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08/11/2017

Astensionismo e dintorni: avvertenze prima dell’uso

Sicilia e Ostia hanno confermato una tendenza ormai storica: l’astensionismo è sempre il primo dei “partiti” scelti dagli elettori. Un crollo elettorale vertiginoso. Tanto per fare un esempio, nelle elezioni statunitensi – parallelo ricorrente – l’anno scorso avevano votato il 56% degli elettori. A Ostia il 36%, in Sicilia il 46%. Siamo ampiamente al di sotto del triste riferimento americano. Siamo in presenza allora non di un “normale” assestamento della democrazia liberale che sopravvive soprattutto grazie alla scarsa partecipazione politica (di cui il non voto è solo uno dei momenti). Siamo di fronte a una mutazione genetica della democrazia rappresentativa, di cui rimane la forma (elettorale), ma non più il contenuto (cosa e chi rappresentano effettivamente gli eletti?). Domande che trovano spazio il giorno dopo le diverse tornate elettorali, ma che scompaiono il martedì mattina, proprio perché questo fatto rafforza più che indebolire i governi liberali: perché preoccuparsene più di tanto? Oltretutto, sembra confermata l’incapacità del “populismo” di recuperare quote di astensionismo. Chi non vota non vota neanche M5S (nè tantomeno Casapound, che da giorni strepita di “risultato eclatante” per l’elezione di un consigliere nello storico feudo elettorale della destra romana: a ciascuno le sue soddisfazioni).

Tutto bene allora, almeno a giudicare da alcuni commenti. Il sistema si indebolisce, la popolazione si distacca dai suoi rappresentanti politici, il “sistema” non convince più nessuno, la rivoluzione è dietro l’angolo. Eppure la serie di sillogismi appena riferiti vive nella completa astrazione della realtà materiale. La questione del non voto slitta di significato: da fatto oggettivo, cui va dedicato ogni sforzo analitico, si tramuta in fatto soggettivo, secondo cui chi non vota ha preso coscienza, quantomeno “più coscienza”, di chi ancora si reca alle urne. Questa interpretazione, in assenza di comprovati dati di fatto, è una mera speranza, continuamente smentita dalla realtà.

La realtà è infatti quella di un non voto che rafforza il sistema invece di minarne le fondamenta. E lo rafforza perché il distacco elettorale non si trasforma in un ritorno, magari confuso, alla partecipazione politica. Non si avverte in nessun momento della vita della società italiana, o anche solo romana, un ritorno alla dimensione politica, men che meno rispetto alla partecipazione non convenzionale e di base. Si converte direttamente in disinteresse per la stessa, in una stretta individualistico-egoistica della propria propensione politica che ha molto a che vedere con il qualunquismo. Si dirà che da queste parti si è spesso predicata l’astensione come scelta politica. Non solo è vero ma, anche nei recenti casi di Sicilia e Ostia, l’unica scelta possibile rimaneva l’astensione. Alcuni di noi vivono nel X Municipio e, ovviamente, non si sono recati a votare: impossibile scegliere tra varie destre: liberiste, reazionarie, cattoliche, neoliberali. Ciò non toglie che quel 64% di astenuti non ci facilita alcun compito, semmai ce lo ingarbuglia.

Il non voto va spiegato con ragioni strutturali, che abbiamo continuamente indagato in questi anni: la fine di qualsiasi orizzonte economico redistributivo rende inefficace ogni legame politico duraturo; l’assenza di alternative politiche posizionate espressamente fuori dal perimetro neoliberale trasforma ogni voto in un plebiscito per l’arco politico ufficiale, al di là delle differenze di ceto politico tra destra e “sinistra”; la scomparsa sociale della sinistra – ma più in generale di tutta la politica – trasforma ogni voto in voto d’opinione, ma l’unica opinione prevista è quella liberale. Il sistema politico è strutturalmente incapace, dunque, di generare consenso. Si limita ad impedire il dissenso, e lo fa non con la repressione (se non in casi complessivamente isolati) ma con la cooptazione delle forme di dissenso entro la razionalità liberista. Il capitalismo è perfettamente disponibile a presentarsi green, eco-sostenibile, vegano, alternativo, informale, femminista, ribelle, migrante, eccetera. Ogni dissenso parziale genera un’economia ad esso collegata. L’importante è stroncare qualsiasi forma organizzativa che faccia vivere nelle lotte un’altra idea di società. Non è la suggestione teorica a impensierire il capitale, quanto la sua praticabilità materiale.

Questo non voto rappresenta dunque uno scollamento tra politica e società, che però sta avvenendo, se così vogliamo sintetizzare, da destra e non da sinistra. Manca la capacità delle forze politiche alternative di intercettare questo scollamento, ma bisognerebbe pure chiedersi: è possibile davvero intercettarlo? Un forte ritorno alla partecipazione politica non porterebbe con sé anche un ritorno alla mobilitazione elettorale? La militanza quotidiana e la dimensione elettorale non persistono in universi paralleli e non comunicanti: sono fenomeni che interagiscono tra loro e, in genere, l’una sostiene l’altra.

L’astensionismo va allora compreso più che esaltato. Chi gode senza capire del risultato astensionista non è molto diverso, nei fatti, da chi costantemente ripropone la scorciatoia elettoralistica del “cartello delle sinistre”: ambedue feticizzano un evento, le elezioni, perdendo per strada le connessioni dialettiche che tale fenomeno ha con la politica nella sua complessità.

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