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01/04/2018

La logica del potere

La domanda è di grande attualità: come si determinano i meccanismi di accesso all’effettiva gestione del potere politico in tempi di società complessa, dove appaiono evidenti i limiti dei “corpi intermedi” e delle stesse formazioni di governo?

Come può essere possibile non confondere potere e governo, tanto più che il governo appare ormai esprimersi attraverso la formula a “bassa intensità” dell’obbligo alla governabilità quale fine esaustivo dell’agire politico?

L’interrogativo è d’obbligo, proprio in una fase in cui due soggetti come Lega e M5S, già etichettati a livello di analisi politica come “populisti”, hanno aperto una fase di confronto che dovrebbe, alla fine, sfociare nella formazione del nuovo governo della Repubblica (sempre che il M5S abbia davvero l’intenzione di provarci al governo: ma questo discorso farebbe parte, oggi come oggi, di una dietrologia che non deve far parte di un tentativo serio di analisi politica).

Da notare che in entrambi i soggetti in questione, Lega e M5S, non pare esprimersi una “volontà di governo” ma piuttosto una sorta di “bramosia del potere” (che poggia su di una concezione dell’agire politico che c’è più volte capitato di definire dell’“individualismo competitivo”).

Partiamo quindi dall’idea (al momento tutta da verificare) di un governo per la formazione del quale si misurino le due forze emergenti dal dato elettorale del 4 marzo 2018: Lega e M5S.

Un governo che, almeno nelle intenzioni dei possibili proponenti e stando al loro livello di proposta esplicitato in campagna elettorale, rappresenterebbe un vero e proprio punto di cesura rispetto alle dinamiche politiche che si erano espresse nel corso dell’ultimo ventennio.

Ultimo ventennio che, a partire dalla prima modifica della legge elettorale, era trascorso prima attraverso l’alternanza tra centro destra e centro sinistra, poi avendo al centro dell’azione dell’esecutivo la logica “modernizzante” del PD.

Il PD, nato a suo tempo sull’idea della “vocazione maggioritaria”, si è mosso in un primo tempo, sul piano del governo, all’indomani della “non vittoria” delle elezioni 2013 orientandosi in senso “europeista” e in un secondo tempo incentrando la sua azione sulla riforma delle istituzioni nel senso di uno spostamento dalla centralità del parlamento a quella del governo.

Un processo di riforma del resto già in atto da tempo (la cosiddetta”Costituzione materiale”) anche per via dell’emergere di una vocazione presidenzialista accentuata nel centro destra tra la fine degli anni’90 del XX secolo e del primo decennio del XXI. Vocazione presidenzialista ulteriormente definitasi con la gestione della Presidenza della Repubblica nei 9 anni di Giorgio Napolitano.

L’iniziativa del PD sulla riforma istituzionale posta sullo stesso terreno dove aveva già fallito la grande riforma del PSI negli anni’80, la commissione bicamerale presieduta da D’Alema alla fine degli anni ’90 e il progetto del centrodestra del 2006, è stata poi bocciata dal corpo elettorale anche per via di un’incauta manovra del gruppo dirigente democratico che portò, nell’occasione, al coagularsi di un fronte avversario sicuramente eterogeneo ma in grado di lasciare lo stesso PD assolutamente isolato.

Progetti falliti e comunque ormai superati dalla logica inesorabile del modificarsi delle condizioni politiche, quindi non più riproponibili (non soltanto per ragioni “tecniche”).

Torniamo allora alla domanda iniziale: quale potrebbe essere la “logica del potere” sulla base della quale potrebbe nascere non tanto e non solo un nuovo governo, ma un’intera fase politica mossa da logiche affatto diverse, se non alternative, rispetto al recente passato?

Per rispondere efficacemente è necessario ricostruire subito il quadro generale, ponendoci un ulteriore interrogativo: è ancora valido il fenomeno della “personalizzazione” della politica che appariva ormai giunto a sfiorare livelli preoccupanti in un rapporto tra il “capo” e le “masse”. Rapporto tra “capo” e masse” veicolato soltanto dal mezzo televisivo e/o dal web?

Un processo di personalizzazione della politica attraverso il quale sembrava realizzarsi un inquietante e per certi versi paradossale “dialogo” diretto tra il “politico” e la folla (uso il termine “folla” non a caso. Lo adopero nello stesso senso in cui lo usò Luigi Longo intervenendo alla prima direzione del PCI riunificato tra Sud e Nord, all’indomani della Liberazione; nel senso cioè di “folla indistinta”.)

Contestualmente all’emergere di questo fenomeno, e ci sarebbe da aggiungere quasi naturalmente, apparivano cambiati profondamente i partiti politici, ormai svuotati dalla partecipazione di iscritti e militanti ridotti al rango di “fruitori di eventi” (nel caso le cosiddette “primarie”).

Partiti politici trasformatisi in alcuni casi in “partiti personali elettorali” e in altri in una forma particolare del “partito acchiappatutti”: un modello questo che nella realtà del caso italiano appare molto più informe nella sua struttura e molto più caotico nella sua organizzazione di quanto non fosse stato immaginato nel momento della sua teorizzazione quale punto possibile di superamento del “partito di massa”.

Mentre la Lega mantiene le caratteristiche del partito incentrato sulla personalizzazione raccolta attorno al leader (senza però le caratteristiche del “proprietario”), il M5S appare come il prototipo di un ritorno all’all catch party, con la variante dell’uso della democrazia diretta realizzata attraverso il web quale vero e proprio “imprinting” del nuovo soggetto politico (“imprinting” offerto anche come modello all’intero sistema).

Sarà bene intenderci subito su di un’affermazione essenziale: la democrazia non è possibile senza partiti politici, perché il “pluralismo si esprime anche in organizzazioni stabili, durature, diffuse, che si chiamano – appunto – partiti” (Kelsen 1929, trad.it. 1966.) I partiti svolgono funzioni non assolvibili da nessun’altra organizzazione e non soltanto dal punto di vista della promozione elettorale, ma anche nei compiti oggi largamente disattesi se non del tutto ignorati della partecipazione alla vita pubblica, della formulazione di programmi, ai compiti di acculturazione di massa e di vera e propria integrazione sociale.

Partiti che, invece, oggi sembrano vivere (anche a livello locale) ormai soltanto attorno a due fattori determinanti: il potere si spesa e quello di nomina.

Potere di spesa e potere di nomina questo il vero e proprio crocevia sul quale realizzare, nei tempi moderni, l’incontro di governo: potere di spesa limitato, nella fattispecie, dal quadro europeo che comunque nel corso di questi anni attraverso la BCE e il suo Quantitative Easing ha offerto una sponda molto rilevante, imponendo però restrizioni nette su altri versanti.

In questo senso Lega e M5S si trovano davanti alla loro strada la necessità di costruire un’élite in grado di dialogare con quei livelli di potere “esterno” che condizionano potere di nomina e potere di spesa: nel primo caso le lobby operanti all’interno (lobby di varia natura, anche occulta) e all’esterno, nello specifico sul piano europeo, nel secondo caso.

Servirebbe scoprire l’elemento fondante di un possibile aggiornamento della “teoria delle élite”, da ricostruire come soggetto di riferimento verso la società da riordinare nel senso del “blocco storico”.

L’idea di recupero della soggettività politica, del partito, dovrebbe proprio ripartire da lì: dall’èlite riconosciuta da un blocco sociale di suo effettivo riferimento.

Un orientamento, in questo senso, lo indica già, per tornare agli autori “classici”, lo stesso Vilfredo Pareto, allorquando individua nell’eterogeneità sociale il costruirsi di una dicotomia ”stabile” tra una classe superiore e una classe inferiore e indica l’unica possibilità per ritrovare i migliori nelle posizioni di vertice nel continuo ricambio delle élite e al passaggio di individui da una classe all’altra (Sola, 2000).

Tocca però ad Antonio Gramsci costruire sul piano teorico la nozione di élite, partendo dall’insoddisfazione per la definizione coniata da Gaetano Mosca di “classe politica”.

Al pensatore sardo (“Quaderni del carcere” volume III, edizione Einaudi 1975) la definizione “classe politica” (concetto contro il quale sia Lega, sia M5S hanno costruito parte della loro fortuna elettorale, riducendolo nel contrasto al tema dei vitalizi e dell’andare alla Camera in autobus: quindi pericolosamente semplificatorio) appare “elastica e ondeggiante”, dal momento che “talvolta essa sembra sinonimo di classe media, altre volte è impiegata per indicare l’insieme delle classi possidenti, altre volte ancora fa riferimento alla “parte colta” della società o, più restrittivamente, al “personale politico” inteso come ceto parlamentare dello Stato”.

Per ovviare a questi inconvenienti e per ancorare la teoria delle élite alla metodologia marxiana e alla teoria delle classi, Gramsci, che pure utilizza in diverse occasioni il termine élite, propone di distinguere tra classe dirigente e classe dominante.

Ed è su questo punto che i due soggetti emergenti nell’Italia del 2018 rischiano un punto di deleteria confusione (deleteria almeno dal punto di vista dei loro progetti): il PD sotto quest’aspetto aveva ben scelto schierandosi nettamente dalla parte della classe dominante, anzi proponendosi come facilitatore nel sostegno delle logiche di dominio della stessa classe egemone almeno dal punto di vista della detenzione della ricchezza e del potere di indicare nominativamente quella che insistentemente si era auto definita come “classe dirigente”.

E’ l’intreccio tra “forza” e “consenso” che appare il punto debole della logica – sicuramente populista in termini classici – che ha portato Lega e M5S fino a realizzare il loro confronto sul tema del potere.

Premesso quindi che la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come “dominio” e come “direzione intellettuale e morale” Gramsci propone di chiamare classe dirigente quel gruppo che s’impone attraverso il consenso, ovvero esercita l’egemonia sugli altri gruppi sociali.

Viceversa è classe dominante quel gruppo che s’impone esclusivamente con la forza, con cui tende a liquidare o a sottomettere i propri avversari (forza che si può esercitare anche attraverso forzature costituzionali e non necessariamente attraverso la violenza).

Una classe può essere dominante e non dirigente oppure dirigente e non dominante.

Per Gramsci una classe politica può essere veramente tale se riesce a stabilire un corretto equilibrio nell’esercizio dell’egemonia: ed è questo un tema di grandissima attualità che sarebbe bene sottolineare con forza davanti all’opinione pubblica (non basta il 32% per sentirsi investiti direttamente dal “popolo” al destino di un esclusivo dominio).

Può così verificarsi facilmente lo “scivolamento in avanti” di una classe che intende essere dominante e non dirigente verso forme che sono state definite “fascismo senza dittatura” o “salazarismo soft” (come cercò di fare il governo Monti /Napolitano imponendo soluzioni unilateralmente drastiche proprio sul piano della materialità della vita quotidiana di larghi strati di popolazione pur non disponendo di alcuna forma di legittimazione popolare).

Il tema della costruzione delle élite è quindi strettamente connesso al tema dell’egemonia come conferma anche lo stesso teorico del “governo” Robert Dahl (1958) allorquando indica che: ”l’élite deve costituire un gruppo ben definito; le opinioni di questa élite debbono essere in contrasto con quelle di ogni altro possibile gruppo analogo; in tali casi, implicanti questioni politiche fondamentali le scelte dell’élite prevalgono regolarmente”.

E’ proprio l’ultima affermazione che ci riporta all’attualità perché è proprio l’assenza di capacità nell’individuare le questioni politiche fondamentali che impedisce la formazione stessa delle élite (mancando il presupposto indispensabile del “gruppo”) e di conseguenza la possibilità di far prevalere una tesi sull’altra proprio per l’assenza di definizione precisa dei termini di alternatività tra le tesi stesse.

Il tema del “reddito di cittadinanza”, indefinito per natura, è proprio quello più indicativo circa la difficoltà nel costruirvi attorno un confronto reale tra élite governante e soggetti sociali di riferimento.

Gli assunti di paradigma sui quali può poggiare il rinnovamento di una ricerca attorno alla costruzione di un’élite possono essere così definiti:

1) la politica è lotta per la preminenza e il potere va concepito come “sostanza” e non come “relazione”;

2) è necessario avere ben presente la distinzione tra potere reale e potere apparente; la lotta per il potere e l’attività politica in generale è fatto “minoritario” nella società;

3) la conquista, il mantenimento, la gestione del potere corrispondono alla capacità di coordinazione dei gruppi politici;

4) la società è una realtà irrimediabilmente eterogenea, gerarchica e conflittuale che non può essere raccolta e compresa nella genericità di indistinte (nel riferimento sociale) parole d’ordine.

Ci si deve, invece, soffermare sul ruolo che le idee, i miti e le dottrine assumono nel processo di legittimazione dell’autorità (a proposito, per esempio, della mistificante dottrina della “fine delle ideologie” propagandata fin dagli anni ’80 dai gruppi conservatori statunitensi e britannici).

In definitiva, il tratto essenziale della struttura di ogni società consiste nell’organizzazione dei rapporti che intercorrono tra governanti e governati, tra minoranza organizzata e maggioranza disorganizzata e nelle relazioni che si stabiliscono tra i diversi gruppi che detengono ed esercitano il potere: con buona pace di chi pensa come realistiche proposizioni quali quelle della “democrazia diretta” e della “democrazia del pubblico” mediate attraverso o le grandi adunate di massa o l’uso esaustivo del web in una compulsazione frenetica delle opinioni cui adeguare la logica di governo.

E’ su questo punto che appare particolarmente debole l’impostazione sulla quale sembra poggiarsi il M5S: la “democrazia diretta” in particolare agita pressoché esclusivamente attraverso il web potrà risultare utile per una raccolta immediata di consenso ma non consentirà la costruzione di una vera e propria élite dirigente in grado di proporre egemonia.

Sono questi gli elementi che debbono essere sottoposti alla riflessione politica nell’attualità del disfacimento del sistema cui stiamo assistendo: una riflessione da portare avanti attraverso un lavoro di studio che punti, proprio per citare nuovamente Gramsci, alla riunificazione tra teoria e prassi con un’ipotesi complessiva di trasformazione sociale collegata a un’élite ricostruita nell’interezza della sua identità di gruppo.

Naturalmente molte questioni sono state sottintese nell’elaborare questo intervento: l’analisi delle diverse specie di élite presenti in una stessa società, il tema delle relazioni tra le élite stesse e le masse, l’approfondimento circa i meccanismi di legittimazione che debbono essere attuati nell’acquisizione, nell’esercizio, nella detenzione e nel rovesciamento del potere.

Si tratta di punti essenziali da sottoporre, prima di tutto, a un non facile lavoro di vera e propria “ricostruzione intellettuale”, quello al quale pensiamo ci si debba dedicare con grande impegno in questa fase, senza dimenticare però l’attualità drammatica dei fenomeni di vero e proprio arretramento di massa in corso sul terreno delle condizioni di vita, del venir meno nella disponibilità di diritti individuali e collettivi, nel restringimento dei termini di esercizio della democrazia.

Un lavoro di “ricostruzione intellettuale” sul quale dovrebbe impegnarsi una sinistra legata alle soggettività apparentemente “dominate” principiando dal rappresentarne i bisogni immediati, ma muovendosi subito nell’idea di costruzione di un’alternativa fondata sulla riaggregazione di una dimensione politica delle differenze sociali nel senso della formazione di un blocco sociale: forse Gramsci avrebbe, a questo punto, usato il termine “classe”.

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