Eccoci. Con la Nota di Aggiornamento al
Documento di Economia e Finanza (NADEF) si possono finalmente fare
valutazioni basate sui fatti circa la natura di questo governo e il suo
programma economico, al di là dei proclami propagandistici strillati da
una parte all’altra.
Già nei giorni precedenti alla
pubblicazione si poteva intuire l’andazzo: per dimensioni e composizione
questa manovra sembra davvero poca roba: una gestione ordinata e remissiva dell’esistente nel solco dell’austerità,
già tracciato dai governi precedenti. Archiviato, almeno
momentaneamente, lo starnazzare mendace di Salvini, si resta fieramente
ed entusiasticamente nei vincoli europei.
Ma partiamo dal principio. La NADEF è il
documento che aggiorna il DEF (Documento di Economia e Finanza) di
aprile rivedendo il quadro macroeconomico tendenziale – l’evoluzione dei
principali indicatori economici che si verificherebbe, nelle
previsioni, senza alcun intervento – e quello programmatico, che invece
include gli effetti economici della manovra che il Governo intende
varare. In sostanza, la NADEF permette di valutare la direzione della
politica economica che il governo intende tenere e che verrà poi
elaborata con maggiore dettaglio nella legge di bilancio.
Il principale elemento d’interesse della
NADEF 2019 è il deficit previsto per il 2020, il quale indica
l’orientamento della politica di bilancio che il governo vorrà assumere
il prossimo anno. Il primo dato da osservare è dunque quello relativo
all’indebitamento netto programmatico per il 2020, che si attesta al 2,2% del PIL.
La NADEF stima dunque un disavanzo di bilancio, il quale implica che il
prossimo anno la spesa pubblica complessiva, comprensiva degli
interessi sul debito, eccederà le entrate di circa 39,6 miliardi.
Tutto bene dunque? Siamo di fronte a una manovra moderatamente espansiva di stimolo all’economia, come afferma quotidianamente il nuovo Ministro dell’economia Gualtieri?
Come abbiamo più volte sottolineato, per far crescere l’economia il disavanzo fiscale è essenziale.
La spesa pubblica infatti, è l’elemento principale della domanda
aggregata e dunque il vero viatico per la crescita economica e per la
creazione di posti di lavoro.
È tuttavia doveroso andare ad analizzare
la composizione di questo disavanzo. Sappiamo bene che non tutta la spesa ha lo stesso impatto
sull’attività economica: quella riferita al pagamento degli interessi
sul debito è la componente meno espansiva. Per questo motivo, per valutare la natura espansiva o restrittiva di una manovra si deve osservare il saldo pubblico primario,
ossia la differenza tra entrate e uscite al netto della spesa per
interessi nell’anno di riferimento: è doveroso qui precisare che tale
spesa per interessi è stimata, ad oggi, al 3,3% del PIL. Se il saldo
pubblico primario ha segno negativo, si parlerà di deficit (o disavanzo)
primario: esso certifica che il governo sta adottando una politica
economica volutamente espansiva immettendo nell’economia più risorse di
quante ne sottrae con le tasse. L’esatto contrario di quanto questo
governo intende perseguire con la sua prima manovra finanziaria: il
saldo primario programmatico per il 2020 è infatti pari al +1,1% del
PIL che vuol dire, in parole povere, 1,1% del PIL di risorse sottratte
all’economia. Siamo di fronte al solito avanzo primario che
caratterizza quasi interrottamente la nostra politica economica da tre
decenni e che ha contribuito a devastare la struttura produttiva del
nostro paese.
Sulla maggiore “flessibilità” di cui
sentiamo parlare e che potrebbe essere accordata al governo c’è poco da
dire, se non che la natura politica dell’atteggiamento permissivo di
Bruxelles nei confronti del nuovo governo appare lampante e non dovrebbe
stupire l’osservatore più attento. Non vedremo il circo mediatico messo
su da Salvini nello sbandierare la finta volontà di rompere i vincoli,
né gli sgangherati festeggiamenti grillini: l’abnegazione alla fede
europeista del PD ci ha consegnato, senza strepiti, un po’ meno della
medesima austerità. Il governo gialloverde ci ha lasciato con un avanzo
primario del 1,3% del PIL; il passaggio dal verde al rosso ci consegnerà
uno 0,2% in meno di austerità. Di manovre espansive, nemmeno l’ombra.
La notizia più chiacchierata è sicuramente quella della sterilizzazione delle clausole di salvaguardia.
Queste ultime consistono in aumenti delle tasse, in particolare
dell’IVA, iscritti nella legge di bilancio in vigore per far sembrare
credibile l’intenzione di rispettare gli impegni di bilancio assunti dal
governo. Ciò che tali clausole salvaguardano, dunque, è il moto
perpetuo dei tagli e degli aumenti di tasse che i vincoli europei
impongono. Il precedente governo si era imposto circa 23 miliardi di
clausole di salvaguardia. Sterilizzarle vuol dire trovare queste risorse
da qualche altra parte. In altri termini, dunque, significa più tagli o
più entrate o in qualche caso, maggior deficit, per rimandare il
problema all’anno successivo. Ciò significa, banalmente, trovare risorse
ma non utilizzarle per la crescita e la riduzione della disoccupazione.
Il ricatto imposto dalle regole europee
emerge qui in tutto il suo violento portato reazionario. Il “combinato
disposto” dell’avanzo di saldo primario (1,1%) e dell’utilizzo di
risorse destinate a non far aumentare l’IVA (23,1 miliardi), provocato
dalla sterilizzazione, restituisce la pochezza della manovra in tutta la
sua evidenza. In altri termini, la manovra si risolverà nella
perpetuazione della sofferenza per le classi più disagiate di questo
paese.
Guardando alle altre misure “simbolo”
della nuova maggioranza, altri 2,7 miliardi dovrebbero essere destinati
dal luglio 2020 al taglio del cuneo fiscale (5,4 nel 2021), ossia alla
riduzione del costo complessivo del lavoro. Questa misura, dipinta come
un modo per aumentare lo stipendio netto in busta paga dei lavoratori a
reddito medio-basso, avrebbe un senso progressista soltanto se
riguardasse gli oneri in capo al lavoratore. Tuttavia, niente garantisce
che il risparmio sui costi vada a beneficio del lavoratore e non dei
profitti. Come abbiamo già sottolineato, la questione del cuneo fiscale nasconde delle insidie che vanno attentamente considerate, soprattutto in un contesto di vincoli di bilancio stringenti.
Se sommiamo la sterilizzazione delle
clausole e il taglio del cuneo (25,8 miliardi) abbiamo già praticamente
raggiunto il valore complessivo della manovra. Le risorse restanti sono
distribuite tra rinnovo degli incentivi per industria 4.0 e altre
misure, ancora difficili da identificare e comunque praticamente a saldi
invariati quindi, al più, innocue. Si parla di bond verdi, fondi di
investimento per gli investimenti verdi (a partire da risorse già
stanziate) e asili nido, ma finché non si vedranno le voci nero su
bianco in legge di bilancio è difficile valutare.
Per quanto riguarda il finanziamento, si
consideri che il deficit tendenziale piuttosto ridotto (1,4%) già
ricomprende i risparmi derivanti dalle risorse stanziate per Quota 100 e
Reddito di Cittadinanza e la significativa riduzione della spesa per
interessi dal 3,7% al 3,3% del Pil (oltre naturalmente all’aumento
dell’IVA che sarebbe stato provocato dall’entrata in vigore delle
clausole). Per quanto riguarda i 14,4 miliardi aggiuntivi – rispetto
alla flessibilità – sono stati ottenuti tramite un aumento delle entrate
e una riduzione della spesa, quindi tramite ulteriore austerità. Nella
fattispecie, si trovano nella Nota elencate una serie di voci tra cui la
lotta all’evasione fiscale tramite fatturazione elettronica (7
miliardi), l’efficientamento della spesa, la rimodulazione delle spese
fiscali, l’eliminazione dei sussidi dannosi per l’ambiente (queste
ultime voci, insieme, valgono 3,5 miliardi) e la proroga dell’imposta
sostitutiva per la rivalutazione dei terreni (1,4 miliardi).
Balza agli occhi la previsione molto
elevata relativa al recupero di evasione di 7 miliardi grazie alla
modernizzazione e alla digitalizzazione dei pagamenti, in particolare
considerando che la misura in parte è già stata introdotta e dovrebbe
portare nelle casse dello Stato solo 2,7 miliardi nel 2019. Il
Presidente del Consiglio si è detto molto fiducioso, vaneggiando di un
possibile recupero di addirittura 12 miliardi. Al di là delle sparate
del momento, emerge nuovamente come la sterilizzazione delle clausole
tanto festeggiata comporti in realtà un taglio della spesa pubblica di
un pari ammontare di risorse.
Il governo Conte-2, rispetto al Conte-1,
ha gettato via la falsa maschera del conflitto, mostrando un
atteggiamento più conciliante e costruttivo da cui dovrebbero derivare
quei famosi margini di flessibilità sugli spaventosi risparmi già
precedentemente preventivati. L’effetto combinato di flessibilità e
riduzione dello spread dovuto alle azioni della Banca Centrale e alle dichiarazioni di Draghi sulla ripresa del QE,
con conseguente reazione positiva dei mercati internazionali, tuttavia,
non è servito a cambiare il segno della politica economica. Ciò
evidenzia ancora di più quanto l’impianto istituzionale europeo, in cui
ci muoviamo, rappresenti di per sé un recinto in cui è impossibile
attuare una qualsiasi politica progressista, di cui comunque non si è
mai vista una reale intenzione.
Siamo, concludendo, di fronte alla solita farsa:
se prima ci si spacciava per fieri sostenitori dell’interesse nazionale
per perseguire l’austerità, ora ci si mostra sinceri e affidabili
europeisti per continuare a fare austerità. In questo contesto, non vi è
alcuno spazio per politiche realmente emancipative e questa volta
persino le briciole non vengono redistribuite: nulla di nuovo sotto il
sole.
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