Una settimana di sit-in: 2.300 operai della National Cement Company
egiziana, ad Helwan, stanno protestando da sette giorni contro la
riduzione dei bonus mensili, un calo significativo, dal 390% dello
stipendio minimo al 75%.
La compagnia è ferma dal 6 novembre dello scorso anno, spiega un ingegnere in condizione di anonimato all’agenzia indipendente Mada Masr,
a causa di gravi perdite finanziarie (si parla di 11 milioni di euro di
deficit), senza che nulla venisse comunicato ai lavoratori. Secondo
Abdel Moneim al-Gamal, segretario del sindacato dei lavoratori nelle
costruzioni, le perdite e il conseguente stop è da imputare alla
corruzione interna alla National Cement Company e ha fatto
sapere che domenica scorsa il sindacato ha dato ai vertici un ultimatum
di 10 giorni per indagare sui casi di corruzione.
Altre fonti interne attribuiscono la crisi alla liberalizzazione dei
prezzi dell’energia, a partire da novembre 2016, che avrebbe aumentato i
costi di produzione perché la compagnia utilizza gas naturale e non si è
ancora convertita a risorse alternative.
Agli operai è stata offerta la pensione anticipata, ma pochi dettagli sono emersi, spingendoli alla protesta. Una
protesta comprensibile: lo stipendio base è pari a 1.500 sterline
egiziane, 68 euro, che con i bonus mensili sale a 6.150, 282 euro. Con
la riduzione dei bonus fino a maggio calerebbe a 206 euro e a partire da
giugno a 120 euro al mese.
La protesta dei 2.300 operai ha fatto da sfondo silenzioso alla
visita di Mohammed bin Salman, erede al trono saudita che ha scelto
l’Egitto come prima tappa del suo tour mediorientale, il primo che
compie da re in pectore. Pochi giorni prima dell’arrivo al Cairo, la
Corte Costituzionale ha dato il via libera alla contestata cessione
delle isole Tiran e Sanafir, sul Mar Rosso, che tante proteste – e tanti
arresti – ha provocato in questi ultimi due anni contro il governo e il
presidente al-Sisi, da quando nell’aprile 2016 l’ex generale accolse re
Salman promettendogli la cessione di sovranità sulle due strategiche
isolette.
Ieri dalla capitale Mohammed bin Salman e al-Sisi hanno
confermato la forza dei rapporti tra i due paesi e promesso di
cementarli ulteriormente, una solidità che negli ultimi anni post-golpe
si è tradotta in ingenti aiuti finanziari da parte di Riyadh alla
debole economia egiziana e la conseguente dipendenza del Cairo alle
politiche regionali saudite, dalla guerra in Yemen a quella contro i Fratelli Musulmani.
I tre settori al centro della discussione sono stati petrolio,
infrastrutture ed elettricità. In particolare, fa sapere Tarek al Molla,
ministro egiziano del petrolio, la compagnia semistatale
saudita Aramco fornirà 500mila barili di greggio ogni mese all’Egitto,
mentre le reti elettriche dei due paesi saranno connesse per uno scambio
di 3mila megawatt l’ora. E ancora il ponte Re Salman che attraverserà
proprio Tiran e Sanafir per incrementare i flussi turistici,
costo previsto di quattro miliardi di dollari; il progetto Neom, una
mega città a cavallo tra Egitto, Giordania e Arabia Saudita, grande
26.500 km quadrati per un totale di 500 miliardi di investimenti; e un
oleodotto che passerà anche questo per le due isole sul Mar Rosso e che
attraverso il Canale di Suez raggiunga il Mar Mediterraneo e dunque
l’Europa.
Sullo sfondo la creazione di un Fondo d’investimento congiunto tra
Egitto e Arabia Saudita che parta da un capitale di 16 miliardi di
dollari e che finanzi, come primi progetti, una centrale elettrica a
Dairout, sud del Cairo, un impianto di trattamento delle acque e alcune
piani residenziali in Sinai e lungo la costa.
Una serie di accordi vitali per la debole economia egiziana che cementano ancora di più la subalternità del Cairo.
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