considerato impossibile, si è perso spesso pur
avendo ragione sul piano teorico e nella capacità di rappresentare e
organizzare la classe. Siamo una parte in un conflitto; non tutto
dipende da noi, non tutto è nelle disponibilità del nemico. Alla fin
fine, nei momenti di conflitto che decidono le svolte storiche, ci si batte e poi si vede. Si è costretti dalle
circostanze a mettere in campo la forza costruita nelle fasi precedenti
e ci si gioca tutto, o quasi. Com’è risaputo, la nottola di Minerva
vola solo al tramonto...
4 La dialettica materialista non è una griglia d’acciaio da imporre alla realtà; la dialettica è automovimento del reale e va riconosciuta nell'evoluzione del reale stesso. La comprensione del reale dipende insomma dal nostro sforzo di riconoscimento (tenendo
presenti le categorie), non dall’applicazione più o meno esatta delle
categorie teoriche. La categorie ci consegnano un metodo e alcune leggi di funzionamento del capitale; l’analisi del contemporaneo è responsabilità nostra, dei viventi. In altre parole: bisogna assumere su di sé la fatica del concetto, bisogna guardare il mondo e comprenderne l’evoluzione. Le categorie interpretative del reale, del resto, vengono dedotte o scoperte nel
corso dell’analisi dell’evoluzione del modo di produzione
capitalistico. Evolvono anch’esse, in qualche misura. E’ accaduto anche a
Marx di scoprire inattese neoformazioni autonomizzatesi del
capitale nel corso di un’analisi iniziata pensando di trovarsi di
fronte a semplici manifestazioni del “già noto” (per esempio, nei tre
articoli scritti per il New York Daily Tribune a proposito della nascita, crescita e fallimento del Credit Mobilier, dove il secondo e terzo articolo “correggono” decisamente la lettura data nel primo; si vedano qui e Karl Marx, Il socialismo imperiale, Roma, Editori Riuniti, 1993). Oppure basti pensare alla categoria di imperialismo, individuata e strutturata a soli 30 anni dalla morte di Marx.
L’oggetto della ricerca
Il
movimento comunista è stato il protagonista assoluto del ‘900. Ha
inanellato una lunga serie di vittorie, tali da far sembrare vicino –
negli anni ’70 – un cambiamento generale a livello planetario. Solo 10
anni dopo cadeva il Muro, si dissolveva l’Urss, si scioglievano
nell’acido i partiti comunisti – o presunti tali – in ogni paese.
Le vittorie. Quasi tutte nel Terzo mondo, o comunque nei paesi meno sviluppati.
E anche la Russia, nel ’17, era un paese fondamentalmente medioevale
(con tanto di servitù della gleba, uomini e donne inchiodati a un
territorio, “semi-umani” di proprietà dei latifondisti), con alcune
isole di sviluppo capitalistico concentrate soprattutto a Mosca e San
Pietroburgo. Non rivoluzioni proletarie (classe operaia e lavoro
salariato come minoranza estrema, se non del tutto inesistente), in
larga misura, ma movimenti di liberazione nazionali, anticoloniali,
guidati da avanguardie politiche di formazione comunista. Dunque
movimenti popolari di modernizzazione progressista,
per forza di cose, che non potevano fornire alcun modello teorico o
pratico per l’avanzata della rivoluzione nei paesi sviluppati; e
facilmente esposti al ritorno prepotente dei “mercati” – in forme
diverse dal colonialismo militare – una volta dissolto il “fronte del
socialismo reale” (ad esempio, il Vietnam).
Le sconfitte. Un po’ dappertutto, ma soprattutto nei paesi avanzati,
dove – in linea generale, come conseguenza di Yalta – i partiti
comunisti di obbedienza sovietica nel secondo dopoguerra si trasformano
prima in socialdemocrazie di fatto, pur se “teoricamente fedeli”
all’ideale della rivoluzione; poi in formazioni politiche genericamente
“di sinistra”, dove la qualifica progressiva è data da una (relativa) attenzione ai diritti civili delle
persone o delle minoranze, anziché a quelli economico-sociali della
classe o del blocco sociale (tutele del lavoro, welfare, sanità,
istruzione, ecc).
Evoluzione interna al movimento comunista.
Lunga serie di scissioni, frazionamenti, conflitti (anche sanguinosi),
cristallizzazione in settarismi. Compresa la stagione di ripresa dello
“spirito rivoluzionario” successiva alla vittoria di Cuba, alla rottura
cinese con l’Urss, alle vittorie in Vietnam e tante altre ex colonie, al
moltiplicarsi di organizzazioni rivoluzionarie (anche nei paesi
industrializzati, Usa compresi, a cavallo o successivamente del ’68).
Una
dispersione di energie inarrestabile, assolutamente entropica e
introvertita, che non permette di sfruttare la seconda grande crisi –
nel solo XX secolo – del modo di produzione capitalista (anni ’60-’70) e facilita la
vittoria dell’imperialismo, fino al collasso del “socialismo reale”,
alla quasi scomparsa dei partiti o dei movimenti “comunisti”. Ovunque.
Permangono oggi in questa parte del mondo piccoli gruppi, in prevalenza
di stampo settario ed esterni alle forme di organizzazione del blocco
sociale; o in alcuni casi – al contrario – molto impegnati nel conflitto
sociale e nei movimenti territoriali, ma con dimensioni e prospettive
tali da non costituire un problema politico per il nemico o un’alternativa credibile per il blocco sociale degli sfruttati.
Quali le ragioni di una sconfitta epocale di questa portata?
Vanno scartate le stupidaggini.
Per esempio: il “tradimento dei gruppi dirigenti”. La selezione dei
dirigenti nel processo di riproduzione delle organizzazioni è infatti
parte integrante dei processi storici oggettivi,
e non ha nulla a che vedere con le motivazioni di tipo
psicologico-opportunista (ansie individuali di arricchimento, di
sopravvivenza, ecc.). Motivazioni che negli esseri umani esistono sempre,
in qualsiasi periodo storico e in qualsiasi organizzazione; dunque, il
loro eventuale prevalere in un’organizzazione rivoluzionaria è fenomeno
che va a sua volta spiegato, ma di per sé non spiega nulla.
Vanno inquadrati in modo non scolastico anche gli “errori della soggettività”.
Qualsiasi avanguardia politica o sociale commette errori più o meno
gravi, che possono addirittura distruggere anche l’organizzazione più
radicata e combattiva. Ma le avanguardie del conflitto sono a loro volta
il prodotto di determinate condizioni storiche, diverse da paese a
paese e da periodo a periodo; sono il prodotto della storia dei movimenti in certi paesi, della loro cultura, della tradizione politica e di classe, ecc. Gli errori della soggettività possono insomma spiegare singole sconfitte, non LA sconfitta storica e globale del movimento comunista.
A meno che non si producano nel luogo e nel momento di svolta epocale, ossia nel punto in cui si gioca la partita della Storia.
Sappiamo, grazie alla teoria marxiana, che una vera rivoluzione socialista costituisce il superamento
del modo di produzione capitalistico. Marx stesso ipotizzava che il
luogo dove la Rivoluzione avrebbe avuto più possibilità, non solo di
vincere uno scontro per il potere politico, ma di mettere in moto un modo di produzione socialista –
entro alcuni limiti anch’essi storicamente determinati, perché il modo
di riprodurre la vita non si cambia con un decreto – sono i paesi più avanzati nello sviluppo del modo di produzione capitalistico.
La storia del ‘900 ci presenta però un quadro effettivamente opposto,
almeno in apparenza. Si è vinto là dove sembrava impossibile, anche se
poi la storia si è presa la sua vendetta azzerando i tentativi di
“costruzione del socialismo” in condizioni di sviluppo troppo arretrate.
E persino lì dove – l’Unione Sovietica del secondo dopoguerra – il
livello di sviluppo sembrava almeno comparabile con quello del
capitalismo (vero nei settori strategici, soprattutto militari, ma non
nel complesso della produzione di massa).
Dunque?
O è sbagliata la teoria o è successo qualcosa che
ha determinato una divergenza secolare tra azione dei comunisti e
processi evolutivi del modo di produzione. Naturalmente stiamo parlando
di “trasformazione effettiva del mondo”, di passi in direzione della
“costruzione del socialismo”, non di difesa più o meno efficace degli
interessi di classe, di dedizione spesso eroica alla causa
rivoluzionaria e quant’altro di eccellente la storia del ‘900 ci ha
consegnato.
In
una lettura libresca della teoria dovremmo per esempio dire che la
Rivoluzione d’Ottobre è stata un errore di “volontarismo”, troppo in
anticipo rispetto ai tempi dello sviluppo capitalistico in un paese come
la Russia. E diremmo una scemenza. Una società si ribella alle
condizioni date che trova, quando il potere non è più in grado di
mantenersi, per una crisi di qualunque origine (economica, bellica,
ecc.). Ma i dottrinari se ne accorgono sempre post festum...
Proprio
il crollo del “socialismo reale” conferma però che si può – certo –
conquistare il potere politico, provare a creare un altro tipo di
relazioni sociali, ma è impossibile saltare dalla servitù della gleba
(il Medioevo) alla cittadinanza socialista senza
pagare un prezzo elevato, fino al fallimento del tentativo. La lista
delle condizioni che avrebbero potuto determinare un risultato diverso è
intuibile, e costituisce in buona parte la materia della ricerca qui
proposta.
Se invece è successo qualcosa di determinante – sul piano storico, con qualche terribile effetto anche sull’evoluzione della teoria – allora bisogna indagare la Storia per capire dove e come il processo rivoluzionario si è interrotto, bloccato, introvertito.
Questo
approccio è radicalmente diverso dal “cercate ancora” che ha dominato
tanta parte della “riflessione” dei marxisti del ‘900. Frase
generalmente interpretata nel senso di “trovare l’errore nell’impianto teorico marxiano che avrebbe determinato così tante sconfitte” e poi la dissoluzione tout court. Concetto che insomma invita all’introversione sul piano più astratto, invece che all’apertura dello sguardo sul mondo storico.
Stabilito questo...
La partita del XX secolo si è giocata a Berlino, nel gennaio 1919
L’unico
momento in cui la Rivoluzione è stata vicina alla vittoria in un paese
avanzato dello sviluppo capitalistico è rintracciabile nel breve periodo
tra la fine della I Guerra mondiale e l’insurrezione spartachista a
Berlino, nei primi giorni del 1919. In un contesto di crisi generale,
guerra guerreggiata, tracollo delle antiche monarchie dell’Europa
centrale e russa, sollevazione generale delle masse stremate da fame e
guerra (condizioni insomma abbastanza rare, nei paesi avanzati).
La
letteratura storiografica sull’argomento è sconfinata, non tutta di
carattere scientifico; c’è molta “propaganda di fazione”, memorialistica
rancorosa o disperata, ecc.
Ma la tesi che
si vuole qui sottoporre a ricerca prescinde ampiamente dai dettagli
storiografici. Sono infatti ben delineati alcuni fattori strategici:
– la Germania era il paese industrialmente più avanzato dell’Europa continentale;
–
la Germania aveva firmato la resa e accettato la sconfitta senza aver
perso un centimetro di territorio, una sola fabbrica o una sola grande
opera infrastrutturale (i bombardamenti aerei erano di là da venire, al
tempo);
–
la Germania (Austria compresa) aveva la più grande concentrazione di
scienziati da premio Nobel esistente a quel tempo, molti dei quali
protagonisti del salto di paradigma che ha preparato, accompagnato e
implementato l’irruzione rivoluzionaria della teoria della relatività;
–
non da ultimo, in Germania esisteva un movimento operaio organizzato
come “uno stato dentro lo Stato”, replicandone struttura e modalità di
funzionamento; un “esercito pacifico”, sempre in attesa di impossessarsi
“naturalmente” delle leve del potere politico, ma che si era
drasticamente diviso in corrispondenza della frattura generale del
movimento socialdemocratico mondiale sulla partecipazione o meno alla
guerra (subordinazione del movimento operaio alla borghesia nazionale
oppure azione internazionalista contro la borghesia di tutti i paesi in
guerra).
Non
è difficile comprendere – è l’unico “se” che utilizzo in questa
presentazione, ma solo a fini di esposizione – l’importanza di una
vittoria rivoluzionaria in un paese con queste caratteristiche.
–
altri paesi dell’Europa occidentale (Italia, Ungheria, Francia, la
stessa Gran Bretagna, in qualche misura), già percorsi da un conflitto
sociale e politico fortissimo (a volte anche armato), avrebbero potuto
aggregarsi alla tendenza, andando a costituire un polo articolato,
industrialmente all’avanguardia e non facilmente aggredibile;
–
la neonata Unione Sovietica si sarebbe trovata nella posizione di poter
scambiare risorse naturali con sviluppo tecnologico-industriale
(evitando la nota “industrializzazione a tappe forzate”, o più
precisamente “accumulazione originaria in regime socialista”, quel tipo
di lotta contro i kulaki, lo scontro interno al gruppo dirigente del
Pcus, la sindrome dell’accerchiamento, il “socialismo in un paese solo” e
così via, fino al tracollo).
La
Storia del mondo sarebbe stata insomma parecchio diversa; un modo di
produzione più avanzato avrebbe potuto contare su una massa critica
sufficiente – risorse, conoscenze, forze produttive sviluppate – per
determinare un rapporto di produzione superiore, o quantomeno in grado di
tenere la tensione conflittuale con il capitalismo molto meglio di
quanto non abbia fatto il “campo socialista” del XX secolo.
Anche la teoria elaborata nel campo “marxista” sarebbe stata molto differente.
Ma la storia non si fa con i “se” e soprattutto “va come va”. E’ un risultato,
non è decisa in anticipo e non si può tornare indietro. È davvero una
brutta bestia, assolutamente feroce. Se è andata in questo modo, è
palese che le forze rivoluzionarie attive in quello scontro siano da considerare inadeguate a raggiungere l’obiettivo.
Un giudizio oggettivo, di merito, che individua un’asticella troppo
alta per quei saltatori, pur in presenza di molte “condizioni oggettive
favorevoli”.
In fase di ricerca eviterei perciò di ripercorrere – perdendoci così strada facendo – tutte
le infinite polemiche tra le varie e divergenti anime della parte
rivoluzionaria del movimento di classe tedesco e internazionale. Non è
infatti in questione “chi avesse meno torto” nella lunga lista delle
fazioni tutte sconfitte (il risultato
azzera le velleità oniriche di chiunque), e ancor meno è utile
esercitarsi su “come sarebbe andata se...” avesse prevalso la linea di una
delle tante fazioni rimaste minoritarie, come invece amano credere i
settari di tutte le sfumature. Banalmente, se una posizione non ha avuto
neanche
la forza di affermarsi nel nostro campo, figuriamoci se poteva avere
quella di affrontare – vittoriosamente! – il capitalismo dominante al
suo tempo.
Il punto di vista – più alto – da raggiungere concerne infatti il conflitto tra rivoluzione e controrivoluzione, i suoi esiti oggettivi, le sue conseguenze di portata storica.
E’
del resto evidente che il movimento tedesco avesse gravissimi problemi
irrisolti, pur potendo contare su un radicamento di massa oggi solo
sognabile, dirigenti di grande intelligenza ed esperienza, e persino su
un temporaneo ma fortissimo “spirito insurrezionale delle masse”.
Eppure...
In sintesi, possiamo dire che:
Quel movimento difettava di direzione e comando unitari, visione strategica d’insieme del conflitto, organizzazione coerente ed efficiente delle forze.
Quando il confronto tra rivoluzione e controrivoluzione diventa scontro per il potere politico, com’è accaduto in quel momento in Germania, la politica diventa guerra
e le regole che prevalgono sono queste ultime (pur essendo la
“continuazione” della prima, prevede per l’appunto “altri mezzi”). Chi
non le rispetta, perde tutto. Si può essere “un’aquila” sul piano
intellettuale, e avere molte ragioni, ma essere sconfitti e uccisi lo
stesso; sia che si scelga di combattere, sia che si cerchi di restare
sul piano della stretta legalità (se crolla il vecchio regime, il potere
– e dunque la “legalità” – va costituito ex novo, dal vincitore; ma non
esiste più, per tutto il periodo del conflitto).
In ogni caso, nel conflitto di classe – soprattutto quando diventa guerra per il potere (“per chi comanda”) – non c’è partita tra una parte organizzata e strutturata come un esercito (linee di comando univoche e indiscutibili, almeno nel momento operativo) e una parte che agisce come un branco disomogeneo,
o addirittura in competizione per l’“egemonia” al proprio interno.
L’unitarietà di progetto e comando non è una questione di “forma”,
perché anche nella guerra di guerriglia
– apparentemente praticata da bande autonome separate per territorio –
il comando politico è saldamente unitario oppure è condannata alla
sconfitta (i due diari del Che, a Cuba e in Bolivia, sono esemplari in
entrambi i casi).
Una breve citazione dalla testimonianza di un militante comunista a Berlino (da Pierre Broué, Rivoluzione in Germania, Einaudi)
“Fu
allora che accadde l’incredibile. Le masse erano lì da molto presto,
dalle nove, nel freddo e nella nebbia. E i capi sedevano da qualche
parte per deliberare. La nebbia aumentava e le masse aspettavano sempre.
I capi deliberavano. Arriva mezzogiorno, e con il freddo la fame. E i
capi deliberavano. E la nebbia aumentava ancora. Le masse erano in preda
all’eccitazione; esse volevano una parola che placasse la loro
tensione. Nessuno sapeva quale. I capi deliberavano. La nebbia aumentava
ancora mentre scendeva la sera. Tristemente le masse rientravano nelle
loro case: avevano voluto qualcosa di grande e non avevano realizzato
nulla. E i capi deliberavano. […] Ed erano ancora in seduta l’indomani
mattina, quando il giorno schiariva, ecc, ecc, ed essi deliberavano
ancora. E i gruppi tornavano di nuovo sulla Siegesallee e i capi erano
ancora lì in seduta e deliberavano, deliberavano, deliberavano”.
La
retorica anarchica (e similari) leggerebbe questa testimonianza nella
chiave più stupida: “le masse” che vogliono l’azione e “i capi” che
“frenano”. Non serve invece un genio per capire – scorrendo la
letteratura sulla Spartakusbund e le altre organizzazioni rivoluzionarie
presenti a Berlino – che quei “capi” erano divisi sul da farsi e
rappresentavano diverse organizzazioni “concorrenti”, senza un piano
comune, senza struttura decisionale e linee di comando efficaci, senza
quindi un legame operativo e unitario
con la classe scesa in armi per una insurrezione improvvisata. L’esatto
contrario di quel che c’era invece stato a San Pietroburgo, solo
tredici mesi prima.
Non è inutile comunque aggiungere che 24 ore dopo tutti quei “capi” erano morti o ricercati, non “venduti” e passati al nemico.
Le
numerose insurrezioni cittadine che scandiranno ancora per qualche anno
il conflitto di classe in Germania, nella prima parte degli anni ’20,
saranno sempre più deboli, isolate, facilmente circondate e represse.
Dopo Berlino, inevitabilmente, le divisioni iniziali si erano
incancrenite, non ridotte.
La sconfitta del movimento rivoluzionario in Germania ha dunque indubbiamente avuto almeno i seguenti effetti, anche se certamente un programma di ricerca potrebbe individuarne molti altri:
– la nascita e poi il trionfo del fascismo su scala europea, come reazione delle
borghesie nazionali contro la Rivoluzione (e il suo nucleo centrale, la
giovane Unione Sovietica), grazie anche a quel “piano Doves” imposto
dalle potenze vincitrici (pagamento dei danni di guerra e quindi
impoverimento drastico della Germania);
– il confinamento del “campo socialista” ad un solo paese, per quanto grande, per oltre 20 anni;
– il moltiplicarsi, duraturo ed esponenziale nel tempo, delle divisioni nel movimento comunista;
– la subordinazione della teoria rivoluzionaria alla linea politica dell’organizzazione, qualunque essa fosse, in ogni angolo del movimento comunista mondiale.
Teoria e politica
A ben guardare, molte delle conseguenze di quella sconfitta sono in varia misura imparentate con questa inversione tra
tensione scientifica e necessità contingenti della lotta. L’infinita
serie delle divisioni, lungi dall’essere ricollegata – come sarebbe
logico – a una diversità di vedute sul piano tattico e strategico (in
ogni caso pesanti e divisive, ma sempre recuperabili), è stata
ipostatizzata come antagonismo ontologico, ossia fatta risalire
addirittura a una diversa “appartenenza di classe” o a una opposta
impostazione teorica nella ricezione del patrimonio marxiano, leniniano
e chi più ne ha ne metta (ogni fazione “eretica” si è a sua volta divisa
in molti rivoli, con “santi” sempre più minimi e improbabili). Insomma a
un fraintendimento della teoria marxiana quasi inafferrabile, sempre
più soggettivo e “caratterizzante”, ma appunto per questo
“incomponibile” e “antagonista”. A un credo, in definitiva, ossia un atto di fede che divide chiese originate dall’identico ceppo.
È appena il caso di ricordare che Marx considera invece la teoria esattamente come la concepisce un fisico. Ovvero come un quadro organico di leggi
che nel loro insieme ricostruiscono e spiegano – in qualche misura, se
ben utilizzate, prevedono – un campo preciso di fenomeni (il modo di
produzione capitalistico, in generale). Insomma va alla ricerca delle leggi oggettive che
regolano i fenomeni; tende quasi sempre a raffigurarle addirittura con
formule matematiche; è consapevole che lo sviluppo del capitale (natura
viva, non materia inerte) produce autonomizzazione di sempre nuove
figure, che a loro volta vanno studiate e capite. Di sicuro, per
esempio, non poteva dedurre allora figure come i credit default swap, i fondi di investimento, i fondi pensione, i commercial paper,
i cdo e così via, pur rientrando tutte queste – forse – sotto la
fattispecie di “capitale per il commercio di denaro” e/o “capitale per
il commercio di merci”.
Fare teoria significa fare scienza, non discorsi “poco popolari”. Significa lavorare per individuare ciò che permane stabile nel fluire dei fenomeni (storici, economici, politici). Significa accantonare momentaneamente le “condizioni a contorno”, le specificità del tempo e del territorio, e individuare la struttura permanente che regola la continua trasformazione delle forme dei
fenomeni. Un esempio facile facile: la legge che regola la forza
gravitazionale afferma che tutti gli elementi si attraggono (“cadono”,
sulla Terra) alla stessa velocità, indipendentemente dalla materia e
dalla forma (cambia solo la forza esercitata da ogni corpo, dipendente
dalla massa). Si tratti insomma di una piuma, una palla di piombo o un
uomo appeso a un paracadute, si va verso terra. La legge è ovviamente di
validità universale, ma nell’analizzare un fenomeno particolare o nel
progettare qualcosa, bisogna re-introdurre almeno una “condizione a
contorno” che prima era stata eliminata: l’aria. Che oltretutto non è un
elemento stabile, ma sottoposto a variazioni continue di velocità
(venti) e densità (altimetrica).
La ricerca scientifica, anche e soprattutto quella rivoluzionaria, è ricerca della verità, storicamente determinata; perfettibile, confutabile, mai definitiva, ma verità. Ossia, corrispondenza di concetto e oggetto. Non tollera subordinazioni alle necessità contingenti. Altrimenti si corrompe, diventa agiografia ragionata ex post
delle scelte di partito (o di fazione), spesso mutevoli nell’arco di
pochi mesi o anni (ad esempio: la svolta della III Internazionale dal
“socialfascismo” ai “fronti popolari”).
È
infatti assolutamente ovvio che in guerra – e il movimento comunista ha
dovuto fare esperienza di ogni tipologia di conflitto, nei suoi 70 anni
più gloriosi – bisogna agire come la situazione richiede, in stato di necessità,
secondo regole e leggi non violabili impunemente, se si vuole
sopravvivere e vincere. Si deve esser pronti a cambiare tattica a ogni
angolo, e persino modificare la strategia quando si rivela superata,
tornare sui propri passi, annullare accordi solennemente presi,
cancellare alleanze, rivedere stile di lavoro e regole di comportamento,
ecc. Del resto, si possono fare le elezioni a febbraio e l’insurrezione
ad ottobre, no?
Se
però ognuna di queste svolte deve essere “giustificata teoricamente”,
anziché con la materialità del conflitto in atto, ecco che la scienza si
perverte in scolastica: e ogni gesto viene accompagnato con una
citazione ad hoc estratta dall’immenso corpus marxiano (o engelsiano, leniniano, ecc.).
Ciò che va perduto, in questo addomesticamento storico-politico, è l’unitarietà del sistema teorico, il suo statuto scientifico. Dunque la possibilità stessa di osservare il reale attraverso lenti affidabili.
Ogni
setta si dice marxista, ogni setta si scinde a suon di citazioni ben
scelte. Ma insignificanti – da sole – come pietre strappate a un
palazzo.
In altri termini: la teoria è – sì – una guida per l’azione politica. Ma tra teoria e azione politica c’è lo stesso rapporto esistente tra legge fisica (astratta) e condizione fisica concreta,
o meglio ancora tra scienza (universale) e tecnologia (specifica). In
mezzo ci sono quelle che in fisica si chiamano “condizioni a contorno”,
da cui si può e si deve fare astrazione per isolare la legge, ma di cui
bisogna tener conto quando ci si muove nel reale. Un altro esempio
semplice: le leggi fisiche sono costanti dappertutto (in ogni sistema di riferimento),
ma avranno effetti diversi su di noi a seconda che camminiamo in un
prato fiorito oppure sotto la neve a 30 sottozero, se ci muoviamo
sott’acqua o in un aereo che precipita.
Se
passiamo dall’ambito della fisica a quello storico-politico –
l’evoluzione della Storia umana e dei modi di riprodursi – abbiamo che
tra le leggi generali dell’accumulazione capitalistica (universali, quindi valide ovunque facendo astrazione dalle condizioni a contorno) e la realtà concreta (un continente, un paese, una regione, ecc, a un determinato grado di sviluppo) esiste una relazione mediata da
specificità non facilmente riducibili. Specificità storiche, politiche,
culturali, antropologiche, linguistiche, religiose, che si modificano
assai più lentamente di quanto non ci voglia a insediare un distretto
produttivo e poi delocalizzarlo.
Per semplificare molto, una cosa è far politica
nel cuore della metropoli occidentale, un’altra farla nelle periferie
semi-rurali; una cosa è agire in Europa, un’altra negli Stati Uniti, e
così via in Asia (e in quale parte dell’Asia?), in Africa o in America
Latina o in Medio Oriente. O persino nel nostro Mezzogiorno rispetto al
Nordest. Nell’agire quotidiano non pesano insomma soltanto le relazioni
sociali strutturali fissate dal modo di produzione, ma una serie di “tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi” che vengono di continuo travolti dal rivoluzionamento capitalistico; ma intanto resistono, persistono, si riproducono, si modificano con tempi imprevedibili.
Per
guardare con distacco scientifico questo ambito variopinto bisognerebbe
probabilmente far ricorso anche agli strumenti dell’antropologia, che
solo la supponenza occidentale può considerare disciplina utile
unicamente “con i selvaggi” (come se non fossimo anche noi un “oggetto
culturale indagabile”). Basterebbe dover tener conto della religione,
infatti, per trovarci davanti a un quadro di “credenze” irriducibile –
per lo meno nei tempi brevissimi richiesti dal “mercato” – alle sole
leggi dell’accumulazione. E comunque: quale tipo di religione?
Non
da ultimo, è impossibile sottovalutare il peso strategico della
tipologia di regime politico entro cui si opera. Caratteristiche,
strategia, tattica, forme di lotta e stile di lavoro di
un’organizzazione comunista cambiano notevolmente da una democrazia
parlamentare (nelle sue molte varianti) a una dittatura e viceversa.
Pure restando entro un ambito di “dittatura della borghesia” che punta
in ogni caso a sterilizzare la soggettività comunista (schematizzando al
massimo: usando la coppia infiltrazione-corruzione oppure quella
infiltrazione-repressione).
Detto di nuovo, in termini più classici: la teoria tiene d’occhio soprattutto la struttura, l’azione politica deve fare i conti anche con tutta la sovrastruttura. La prima necessita di un’attenzione costante ai movimenti fondamentali del modo di produzione, per poterne ricavare una visione d’insieme sui tempi lunghi; la seconda deve basarsi sull’analisi concreta della situazione concreta. Come quando si va in montagna, per esempio, dove occorre possedere la
visione d’insieme del territorio (come una foto dall’aereo), per poter
mantenere la rotta verso l’obiettivo che si è scelto; ma
contemporaneamente occorre seguire il sentiero che c’è, o aprirne uno
nuovo, tenendo gli occhi su ogni sasso, perché qualsiasi dettaglio può
essere fatale.
Del resto, in politica, si combatte contro qualcun altro, non contro un concetto.
Nella Storia, dunque, il criterio che regola l’affermarsi o il sopravvivere di una “linea strategica” non è dunque unicamente quello della corretta impostazione teorica posta a guida dell’azione politica
(conoscenza e saggia utilizzazione delle legge fondamentali del sistema
teorico, senza cui non si dà neppure la possibilità di un agire
politico mirante a un obiettivo di trasformazione sociale). Un ruolo
altrettanto decisivo – se non più, agli effetti pratici – è ricoperto da
un criterio assai più brutale: la soluzione più adatta in determinate condizioni.
Il
conflitto reale agisce insomma esattamente come la selezione naturale
di Darwin (non a caso l’unico studioso “di pari livello” citato da
Engels nel discorso per la morte di Marx), spazzando via tutte le forme,
i soggetti, le organizzazioni o gli uomini che non riescono a
sopravvivere nella competizione concreta con il capitalismo.
Abbiano o no la “giusta impostazione teorica”, così come il più grande
genio del pianeta può morire attraversando la strada sulle strisce...
Naturalmente
“la soluzione più adatta” non è per forza la più bella, piacevole,
perfettamente corrispondente ai dettami della teoria. Anzi. Le
variazioni richieste dalle infinite specificità storico-culturali, oltre
che dal concreto procedere del conflitto in una determinata area,
spingono per una differenziazione accentuata rispetto all’unitarietà
ideale dell’obiettivo (il superamento del modo di produzione
capitalistico).
Insomma: l’organizzazione, il partito, il movimento popolare “più adatto” può non essere “il più marxista” in circolazione, ma “solo” il soggetto che impedisce o ritarda al massimo il ritorno dell’ancien regime,
quello che difende meglio alcune conquiste, che non arretra davanti a
nessuna pressione, o addirittura quello che può vincere in certe
condizioni. Difficile sottovalutarne l’utilità temporanea, pur con questi limiti...
Ma se “il più adatto” disegna a propria immagine la teoria, quest’ultima non ne può uscire sana, nemmeno con le migliori intenzioni; anzi, con risultati opposti al desiderato... Tutte le caratteristiche che rendono temporaneamente vincente una soluzione storicamente determinata vengono in quel caso elevate a virtù assolute, immodificabili e dunque inadatte a resistere al cambiamento delle circostanze.
Non
c’è nulla di dissacrante in questa affermazione. Nel movimento
comunista – soprattutto nelle condizioni di guerra (come per esempio
nella Resistenza) – era normale distinguere le funzioni egualmente
dirigenti tra il “commissario politico” e il “comandante militare”.
Abilità e competenze diverse, tutte egualmente decisive (coesione politica della formazione e sua sopravvivenza militare), fatte convergere per il successo nella lotta. La competizione vera (o quella principale, direbbe Mao), in altre parole, dev’essere con il nemico, non interna.
Conseguenze di questo approccio
Quale
significato ha dunque la tesi che individua nella Germania del 1919 il
luogo della sconfitta storica che ha impedito alla Rivoluzione di
“costruire il socialismo”, ossia qualcosa di più avanzato del modo di
produzione capitalistico, in una parte rilevante del pianeta?
Intanto quella di fissare il punto della sconfitta nella storia reale, nel risultato di uno scontro, e non nell’impianto teorico marxiano.
Semmai, è stato quel risultato a innescare la proliferazione di
“errori”, sviste, improvvisazioni, corbellerie, negli impianti di tanti marxisti teorizzanti
(tutti compatti nel rifiutare il risultato della Storia, ma tutti
divisi tra l’adattamento realista e il sognare un numero pressoché
infinito di alternative).
Ogni evoluzione successiva trova infatti a partire da qui una spiegazione molto più logica – non ad hoc
– rispetto a pseudospiegazioni come il “tradimento dei chierici”, il
“culto della personalità”, la “collaborazione col nemico di classe” (che
spesso c’è stata, naturalmente, ma non costituisce una spiegazione
teorica), la necessità di trovare la “forma teorica pura da
contaminazioni” per poi sviluppare una organizzazione-setta (un rospo
che cerca di mangiare nella speranza di crescere fino a diventare una
mucca...).
L’elenco
dei passaggi storici è ovviamente molto lungo (un secolo!), e non può
qui neanche essere accennato (qualche spunto è venuto dagli esempi,
comunque). Starà alla ricerca, se prenderà vita, fissarne i momenti
salienti e le relative “formulazioni para-teoriche”.
Ciò naturalmente svuota di senso teorico e strategico gran parte delle divisioni moltiplicatesi nel movimento comunista. Soltanto una resta intoccata, anzi in qualche misura rafforzata: quella tra organizzazione e spontaneità,
tra progetto strutturato e “naturalità” dell’azione rivoluzionaria. Proprio la tragedia della Rivoluzione in Germania, infatti, ci consegna
una lezione che sarebbe da criminali dimenticare: davanti a un nemico di classe che di solito “non fa prigionieri”, e che ha assunto oggi forme di governance di dimensioni quantomeno continentali, è da dementi privilegiare il particulare, la differenza esasperata che però “distingue”, la concorrenza interna.
Sarebbe
ingenuo attendersi che questo “svuotamento di senso” possa essere
condiviso e dunque produrre una presa di coscienza nei “capetti” dei
vari rivoli (anche di quelli che ufficialmente disconoscono il ruolo dei
“capi”, pur producendone a iosa) e innescare perciò un processo
unificante. Le soggettività cresciute nella dimensione intellettuale
della setta – ovvero nel considerare “attività politica” la pura
“propaganda della (propria) teoria” – sono definitivamente sterili. Parliamo
ovviamente dei “quadri dirigenti” delle varie sette, di quanti (non
molti, in fondo) hanno trovato la propria ragion d’essere in una
dimensione proporzionata ad ambizioni ben limitate.
Questa
presa d’atto può esser opera solo di una soggettività che si pone
progettualmente il compito della trasformazione del reale e dunque si
lascia alle spalle – senza nostalgie – tutti i dibattiti sulla “vera
ortodossia” e/o sulla “fecondità dell’eresia”. Facendo definitivamente
il punto sulla Storia, rivendicandola tutta intera, come si cerca di
proporre qui. Non per ripeterla o identificarsi in qualche suo
frammento, ma per stare all’altezza dei compiti presenti.
Il
secondo significato, altrettanto utile, sta nel confronto con la fase
storica attuale, contrassegnata dalla rottura della “seconda
globalizzazione”. Sono evidenti le analogie con il periodo in cui si è
verificata quasi contemporaneamente la vittoria della Rivoluzione in
Russia e la sua sconfitta in Germania: rottura della “prima globalizzazione” (ottocentesca, governata-dominata dalla Gran Bretagna), evoluzione del capitalismo in imperalismo su base nazionale,
esplosione della crisi e sua introversione in guerra mondiale (due,
addirittura, per arrivare a un cambio di egemonia planetaria a favore
degli Usa).
La
rottura della seconda globalizzazione sta producendo per ora
multipolarismo conflittuale su diversi piani, guerre locali conto terzi,
guerra delle monete, tentativi di ri-localizzazione produttiva,
conseguente risorgere dei nazionalismi (con l’Unione Europea a metà del
guado, nel passaggio a imperialismo su basi continentali e non
“nazionali”). Una reazione politica che non corrisponde molto alle
necessità del capitale multinazionale, che aveva promosso e innervato il
processo di mondializzazione.
Di
molto diverso ci sono tante condizioni: allora c’era un movimento
operaio internazionale in prevalenza riformista, ma contrattualmente
esigente; oggi c’è un “proletariato liquido”, dal rapporto discontinuo e
variabile con la produzione capitalistica, disorganizzato al massimo,
assolutamente impossibilitato a conoscere il ciclo nella sua complessità
e quindi “spontaneamente” incapace di immaginare-ideare-programmare un
cambiamento di modo di produzione. A meno di non riuscire a stringere
una alleanza potente con le figure professionali di elevata competenza
tecnico-ingegneristica et similia, fondamentali in qualsiasi progettazione della produzione complessiva. E così via...
Ma
c’erano anche milioni di uomini appena usciti dalle trincee, senza
lavoro ma con una qualche professionalità da vendere: saper usare le
armi, rispettare le gerarchie, pochi scrupoli umanitari. Ovvero la base
di massa e di manovra del fascismo nascente. Quel che ci voleva – per un
capitalismo ancora nella fase “padronale” – per contrastare altri
milioni di uomini al lavoro nelle fabbriche, che avevano un’analoga
dimestichezza con le armi.
Di diverso c’è soprattutto il capitale:
finanziarizzato, multinazionale, svincolato da qualsiasi “interesse
sociale”, insofferente dei limiti politico-statuali, impossibile da
ricondurre entro i confini della “democrazia parlamentare”, pronto a
trasferirsi ovunque le condizioni di profittabilità appaiano anche
momentaneamente migliori; incapace dunque di qualsiasi “progetto” o,
tantomeno, “piano” che vada al di là dell’orizzonte aziendale;
managerializzato – gestione separata dalla proprietà – senza volto, che
non si incontra più per la strada. Praticamente irraggiungibile.
Di
diverso c’è soprattutto che la produzione manifatturiera è a un passo –
qualche anno... un respiro, sul piano della Storia – dall‘automazione della maggior parte delle mansioni manuali e intellettuali,
quelle più seriali e ripetitive. Cosa che svuoterà non solo le
fabbriche, le banche, gli uffici... ma la comprensibilità stessa di un
processo di produzione come base necessaria della riproduzione della
società. Come accade oggi ai bambini, convinti che i soldi (i redditi)
escano dal bancomat, anziché dal salario, dallo sfruttamento o dalla
rendita...
Cosa però che azzera o quasi anche l’estrazione di plusvalore, segando il ramo su cui è cresciuto questo modo di produzione.
Forze produttive e rapporti di produzione
La similitudine tra i due periodi di rottura del mercato mondiale capitalista ci riporta al tema teorico fondamentale: anche questa volta sta esplodendo la contraddizione sempre latente tra forze produttive e rapporti di produzione.
La
domanda teorica che va sciolta è relativa al manifestarsi – esplosivo,
appunto – di questa contraddizione fondamentale. Si dà soltanto una
volta, in prossimità della fine del percorso storico del modo di
produzione capitalistico? Oppure si produce più volte, a livelli
ovviamente più ciclopici e dunque rovinosi, in forma ciclica?
Quando si è manifestata – ad esempio: alla fine della “prima
globalizzazione” – era della stessa portata e natura? Poteva insomma
quella crisi innescare un regime change a livello del modo di produzione?
Oppure, in termini più politici: le condizioni della Rivoluzione si danno solo quando questa tensione esplode oppure anche quando
alcuni sottosistemi capitalistici collassano? La storia del ‘900 ha
mostrato che “si può fare” in molti altri casi, ma non si sfugge – nel
corso del tentativo di costruire un altro modo di riproduzione sociale –
ai vincoli stabiliti dal confronto con un modo di produzione
capitalistico che continua ad esistere ed evolvere.
Marx aveva impostato la risposta in questo modo:
nella
produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti
determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di
produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle
loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di
produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la
base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e
alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il
modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il
processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza
degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro
essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro
sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in
contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i
rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica)
dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti,
da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro
catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il
cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente
tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili
sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo
sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione,
che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le
forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia
le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo
conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall’idea
che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di
sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece
spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale,
con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i
rapporti di produzione. Una
formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le
forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di
produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla
vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza.
Ecco perché l’umanità non si propone se non quei problemi che può
risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che
il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua
soluzione esistono già o almeno sono in formazione. A grandi linee, i
modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono
essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione
economica della società. I rapporti di produzione borghese sono l’ultima
forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica
non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che
sorga dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma
le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese
creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo
antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana.
Tra le le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo c’è anche la soggettività
– coscienza consolidata in organizzazione e conoscenza scientifica del
modo di produzione in evoluzione – che può condurre il passaggio storico
da un modo di produzione a quello più avanzato, evitando per quanto
possibile la distruzione generalizzata connaturata al meccanismo di
“risoluzione delle crisi” tipico del capitalismo. Specie dopo la
creazione e diffusione delle armi nucleari, infatti, l’eventuale comune rovina delle classi in lotta può tecnicamente coincidere non tanto con un periodo di “medioevo”, ma con la scomparsa della specie.
Tra
proletariato e capitale la Storia ha proposto e propone più round,
insomma. E il capitalismo non si esaurirà “spontaneamente” o quasi, per
consunzione. La partita tra rivoluzione e controrivoluzione si è giocata
più volte. Nell’Ottocento (in forme molto embrionali) come nel
Novecento. E si ripropone ora, al decimo anno di crisi globale e alla
vigilia della più gigantesca espulsione del lavoro umano dai processi
produttivi che si sia mai immaginata (solo in Gran Bretagna, da qui al
2030, si calcolano 10-15 milioni di posti di lavoro in meno, su un
totale di 30).
Ogni
volta, però, si ripropone in forma più drastica, man mano che ci si
avvicina a quel punto in cui la presente formazione sociale deve
affrontare la sua fine. Qualcun altro, del resto, aveva sintetizzato il
dilemma in socialismo o barbarie.
Ma questo, per l’appunto, è l’oggetto di questo convegno...
Come
ultimo spunto, conseguenza anch’esso della lunga storia di sconfitte
incomprese e divisioni insensate, non si può evitare di sottolineare
come il
massimo di tensione mai registrata tra lo sviluppo delle forze
produttive e i rapporti di produzione corrisponda al punto forse più
basso fatto segnare dalla soggettività rivoluzionaria da un secolo a
questa parte.
Un problema teorico, certo, ma anche decisamente politico. Perché se
non c’è chi prende in mano la situazione, c’è solo la degenerazione...
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