«Vi abbiamo messo in guardia contro la retorica umanitaria degli
stati capitalisti che si dichiarano pronti a venire in soccorso della
Russia sovietica affamata». Così si avviava il primo numero della
“Correspondance Internationale” nel lontano 1921, quando gli immediati
tentativi messi in atto dalle potenze mondiali, fino a poco prima
impegnate in una lotta per l’annientamento reciproco, si concentravano
per sopprimere sul nascere il più grandioso tentativo rivoluzionario che
la storia abbia conosciuto. Il Venezuela non è di certo la nascente
Unione Sovietica – sebbene sia una delle poche esperienze rivoluzionarie
che abbia tenuto alta la bandiera della sinistra di classe riuscendo a
dare ancora un senso a questo lèmma – ma la fase imperialista, mutatis
mutandis, è sempre la stessa.
E le ingerenze delle potenze imperialiste in paesi in cui sorge
un’alternativa anticapitalista, contrabbandate a mezzo stampa per
interventi umanitari (proprio come quelle a cui abbiamo assistito nel
caso venezuelano, con estremi quali i tentativi di sfondamento da parte
di convogli provenienti dal confine colombiano) (leggi),
sono uno strumento vecchio e stravecchio, come testimonia in modo
chiaro il titolo dei rivoluzionari del ’17. Una storia di lungo corso
quella di questo genere di interventi “umanitari”, che se venisse
ripercorsa mettendola nero su bianco, ci si potrebbe per assurdo
riempire le pagine di questo blog. Ovviamente non è questo l’esercizio
che a noi interessa sebbene anche la mera cronaca, talvolta, sembri
esercitare effetti miracolosi sulla generale assenza di memoria storica
che caratterizza il nostro secolo. Quello che ci preme ricordare adesso,
invece, sono alcune delle ragioni che hanno precipitato una delle più
originali esperienze del socialismo moderno in una fase di stallo e di
crisi, di cui fanno parte anche, ma non solo, gli appetiti
imperialistici.
Prima di tutto, però, sgomberiamo il campo da alcune ambiguità. Il
processo rivoluzionario in Venezuela è un movimento storico carico di
limiti e gravido di contraddizioni – come ogni processo rivoluzionario
degno di questo nome, d’altronde – ma è un’esperienza, forse l’unica se
storicizziamo gli anni che seguono la caduta dell’URSS, che in una certa
forma ha contribuito a garantire respiro e continuità a una sinistra di
classe che, presa globalmente, versava in una situazione di crisi
profonda.
Il discorso sembra acquistare ancora più peso se guardiamo alla sinistra
europea di quegli anni, divisa tra chi aveva cessato di cercare
criticamente un’alternativa e chi, invece, passava con inedita agilità
da inamovibile sostenitore del gradualismo riformista a quello della
controrivoluzione liberista.
In questo senso – lo abbiamo scritto più volte, ma questo è un
concetto che non fa mai male ricordare quando si tenta l’analisi critica
di un processo rivoluzionario – la sinistra di classe in Europa ha solo
da imparare da chi ha dato corpo alla rivoluzione in Venezuela e ben
poco, se non nulla, da insegnare. Inoltre, Il fatto che fino a poco
tempo fa lo scontro di classe in atto in Venezuela fosse costantemente
presente su tutte le testate nazionali e internazionali, mentre oggi
sembra essere già stato dimenticato, è certamente il segno
inequivocabile di un momento di relativa calma. Una boccata di ossigeno,
certo, per le forze che sostengono il processo rivoluzionario
venezuelano rispetto a quando i toni da guerra civile erano il lessico
obbligato ma tuttavia, crediamo che debba essere preso come il passaggio
di un’onda, seppure di grosse dimensioni, che prepara, come in ogni
tempesta perfetta, l’avvento del flutto più grosso e ben più pericoloso.
Qualsiasi forma di solidarietà episodica, quindi, o di tentativo di
analisi che interviene solo e soltanto quando una fase di crisi
s’inasprisce e il “momento venezuelano” viene schiaffato su tutti gli
organi di stampa con aperta volontà da guerra mediatica, non può che
risultare di scarsa efficacia quando non di pericolosa convergenza. E’
francamente insopportabile leggere di chi si ricorda che il Venezuela
esiste solamente quando le scintille dello scontro di classe in atto
bruciano anche le pagine dei nostri giornali, e chi si dimena – per fare
solo un paio di esempi tra i tanti possibili – perché si sta consumando
un disastro ecologico nella fascia dell’Orinoco (tradotto: che esiste
una contraddizione tra successo del processo rivoluzionario in atto e
indipendenza energetica), o grida al caudillismo quando una destra
golpista viene contrastata sul piano elettorale con ogni mezzo a
disposizione (tradotto: che esiste una contraddizione tra avanzamento
del processo rivoluzionario in Venezuela e democrazia borghese). E’ la
solidarietà di classe e internazionalista la migliore critica quando un
processo giudicato come autenticamente rivoluzionario è sotto attacco, e
non la solidarietà formale ed episodica, ne tantomeno la critica
sincronizzata all’offensiva del nemico.
Questo tipo di solidarietà, lo sappiamo bene, è merce rara oltre che
materia prima davvero difficile da garantire in una fase di complessivo
arretramento. Consci di queste difficoltà e altrettanto sicuri che
un’analisi critica non può che partire da questi presupposti, guardiamo
allo svolgersi degli eventi nel continente latino americano con la
stessa cocciuta smania di afferrare il conflitto di classe in atto,
ancora oggi l’alfa e l’omega di un’analisi concreta, di un’ analisi
effettivamente attuale.
Ma veniamo a quanto accade nell’unico paese che non si è piegato al
cambio di marcia che sembra non trovare ostacoli nel continente. Prima
di tutto bisogna constatare che ad essersi aperta la “crisi” è ormai un
lasso di tempo piuttosto consistente. Ne è passata di acqua sotto i
ponti da quando si sono celebrate le elezioni presidenziali del 2013 tra
Nicolas Maduro e il temporaneo leader dell’eterogeneo fronte
reazionario Capriles, volto politico di un partito ormai ridotto al
lumicino. Un appuntamento elettorale, quello, vinto per un soffio dal
fronte bolivariano e che ha certificato, oltre ad una spaccatura
apertasi nel paese, una sensibile perdita di consensi dell’alternativa
bolivariana ancora fiaccata dalla prematura scomparsa del comandante
Chavèz. Il fatto che questa “crisi” sia in atto da almeno sei anni non è
un dato secondario e superfluo, almeno se lo si guarda alla luce dei
continui annunci dell’imminente guerra civile che dovrebbe investire il
paese e delle letture catastrofiste che, frammiste alle analisi che
danno per putrescente lo stato venezuelano, imperversano da sempre nel
dibattito.
Il movimento bolivariano e la forma che ha assunto in questa fase la
rivoluzione in Venezuela, forma di cui fanno parte anche, ma non solo,
le istituzioni della Repubblica Bolivariana, resiste sotto i colpi
inflessibili ed incrociati di chi vuole invertire la rotta nel
continente – inversione che in altri, molti paesi sud-americani è già
avvenuta – e ad ogni annuncio di imminente crollo della rivoluzione
questo risponde con una pronta e inappellabile smentita, quella dei
fatti. Naturalmente questo non può farci perdere di vista che le
difficoltà e gli ostacoli reali cui si trova a dover far fronte il
chavismo sono evidenti ed inediti, ma tra il dire che in un dato paese
ci si trova di fronte ad un complesso istituzionale sull’orlo del crollo
– visione sempre scientemente calibrata sul piano
politico-istituzionale e mai su quello sociale – e il constatare,
invece, che nello stesso paese un soggetto politico non unitario come il
movimento bolivariano si trova sotto attacco e in competizione con un
fronte reazionario, ma risponde colpo su colpo e si ridefinisce nella
lotta, c’è una bella differenza.
Sei lunghi anni, dunque, che hanno visto accendersi una scia di lotta
politica con le elezioni presidenziali del 2013 e proseguire fino a
quella che noi conosciamo come la crisi presidenziale del 2019, passando
per una serie di turbolenti e complicati eventi tra cui tentati golpe
(militari e non); attentati alla figura del presidente della Repubblica;
continue, incessanti e pericolose manovre militari straniere ai confini
dello Stato venezuelano; ostracismo politico diplomatico quasi
generalizzato nel continente; la vittoria elettorale della destra
golpista che ha conquistato l’Assemblea nazionale nel 2015; una
crescente guerra economica messa in atto dalla più grande potenza
mondiale e che oggi ha raggiunto il grado di problema principale oltre
che una progressiva caduta degli alleati regionali sotto i colpi
dell’offensiva reazionaria continentale. Insomma, di tutto e di più (e
sicuramente la lista non è completa): ma quale la lezione, seppur
provvisoria, che si può trarre dalle vicende venezuelane?
Gli aspetti che appaiono come cruciali, tra i molti possibili, e di
cui la lotta in atto a Caracas può raccontarci qualcosa sembrano essere
almeno due. Cominciamo dal primo e più evidente. La dipendenza economica
che il Venezuela continua a sopportare nelle sue molteplici forme è un
tratto problematico dell’esperienza bolivariana (ma prima ancora
strutturale del paese) e si è rivelata essere la più pericolosa delle
falle che il sistema venezuelano accoglie, prontamente sfruttata dalle
forze reazionarie con in testa gli Stati Uniti. La difficoltà, se non
l’impossibilità nel medio periodo di conquistare un’indipendenza
economica – sebbene gli sforzi per arrivare ad un simile obiettivo siano
stati ripetuti, o almeno di affrancarsi parzialmente – derivano dalla
dimensione quantitativa e da quella qualitativa che questa dipendenza
sembra avere.
La Repubblica bolivariana del Venezuela, infatti, come leggiamo in un
saggio veramente ricco di dati dell’economista venezuelana Pasqualina
Curcio (1), importa complessivamente il 24% del totale
dei beni dagli Sati Uniti d’America, i quali sono seguiti dalla
Repubblica popolare Cinese con una quota consistente del 15% e dal
Brasile, la Colombia (la principale testa di ponte degli Yankee per
qualsiasi guerra sporca nel continente), l’Argentina e il Messico. Tra
questi, i medicinali necessari al funzionamento del sistema sanitario in
Venezuela per il 37% provengono dagli Sati Uniti d’America (gli stessi
medicinali che, venendo improvvisamente a mancare, hanno generato
l’inedita crisi sanitaria di cui il mondo parla) seguiti da Messico,
Germania e Colombia (rispettivamente per il 15,13 e 12%). Proseguendo
nella disamina delle importazioni si nota che, dopo i medicinali,
nonostante il Venezuela possieda una quasi totale indipendenza
agroalimentare (l’88% della produzione è autoctona e una larga parte è
fornita dai piccoli produttori), quel restante 12% viene riempito ancora
dagli USA e dalla Colombia. Last but not least, soprattutto se si parla
d’indipendenza economica nella regione, il Venezuela è costretto,
almeno per ora, a importare la vertiginosa cifra del 50% di macchinari,
equipaggiamento per la produzione e ricambi – in tre parole i mezzi di
produzione – indovinate un po’ da chi? ancora gli Stati Uniti d’America.
Se si scorre rapidamente il quadro delle cifre fino a adesso elencate
non sembra possibile interpretare diversamente da una strutturale e
immobilizzante dipendenza economica dal capitale americano la morfologia
che l’economia venezuelana ha assunto, certamente ereditata da decenni
di dipendenza neo-coloniale ma in parte mantenuta viva da altri fattori.
Da una parte il dato empirico ci conferma la fonte, l’origine
inequivocabile della scarsità di beni di prima necessità, della mancanza
di medicinali, della difficoltà d’incremento produttivo e di tutte
quelle circostanze che concorrono a definire un quadro di crisi
economica e sociale. Dall’altra, gli stessi dati certificano il limite
invalicabile che un determinato sviluppo delle forze produttive,
inchiodato tra le maglie dell’influenza del capitale statunitense nel
continente e l’ostruzionismo di un settore privato che persegue una
lucida politica di scarsità programmata generando squilibri nel mercato
interno esercita sul paese.
A questo va aggiunta la rigidità di un sistema politico che basa una buona parte dei suoi successi sull’estrazione del petrolio.
Anche su la ben nota dipendenza dell’economia venezuelana dal petrolio e
dalla sua gestione, tuttavia, ci sarebbe da dire molto, e si dovrebbe
quantomeno tentare di superare un ragionamento bloccato tra la critica
fanatica all’impiego delle risorse petrolifere e il sostegno di
politiche economiche che seguono specularmente l’agenda politica
dell’OPAC.
In realtà, infatti, l’affrancamento dalla dipendenza totale delle
risorse petrolifere viene in una certa misura perseguito dalle autorità
venezuelane, e anche qui nel suo “La mano visibile del mercato” la
Curcio ci mostra come, nonostante il prezzo del greggio al barile abbia
seguito un crollo vertiginoso dal 2012 al 2015 (all’incirca dai 103,46
dollari ai 44,65 al barile), una flessione che avrebbe dovuto causare
uno shock dell’intero sistema economico, il prodotto interno lordo per
quanto riguarda la fetta del settore privato diminuì in maniera
sensibile ma non catastrofica, mentre i dati del settore controllato
dallo stato segnarono un piccolo aumento del 4%. Un dato parziale,
certamente, ma che fornisce qualche elemento in più per ragionare sulla
vulgata che ci racconta di un sistema economico paralizzato
dall’estrattivismo e dalla rendita.
Il nocciolo della questione si trova nel ruolo che il settore
petrolifero nelle mani dello stato bolivariano ricopre, ovvero quello di
una sorta di formidabile welfare pronto all’utilizzo, e non nella
presupposta ingombrante presenza di questo settore nell’economia. La
crisi e la scarsità venezuelana, dunque, derivano prima di tutto dalla
presenza di monopoli nel settore privato tanto quanto dalla dipendenza,
in alcuni settori pressoché paralizzante, dalle importazioni che sono
poi garantite dai nemici giurati della rivoluzione, e non dall’uso
spregiudicato – e in senso progressista per altro – delle risorse
petrolifere. Certamente la questione è ben più complessa e non si può
non tener conto di come questo strumento sia stato impiegato nel quadro
della costruzione dello stato bolivariano: se non come panacea per ogni
male capitalistico, almeno come ottima carta da spendere quando il gioco
per il governo cominciava a farsi duro.
Un meccanismo che non è riuscito a mantenere un’efficacia attraverso la crisi – anche petroliferia – che ha investito il paese.
Alla luce di queste brevi considerazioni sull’aspetto economico,
tentiamo invece di abbozzare qualche ragionamento sul piano politico. La
serie di eventi che ha scosso l’esperienza bolivariana, anche se
giustamente ricondotti a un intervento pianificato della reazione nel
continente, non possono non evidenziare una crisi di consensi o quanto
meno l’incrinarsi del piano fino ad ora sostenuto dal progetto del
socialismo del XXI secolo. Non convince fino in fondo, infatti, l’idea
che riconduce la sconfitta elettorale del fronte bolivariano, certamente
un episodio nella lunga serie di vittorie elettorali che il chavismo
può vantare, come il semplice frutto delle macchinazioni di potenze
straniere (che pure ci sono in abbondanza) o della manipolazione
mediatica (che pure lavora incessantemente per colpire il governo).
A questi due aspetti, che certamente esistono e giocano un ruolo non
secondario, va aggiunto, cercando di coglierlo nel quadro dei rapporti
di forza politici, il controllo dei settori strategici dell’economia di
cui il ragionamento appena fatto tenta brevemente di parlare, anche se
da una singola angolazione. La sconfitta elettorale del chavismo,
infatti, è stata effettiva e oltre ad evidenziare un inasprimento della
lotta con l’imperialismo e con i blocchi capitalistici venezuelani, ha
messo sotto i riflettori la difficoltà che l’alternativa bolivariana ha
incontrato nella ridefinizione e nel capovolgimento delle geometrie
politiche che attraversano il paese.
Il fatto che nel paese permanga la possibilità reale che un’offensiva
reazionaria trovi un sostegno robusto nei blocchi reazionari che si
annidano nel paese esprimendo campagne mediatiche e politiche per
disarcionare il governo bolivariano, oltre ad essere garantita dalle
risorse pressoché illimitate dell’imperialismo yankee è il prodotto del
permanere di condizioni sociali che la tutelano.
All’ipocrita mitizzazione del momento elettorale borghese, esercizio da
cui sono veramente rimasti in pochi a sottrarsi, e che non può che
portare un punto di vista di classe in un vicolo cieco, è sacrosanto
contrapporre il tentativo di costruire, da parte di un governo
rivoluzionario delle forme alternative e inedite di consenso e
partecipazione popolare, degli strumenti nuovi con cui suffragare il
progetto che la rivoluzione mette in atto giorno per giorno e che
certamente sfugge alle società di monitoraggio dei processi elettorali o
ai canoni di valutazione delle istituzioni internazionali.
Tuttavia, anche qui, occorre spendere due parole in più per cercare
di spingere il ragionamento oltre. Come suggeriva Marx solamente qualche
anno più tardi del primo esperimento di governo socialista «il diritto,
come le forme di espressione politica sancite dalla legge, non può mai
essere più elevato della configurazione economica e dello sviluppo
culturale, da essa condizionato, della società». Se, infatti, un governo
come può essere quello bolivariano combatte con ogni mezzo a sua
disposizione per mantenere le posizioni raggiunte dal processo
rivoluzionario e difende con le unghie e con i denti le conquiste
raggiunte dalle masse sovvertendo anche le forme giuridiche borghesi e
stravolgendo i canoni democratici liberali, lo fa in virtù della nuova
forma cui la società venezuelana è giunta, prodotto della prassi
rivoluzionaria accumulatasi in più di un decennio rivoluzionario. E nel
considerare questo una sinistra di classe degna di questo nome, ovvero
una sinistra che ha ben presente che conquista del potere significa
lotta tra le classi nella sua fase più acuta, dovrebbe ribadire, con
forza, che «il diritto, invece di essere uguale, dovrebbe essere
diseguale» (2).
Una dinamica che segue pedissequamente la divisione in classi,
operando però un ribaltamento. Dal momento che in una società
capitalistica la divisione tra le classi impone delle disuguaglianze
adeguate alla divisione del lavoro, nell’attimo in cui i rapporti di
forza si capovolgono, ovvero che si verifica il sovvertimento del
potere, lo Stato retto dalle forze rivoluzionarie si dovrà dotare di
strumenti adeguati per difendere la propria posizione nel momento in cui
mette in atto quel processo di trasformazione della società e di
liberazione delle forze produttive che porterà ad un progressivo
indebolimento della classe avversa, mano mano che la divisione del
lavoro e la forma capitalistica di funzionamento della società perderà
la sua spinta propulsiva. Il lato scottante della questione, però, non
sta tanto nel disfarsi del simulacro democratico liberale con annessi
rituali elettoralistici, ovvero del diritto borghese, l’idolo sotto cui
la sinistra nostrana continua a spaccarsi la testa a forza di inchini,
bensì nel tentativo di intervenire in maniera incisiva approfondendo il
processo rivoluzionario e ribaltando i rapporti di forza sul piano dei
rapporti di produzione. E’ su quest’ultimo che si erge il complesso
politico e istituzionale e le forme di espressione politica come il
diritto, ed è sul mutamento di questo che si può basare uno
stravolgimento delle forme di espressione politica e consenso.
Questo breve ragionamento per comprendere in maniera più chiara come,
se anche il governo bolivariano porterà a compimento la battaglia
vitale che ha ingaggiato con il fronte reazionario antigovernativo
fregandosene dai canoni borghesi tanto cari a certa sinistra, dovrà
farlo incidendo anche sui rapporti di produzione, in pratica rimediando a
quelle caratteristiche di cui l’economia venezuelana in transizione
soffre e che perpetuano la sua vulnerabilità sia nei confronti
dell’Imperialismo americano che delle insidie delle forze reazionarie
venezuelane. Tanto facile nella teoria quanto difficile nella prassi,
una prassi che certamente non s’invererà seguendo forme scolastiche ma
trovando vie inedite e mai battute. Ma la rivoluzione bolivariana, dopo
tutto, è stata fino ad oggi vincente proprio perché fuori dagli schemi,
almeno dai nostri.
Note:
(1) Pasqualina Curcio, La mano visibile del mercato, Edizioni Efesto, Roma.
(2) K.Marx, Critica al programma di Gotha, Editori Riuniti, Roma, pg.17.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento