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02/02/2018

Gentiloni “piange” per le disuguaglianze dopo averle create


In campagna elettorale ogni candidato si sente autorizzato a dire scemenze che possano farlo sembrare “vicino alla ggente”. Ma c’è qualcuno a cui proprio non è possibile concedere questo tipo di giustificazione.

Il presidente del Consiglio ancora in carica – Paolo Gentiloni, dicono – se n’è uscito ieri auspicando “una crescita più inclusiva”, perché quella registrata negli ultimi anni “per la prima volta non ha comportato una diminuzione delle diseguaglianze”; il che “per una forza di sinistra sono inaccettabili”.

Abbiamo cercato a lungo una parola per qualificare questa lamentazione “presidenziale”, ma l’unica che ci sembra adeguata resta porcata. E in effetti soltanto se si dimenticano le maialate compiute da tutti i governi degli ultimi 25 anni (dai trattati di Maastricht in poi; ma non è che quelli precedenti fossero migliori) si può pretendere – da governante! – di recitare la parte della “sinistra sensibile alle sofferenze”.

Un breve elenco a memoria può aiutare a inquadrare meglio l’oscenità della recita gentiloniana.

1995. La “riforma Dini” aggredisce il sistema pensionistico per la prima volta dal 1970. Viene drasticamente separato il destino di coloro che da lì a poco (1 gennaio ‘96) avrà maturato 18 anni di lavoro con “sistema retributivo” da quelli che, con anzianità lavorativa inferiore e in generale chi comincerà a lavorare solo dopo quella data, si vedranno consegnare in futuro un assegno calcolato col “contributivo”, molto meno vantaggioso. In altre parole viene allora istituita una disuguaglianza di trattamento per legge. Ossia per volontà del Parlamento e dello Stato.

1997. Viene varato dal governo Prodi il “pacchetto Treu”, presentato come una norma mirante a “contrastare la disoccupazione”. In realtà vengono resi legali una lunga di contratti precari (part time, a termine, tirocinio formativo, interinale, job sharing, apprendistato, ecc) che introducono una diseguaglianza feroce rispetto a quanti mantengono o vengono assunti con un contratto a tempo indeterminato (protetti dall’art. 18, che impediva il licenziamento “senza giusta causa”).

2003. Il governo Berlusconi vara la cosiddetta “legge Biagi”, a firma in realtà di Roberto Maroni, che allarga a oltre 40 le tipologie di contratto precario previste dal “pacchetto Treu”. In altri termini, si estendono per legge le disuguaglianze.

2004. Stesso governo e stesso ministro, viene varata una riforma delle pensioni che introduce degli “scaloni” per allungare a data fissa l’età pensionabile. In sostanza, si moltiplicano le disuguaglianze di trattamento tra persone con la stessa età e identica anzianità lavorativa.

Nel frattempo l’opinione pubblica viene bombardata da giornali e televisioni mainstream, tutti concordi nello stigmatizzare le “disuglianze” sui trattamenti pensionistici, sui livelli salariali, tra lavoratori precari e stabili, con diritti o senza.

Questo “dibattito” molto unilaterale, accompagnato in silenzio dai sindacati complici (Cgil, Cisl, Uil, Ugl – prima fascista, ora leghista), porta a numerose “riforme” ordinate dall’Unione Europea che puntano a “ridurre le disuguaglianze” peggiorando le condizioni per tutti i lavoratori e per tutti i pensionati.

2011. La più famosa delle riforme delle pensioni, quella “Fornero” (governo Monti, presunto “tecnico”), innalza drasticamente l’età pensionabile a 66 anni e 7 mesi, introducendo anche un meccanismo automatico di aumento ulteriore legato all’“aspettativa di vita”. La volontà criminale della riforma è evidente già per un solo elemento: se l’aspettativa di vita dovesse calare (è già successo nel 2015 e 2016) l’età pensionabile non cala a sua volta. A far le spese della riforma Fornero sono centinaia di migliaia di lavoratori che improvvisamente si ritrovano senza più un lavoro ma parzialmente protetti dagli ammortizzatori sociali pensati per un’età pensionabile più bassa. Costoro diventeranno famosi come “esodati”. Un’altra diseguaglianza infame decisa da un governo dello stesso tipo.

2014-2015. Il governo Renzi vara il Jobs Act, che cancella numerose protezioni (tra cui l’art. 18, contro cui si era inutilmente scagliato più volte Berlusconi), e introduce il “contratto a tutele crescenti” (in realtà “inesistenti”). In un certo senso questa “riforma” riduce le diseguaglianze, ma al livello più infame: cancella infatti le tutele per tutti i tipi di contratto, consegnando tutti i lavoratori – di ogni età, specializzazione, anzianità di servizio – all’arbitrio minaccioso degli imprenditori.

E’ un elenco parziale e incompleto, naturalmente. Ma ci sembra sufficiente a indicare in tutti i governi di questo paese i primi responsabili delle disuguaglianze e, soprattutto, del peggioramento verticale delle condizioni di vita della maggior parte della popolazione.

Vade retro, Gentiloni!

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