Sicilia e Ostia hanno confermato una tendenza ormai storica:
l’astensionismo è sempre il primo dei “partiti” scelti dagli elettori.
Un crollo elettorale vertiginoso. Tanto per fare un esempio, nelle
elezioni statunitensi – parallelo ricorrente – l’anno scorso avevano
votato il 56% degli elettori. A Ostia il 36%, in Sicilia il 46%. Siamo
ampiamente al di sotto del triste riferimento americano. Siamo in
presenza allora non di un “normale” assestamento della democrazia
liberale che sopravvive soprattutto grazie alla scarsa partecipazione
politica (di cui il non voto è solo uno dei momenti). Siamo di fronte a
una mutazione genetica della democrazia rappresentativa, di cui rimane
la forma (elettorale), ma non più il contenuto (cosa e chi rappresentano
effettivamente gli eletti?). Domande che trovano spazio il giorno dopo
le diverse tornate elettorali, ma che scompaiono il martedì mattina,
proprio perché questo fatto rafforza più che indebolire i governi
liberali: perché preoccuparsene più di tanto?
Oltretutto, sembra confermata l’incapacità del “populismo” di
recuperare quote di astensionismo. Chi non vota non vota neanche M5S (nè
tantomeno Casapound, che da giorni strepita di “risultato eclatante”
per l’elezione di un consigliere nello storico feudo elettorale della
destra romana: a ciascuno le sue soddisfazioni).
Tutto bene allora, almeno a giudicare da alcuni commenti. Il sistema
si indebolisce, la popolazione si distacca dai suoi rappresentanti
politici, il “sistema” non convince più nessuno, la rivoluzione è dietro
l’angolo. Eppure la serie di sillogismi appena riferiti vive nella
completa astrazione della realtà materiale. La questione del non voto
slitta di significato: da fatto oggettivo, cui va dedicato ogni sforzo
analitico, si tramuta in fatto soggettivo, secondo cui chi non vota ha
preso coscienza, quantomeno “più coscienza”, di chi ancora si reca alle
urne. Questa interpretazione, in assenza di comprovati dati di fatto, è
una mera speranza, continuamente smentita dalla realtà.
La realtà è infatti quella di un non voto che rafforza il sistema
invece di minarne le fondamenta. E lo rafforza perché il distacco
elettorale non si trasforma in un ritorno, magari confuso, alla
partecipazione politica. Non si avverte in nessun momento della vita
della società italiana, o anche solo romana, un ritorno alla dimensione
politica, men che meno rispetto alla partecipazione non convenzionale e
di base. Si converte direttamente in disinteresse per la stessa, in una
stretta individualistico-egoistica della propria propensione politica
che ha molto a che vedere con il qualunquismo. Si dirà che da queste
parti si è spesso predicata l’astensione come scelta politica. Non solo è
vero ma, anche nei recenti casi di Sicilia e Ostia, l’unica scelta
possibile rimaneva l’astensione. Alcuni di noi vivono nel X Municipio e,
ovviamente, non si sono recati a votare: impossibile scegliere tra
varie destre: liberiste, reazionarie, cattoliche, neoliberali. Ciò non
toglie che quel 64% di astenuti non ci facilita alcun compito, semmai ce
lo ingarbuglia.
Il non voto va spiegato con ragioni strutturali, che abbiamo
continuamente indagato in questi anni: la fine di qualsiasi orizzonte
economico redistributivo rende inefficace ogni legame politico duraturo;
l’assenza di alternative politiche posizionate espressamente fuori dal
perimetro neoliberale trasforma ogni voto in un plebiscito per l’arco
politico ufficiale, al di là delle differenze di ceto politico tra
destra e “sinistra”; la scomparsa sociale della sinistra – ma più in
generale di tutta la politica – trasforma ogni voto in voto d’opinione,
ma l’unica opinione prevista è quella liberale. Il sistema politico è
strutturalmente incapace, dunque, di generare consenso. Si limita ad
impedire il dissenso, e lo fa non con la repressione (se non in casi
complessivamente isolati) ma con la cooptazione delle forme di dissenso
entro la razionalità liberista. Il capitalismo è perfettamente
disponibile a presentarsi green, eco-sostenibile, vegano,
alternativo, informale, femminista, ribelle, migrante, eccetera. Ogni
dissenso parziale genera un’economia ad esso collegata. L’importante è
stroncare qualsiasi forma organizzativa che faccia vivere nelle lotte un’altra idea di società. Non è la suggestione teorica a impensierire il capitale, quanto la sua praticabilità materiale.
Questo non voto rappresenta dunque uno scollamento tra politica e
società, che però sta avvenendo, se così vogliamo sintetizzare, da
destra e non da sinistra. Manca la capacità delle forze politiche
alternative di intercettare questo scollamento, ma bisognerebbe pure
chiedersi: è possibile davvero intercettarlo? Un forte ritorno alla
partecipazione politica non porterebbe con sé anche un ritorno alla
mobilitazione elettorale? La militanza quotidiana e la dimensione
elettorale non persistono in universi paralleli e non comunicanti: sono
fenomeni che interagiscono tra loro e, in genere, l’una sostiene
l’altra.
L’astensionismo va allora compreso più che esaltato. Chi gode senza
capire del risultato astensionista non è molto diverso, nei fatti, da
chi costantemente ripropone la scorciatoia elettoralistica del “cartello
delle sinistre”: ambedue feticizzano un evento, le elezioni, perdendo
per strada le connessioni dialettiche che tale fenomeno ha con la
politica nella sua complessità.
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