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02/10/2019

Quei criminali arricchitisi sul debito pubblico e lo sfascio di un paese

Abbiamo verificato che quando si parla di trattati, Unione Europea, spread, mercati, vincoli, ecc, molti – “a sinistra” – fanno fatica a capire che stiamo parlando di lotta di classe. Tra ricchi e poveri, padroni e lavoratori, sfruttatori e sfruttati. Come nei “sacri testi” dei classici...

Una parte della responsabilità è del finto “antieuropeismo” della destra salvinian-fascista, che monopolizza il tema sul piano della comunicazione mainstream. Ma la parte più grande spetta alla volontaria distruzione – da parte dei gruppi dirigenti della cosiddetta “sinistra” – della capacità di interpretare la realtà politica in relazione a interessi sociali precisi, anziché in termini astratti e interclassisti (le lunghe tirate sulla “democrazia”, “i valori”, ecc.).

Nelle redazioni dei quotidiani o delle agenzie economiche, invece, sono abituati per mestiere a valutare i fatti economici nella loro crudezza. E allora certi meccanismi predatori vengono colti e descritti in modo “sereno”, come si deve fare con i dati di fatto.

In questo editoriale di Guido Salerno Aletta su TeleBorsa la storia del debito pubblico italiano viene ricostruita per quello che è: un conflitto di classe condotto dai possidenti contro coloro che campano di lavoro.

La decisione chiave risale al 1981, quando Andreatta – allora titolare del ministero del Tesoro (ora riunificato in quello dell’economia) – vietò per sempre alla Banca d’Italia di comprare titoli di Stato già al momento dell’asta. La partecipazione di Palazzo Koch, fino a quel punto, aveva avuto come effetto quello di calmierare i prezzi, comprando quando questi scendevano troppo (più è basso il prezzo, più alto è il guadagno del compratore, che in asta primaria è sempre una banca o comunque un “investitore istituzionale”, non certo un normale cittadino).

Da quel momento, i conti pubblici sono “irrimediabilmente sotto il ricatto del mercato per il debito pubblico, con i tassi di interesse che ci strangolano da allora senza sosta: sempre Andreatta di mezzo, con Ciampi. Da allora, abbiamo pagato migliaia di miliardi di interessi su un debito che cresce in continuazione, perché siamo in mano agli strozzini.”

Gli strozzini sono – in linguaggio educato – “i mercati”. E i primi strozzini sono investitori professionali italiani, e in misura minore internazionali.

Dov’è il conflitto di classe? In questa sola cosa: il debito pubblico viene pagato da tutti i cittadini di uno Stato, qualsiasi lavoro facciano e qualsiasi reddito abbiano (con più tasse o meno spesa sociale), il guadagno sul debito pubblico è invece appannaggio privatissimo di chi manovra i capitali finanziari sui “mercati”.

Non è che sia una nostra scoperta, perché già un tale Marx ci spiegava che “L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è… il loro debito pubblico”. Ossia: il debito è pubblico, il guadagno è privato.

Ma altrettanto importante è stata la scelta di aderire alla “moneta unica” e a tutti i trattati che hanno costituito l’Unione Europea di oggi, da Maastricht in poi. Una scelta politica, fatta da una generazione di “statisti” che ha costruito la propria personale carriera sul farsi strumento di interessi del capitale multinazionale, sia finanziario che industriale.

Una fusione tra interessi capitalistici e “ceto politico” che è un classico della “rappresentanza politica” borghese. E sorprende che gente “di sinistra” non se ne sia mai accorta...

Ma il problema più grave è che quelle scelte sciagurate, oltre che “classiste”, sono state un disastro per la capacità produttiva di questo paese. E, qualsiasi sia il tipo di società che vogliamo costruire, la costruiremo a partire da quello che troveremo. Così come le prossime generazioni si ritroveranno a vivere nel degrado ambientale che il capitale multinazionale ha fin qui prodotto (e che continuerà a produrre, ma ammantandosi da green new deal).

Se vogliamo avvero costruire un’alternativa a questa classe di magnaccia travestiti da “imprenditori” o “investitori”, dobbiamo partire da questa consapevolezza. Il resto è pura perdita di tempo, anche se condita con l’aria di star “facendo politica”.

***** 

I naufraghi d’oro del Britannia

Guido Salerno Aletta – TeleBorsa

Hanno lasciato affondare l’Italia, una bordata dopo l’altra.

L’accordo Andreatta-Van Miert, nel 1993, portò allo smantellamento delle Partecipazioni Statali: doveva essere la liberazione dal giogo della politica, ed invece è stato lo sbriciolamento di un gigantesco complesso finanziario ed industriale pubblico che ci aveva fatto diventare la quinta potenza mondiale, davanti alla Gran Bretagna.

Le privatizzazioni sono state lo strumento per la colossale dilapidazione del patrimonio: tutto è passato nelle mani di un sistema capitalistico privato che il capitale non sapeva neppure dove fosse di casa. Hanno svenduto tutto, pezzo dopo pezzo. Quel poco che è rimasto, poco e niente, dall’ENI a Leonardo, dalle Poste a Fincantieri, è in piedi solo perché è nelle mani del Tesoro.

Il “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia, già dieci anni prima, nel 1981, ci aveva messi irrimediabilmente sotto il ricatto del mercato per il debito pubblico, con i tassi di interesse che ci strangolano da allora senza sosta: sempre Andreatta di mezzo, con Ciampi. Da allora, abbiamo pagato migliaia di miliardi di interessi su un debito che cresce in continuazione, perché siamo in mano agli strozzini.

Ma gli strozzini siamo noi stessi, gli Italiani: la ricchezza finanziaria privata interna cresce soprattutto per questa continua spoliazione. Le stesse banche, le assicurazioni ed i fondi di investimento vivono per il grasso che deriva loro dal debito pubblico. Una rendita parassitaria mostruosa, ignobile.

L’ingresso nell’euro, nel 2000, ci ha privato anche della sovranità monetaria, e ci ha condannato a commerciare all’estero con una valuta troppo forte: per essere competitivi abbiamo dovuto svalutare i salari, impoverendoci. Decisero tutto, ancora una volta, Prodi e Ciampi.

Il Trattato di Maastricht aveva cambiato tutto nel 1992: senza più le leve della politica di bilancio e senza industria pubblica, il sistema italiano era alle corde. Il Fiscal Compact ci ha condannato infine alla austerità distruttiva.

Fa impressione, a dieci anni dall’inizio della grande crisi finanziaria del 2008, guardare ai risultati per l’Italia di tanti sacrifici, di tante manovre correttive, di tante riforme: solo la Grecia ha fatto peggio di noi, con un PIL che si è ridotto di un quarto rispetto al 2008. Quello dell’Italia si è ridotto in termini reali del 4%, mentre tutti gli altri Paesi dell’Eurozona sono cresciuti: Malta del 56%, l’Irlanda del 54%, la Germania del 14%, la Francia dell’11%. Per noi è un massacro.

Il credito alle imprese diminuisce, i salari non aumentano, gli investimenti ristagnano. I governi si arrabattano, un anno dopo l’altro. Se l’economia non cresce, tutto si accartoccia, con il sistema previdenziale che va a rotoli.

Una intera generazione, quella che salì baldanzosamente a bordo del Britannia nel giugno del 1992 per mettersi al servizio dei Mercati, ha fatto naufragare l’Italia. Se l’è cavata bene, personalmente, con carriere fulgide, scalando il potere giorno dopo giorno.

L’Italia intanto è affondata: patrimonio industriale svenduto, debito pubblico sotto ricatto e recessione distruttiva.

I naufraghi d’oro del Britannia.

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