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05/12/2019

Settant’anni di NATO


Cosa resta della NATO nel momento in cui i Capi di Stato e d Governo degli stati membri si riuniscono a Londra per festeggiare il settantesimo anniversario dell’organizzazione?

Una risposta difficile a una domanda difficile: per intanto con questo intervento molto schematico ci si limita a riassumere le vicende che portarono, nella fase d’avvio della “guerra fredda” alla stipula del trattato.

L’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (in inglese North Atlantic Treaty Organization, in sigla NATO, in francese: Organisation du Traité de l’Atlantique Nord, in sigla OTAN) è un’organizzazione internazionale per la collaborazione nel settore della difesa.

Il trattato istitutivo della NATO, il Patto Atlantico, fu firmato a Washington il 4 aprile 1949, ovvero nell’immediato secondo dopoguerra, ed entrò in vigore il 24 agosto dello stesso anno. Attualmente, fanno parte della NATO 29 paesi. Ha sede a Bruxelles. Il mondo nel frattempo è profondamente cambiato e l’organizzazione appare per la prima volta dentro a una vera e propria crisi d’identità immersa com’è in un disordine globale che alla fine potrebbe anche decretare la fine del “ciclo occidentale”.

Vale la pena allora tornare alla ricostruzione di ciò che avvenne al momento della formazione dell’Alleanza per cercare di riconoscerne, attraverso la memoria, i tratti distintivi.

Allora, andando per ordine.

Tra la metà del 1947 e la metà del 1948 la divisione dell’Europa era compiuta.

La “cortina di ferro” evocata da Churchill nel marzo 1946 era diventata un’effettiva realtà: le due parti del continente erano separate da una completa diversità di forme di governo e di sistemi politici.

L’Unione Sovietica cercava di consolidare la propria egemonia sull’Europa orientale; l’ERP e la formazione di governi politicamente omogenei in tutti i paesi dell’Europa Occidentale avviavano un processo di ricostruzione e integrazione, del quale la creazione della Repubblica federale di Germania era il momento più risonante.

Si era avviato anche uno sforzo, propugnato dagli Americani ma fatto proprio anche da un certo numero di statisti europei, di consolidare la rinascita dell’Europa occidentale, mediante un processo di integrazione graduale, che molti considerarono il primo avvio verso l’unificazione europea.

La politica degli Stati Uniti verso l’Europa e nei confronti dell’Unione Sovietica era stata costruita sui due presupposti della supremazia militare e di quella economica.

Secondo la tradizione della loro politica gli Americani avevano ancora mostrato di prediligere le formule dell’impegno non politico e non diretto.

Tra la fine del 1947 e i primissimi mesi del 1948 la misura di questo impegno apparve rapidamente insufficiente: in Europa si sta diffondendo il timore che i benefici del piano Marshall fossero potenzialmente messi in pericolo dall’estendersi dell’influenza sovietica e persino dall’esistenza di una minaccia militare sovietica.

Questa “paura” aveva però le sue radici più nella psicologia di massa che nella realtà delle situazioni.

Il fallimento della riunione del Consiglio dei Ministri degli Esteri tenuta a Londra nel novembre – dicembre 1947 spinse i governi a prendere atto dell’intersecarsi delle crisi interne con i problemi internazionali.

Inoltre in Italia e in Francia si avviò una stagione di turbolenze sociali con scioperi economici e politici appoggiati dai partiti comunisti e socialista cui corrispose una feroce repressione poliziesca.

In Italia nelle elezioni del 1948 le sinistre si presentarono unite sotto il simbolo del Fronte Popolare e furono sconfitte dalla Democrazia Cristiana, qualche mese dopo in seguito all’attentato a Togliatti si vissero momenti di timore per una fase apertamente pre-insurrezionale.

Il colpo di stato di Praga aveva già aggiunto altri elementi a questo quadro di definizione di quella che poi sarebbe stata denominata “guerra fredda”.

Un primo passo verso la costituzione di un fronte occidentale europeo nel quale la Francia superasse i suoi timori rispetto alla rinascita della Germania e all’appoggio di cui tale processo godeva negli Stati Uniti e nella Gran Bretagna e cercasse di mantenere una sorta di legame/controllo rispetto agli equilibri della nuova Europa era già stato fatto con la firma, avvenuta il 4 marzo 1947, del trattato anglo – francese di Dunkerque.

Quel trattato anglo – francese presupponeva un’alleanza diretta contro la rinascita militare tedesca ma anche politicamente espressiva dell’intenzione dei due paesi di collegarsi per bilanciare la supremazia americana e sovietica.

In questo clima e sulla base del principio che l’iniziativa europea sarebbe stata seguita da una risposta americana, ebbe inizio la preparazione di un trattato fra alcune potenze dell’Europa Occidentale.

La prima indicazione pubblica di questo passo si ebbe con un discorso del ministro degli Esteri inglese Bevin svolto alla Camera dei Comuni il 22 gennaio 1948.

Per quanto vago, il progetto di Bevin fu sufficiente a mettere in moto un negoziato.

Un negoziato complesso, poiché esso non era ancora svincolato dall’eredità dei problemi della guerra o dalle ambizioni delle due grandi potenze europee (Francia e Gran Bretagna) di creare un sistema capace di esprimere in primo luogo le esigenze di una di esse: alle trattative parteciparono oltre agli anglofrancesi soltanto i 3 paesi del Benelux.

Il 17 marzo 1948 venne firmato a Bruxelles il trattato istitutivo dell’alleanza a cinque, poi chiamata Unione occidentale.

Si trattava di un’alleanza cinquantennale diretta contro la rinascita di un pericolo tedesco mediante la reciproca garanzia di un aiuto militare e politico e mediante l’impegno a concertarsi sulle misure da adottare “in caso di ripresa aggressiva da parte della Germania” o su qualsiasi situazione che potesse rappresentare una minaccia contro la pace, dovunque essa si fosse presentata.

Era prevista anche la costituzione di un Consiglio consultivo e di una Commissione permanente, dalla quale sarebbero poi potute scaturire altre strutture organizzative.

L’occasione fu colta da quanti, assicurato l’appoggio americano, pensarono di far affiorare anche sul piano politico un’ondata di europeismo: dalla nascita dell’Unione Occidentale si cercava di intravedere un embrione di federalismo, ed è questo un punto che oggi dovrebbe essere sottoposto a un vaglio di riflessione storica nel mentre si esaminano i successivi passaggi che portarono alla costituzione dell’Unione Europea.

La trasformazione del patto di Bruxelles in un’alleanza più vasta era desiderata dagli Inglesi, che consideravano questa ipotesi come lo sviluppo del loro compito di mediazione fra gli Stati Uniti e l’Europa; dai francesi essa venne considerata come un modo per confermare il loro primato continentale e per fare di questo il punto di riferimento sia della stessa Europa Continentale sia della nuova Germania che contemporaneamente stava per essere ricostituita.

Gli USA, dal canto loro, sfruttarono questa situazione per concludere che soltanto l’estensione dell’Unione occidentale avrebbe potuto acquistare l’efficacia necessaria a rendere credibile un trattato “difensivo” rispetto alla minaccia sovietica.

L’11 giugno 1948 la commissione esteri del Congresso approvò la cosiddetta “risoluzione Vandenberg” considerata come una svolta storica nella politica estera americana; vi si sosteneva, infatti, l’obiettivo dell’associazione degli Stati Uniti, mediante procedimento costituzionale, a quegli accordi regionali o a quegli accordi collettivi che fossero basati sul continuo ed effettivo impegno di autodifesa e sul reciproco aiuto, e che concernessero la sicurezza nazionale degli stessi Stati Uniti.

La risoluzione pose le premesse istituzionali perché fosse possibile a Truman autorizzare l’inizio a Washington di colloqui esplorativi che ebbero inizio il 6 luglio 1948 e terminarono nel marzo 1949, quando tutti i problemi relativi alla stesura del trattato dell’Atlantico del Nord o Patto Atlantico furono risolti.

La questione della delimitazione geografica dell’alleanza pose interrogativi di vari natura e non venne risolta se non alla vigilia della conclusione del negoziato.

Il concetto di area atlantica poteva essere inteso in senso restrittivo o in senso estensivo ma il problema vero era chiarire subito se tutti gli Stati importanti per un progetto di sicurezza dell’Europa Occidentale dovevano essere ammessi su di un piede di parità nell’alleanza.

Il 20 marzo 1949 il nuovo segretario di Stato americano, Dean Acherson che aveva da poco sostituito il generale Marshall diede l’annuncio dell’imminente firma del trattato.

La cerimonia ebbe luogo il 4 aprile 1949 a Washington con la partecipazione dei rappresentanti di 12 paesi: USA, Canada, Gran Bretagna, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Portogallo, Italia, Norvegia, Islanda e Danimarca

Il punto nodale del trattato era rappresentato dall’articolo 5 che così recitava:

“Le parti concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in America settentrionale, deve essere considerato come un attacco contro tutte e di conseguenza concordano che, se tale attacco armato avviene, ognuna di esse, in esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuto dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti attaccate prendendo immediatamente, individualmente o in concerto con le altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l’uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell’area Nord Atlantica.»

Questa misura era concepita in modo tale che se l’Unione Sovietica avesse lanciato un attacco contro uno qualsiasi dei paesi membri, questo sarebbe stato trattato da ciascun paese membro come un attacco diretto, ed era rivolta soprattutto a una temuta invasione sovietica dell’Europa occidentale.

L’APPROVAZIONE DELLA ADESIONE DELL’ITALIA ALLA NATO

In Italia erano duramente contrari alla NATO i comunisti e i socialisti, usciti sconfitti dalla prova elettorale del 18 aprile 1948 e fermamente decisi a contrastare l’ingresso dell’Italia in un patto militare occidentale. Con loro erano schierati i socialdemocratici di Saragat, da poco entrati a far parte della coalizione governativa presieduta da De Gasperi. E con loro c’era anche una buona parte del mondo cattolico e leader prestigiosi come Giuseppe Dossetti e Giovanni Gronchi. E questa non era l’unica difficoltà. Se si esclude la Francia, quasi tutti i membri della futura alleanza, in testa gli Stati Uniti, sembravano contrari all’ingresso dell’Italia, paese vinto e mediterraneo, in un patto che non caso prendeva il nome di Atlantico.

De Gasperi non prese subito una posizione netta, ma era chiara la sua volontà di salire, senza porre condizioni, sul treno in formazione di quell’alleanza. D’accordo col ministro degli Esteri Carlo Sforza, De Gasperi attivò, fin dall’estate del 1948, tutti i canali utili per favorire la nostra partecipazione. In particolare chiese il parere dei tre ambasciatori piazzati nei punti strategici della politica mondiale: a Washington, a Mosca, a Parigi.

Lo storico Brunello Vigezzi in una ricostruzione di grande interesse (La dimensione atlantica, Jaca Book editore) ha portato alla luce le varie fasi di quel singolare dibattito a tre voci. Da Parigi l’ ambasciatore Pietro Quaroni invitò il governo De Gasperi a non traccheggiare, e ad aderire senza esitazioni o riserve.

Manlio Brosio, da Mosca, fece invece sapere di non essere per nulla d’accordo col suo collega Quaroni. A suo parere la formula della neutralità era la sola che poteva consentire d’impostare, di fronte all’Unione Sovietica, il problema della revisione del Trattato di pace: riarmo, colonie, e la questione di Trieste.

Per Alberto Tarchiani, che dal suo privilegiato osservatorio di Washington era forse quello più in grado di capire cosa stava bollendo nella pentola atlantica, le tesi di Brosio erano un non senso: “La nostra neutralità armata permanente”, sostenne Tarchiani, “appare un mito quando si rifletta alle condizioni economiche e finanziarie in cui l’ Italia si dibatte e si dibatterà per molti anni”.

C’era poi da tener conto del parere della Santa Sede. I due maggiori responsabili della diplomazia vaticana avevano in proposito idee abbastanza diverse. Monsignor G. B. Montini, il futuro Paolo VI, sosteneva che la missione civilizzatrice dell’Italia non era affatto incompatibile con la piena adesione alla politica detta “occidentale”. Monsignor Domenico Tardini pensava al contrario che “l’adesione dell’Italia ai patti di carattere militare sarebbe stata altrettanto inutile e dannosa al gruppo che, intorno all’America, assumesse con noi reciproci impegni...“.

A dirimere le divergenze ci pensò Pio XII. L’ 11 febbraio del 1949 il Papa, in un durissimo documento, descrisse un mondo nettamente diviso in due: da una parte il bene della libertà religiosa, e dall’altra le tenebre dell’ateismo e del comunismo.

Per questo, tuonò Pacelli, la posizione della Chiesa non doveva prestarsi a equivoci. Una frase, soprattutto, fu interpretata come un chiaro incoraggiamento a entrare nell’alleanza: “Chi non sente timore e orrore per le rivalità, le discordie cittadine, e per la conflagrazione di guerre che, in avvenire, saranno quanto mai micidiali per la potenza delle nuove armi?”.

Proprio per questo, fu la conclusione di Pio XII, “noi salutiamo con gioia e approviamo quelle iniziative che, allo scopo di sventare tali minacce, tendono a riunire le nazioni in alleanze con vincoli sempre più stretti”. Non si poteva essere più chiari e “atlantici”.

Siamo alle solite, scrisse Togliatti in un articolo di risposta intitolato “Dio e il patto atlantico”. Contro gli “odiatori di Dio”, ironizzava il segretario del Pci, “la Chiesa mobilita il blocco di Londra e il Patto Atlantico”, e mentre le alleanze imperialistiche faticano a realizzarsi, ecco arrivare “l’acquasanta a benedirle”. Ai primi di marzo del 1949 la questione arrivò alla stretta finale.

L’ 8 marzo il dipartimento di Stato americano comunicò, infatti, al governo italiano, tramite Tarchiani, l’invito a partecipare al costituendo Patto Atlantico i cui negoziati erano in corso a Washington. Tre giorni dopo, l’11 marzo, De Gasperi informò il Parlamento che il Consiglio dei Ministri si era pronunciato “per l’accessione in via di massima al Patto e quindi per la partecipazione alle discussioni nella fase conclusiva dei negoziati”. Per questo, concluse De Gasperi, chiedo il voto di fiducia delle Camere.

L’ esito dello scontro parlamentare si presentava incerto. La posizione chiave era costituita dai socialdemocratici. La destra, capeggiata da Saragat e D’Aragona, era favorevole. Il centro, rappresentato da Mondolfo e Faravelli, era tiepido ma in linea di massima sfavorevole ai patti militari. La sinistra di Matteotti, Zagari, Vassalli, Vigorelli era invece decisamente anti Nato.

Solo dopo lotte accanite, e massicci interventi interni ed esterni, Saragat riuscì quasi in extremis a fare schierare il Psdi a favore dell’Alleanza. Le incognite erano molte. Oltre alla posizione fluida del Psdi c’erano molti deputati democristiani che nel segreto dell’urna avrebbero potuto non seguire la linea filoatlantica del partito.

All’interno della Dc, mentre fervevano le discussioni in Parlamento, il dibattito fu, infatti, abbastanza acceso anche se dall’esito scontato. Di fronte a De Gasperi che si affannava a spiegare le ragioni che imponevano di aderire all’alleanza, Gronchi, Dossetti e Gui manifestarono a lungo la loro aperta contrarietà. Il dibattito cominciò l’11 marzo e fu violento fin dalle prime battute. Il voto conclusivo, previsto per il 16 marzo, fu rimandato più volte.

L’ orologio di Montecitorio fu fermato per la seduta fiume che durò cinquantuno ore senza alcuna interruzione. Nei vari punti dell’emiciclo si accendevano di continuo zuffe e colluttazioni che i commessi facevano fatica a domare.

Una cronaca del Corriere della Sera descrisse così la scena: “All’improvviso ecco balzare alto nella mischia il comunista Giuliano Pajetta che, partito come un razzo dal terzo settore, con tre balzi aerei, da un settore all’altro, è piombato a tuffo nel groviglio di teste, braccia e gambe e in quel groviglio sparisce inghiottito. Lo si vede riemergere poco dopo, con il colletto slacciato, la faccia paonazza e i pugni in azione. Da un settore dell’estrema sinistra vola un cassetto di legno, al quale un altro ne segue subito dopo. Anche i due proiettili spariscono nel mucchio, mentre due poltrone degli stenografi galleggiano nella mischia impugnate per le gambe da deputati decisi a servirsene come clave”.

Il dibattito si concluse il 18 marzo 1949 con questo esito: 342 voti a favore, 170 contrari, 19 astenuti (missini e sinistra socialdemocratica).

Contemporaneamente al dibattito parlamentare si svolsero grandi manifestazioni di piazza organizzate dalla sinistra: il 17 marzo a Terni le forze di polizia spararono uccidendo l’operaio Luigi Trastulli e ferendone altri 12.

In seguito per molti anni nelle manifestazioni la sinistra fece echeggiare lo slogan: “Fuori la NATO dall’Italia, fuori l’Italia dalla NATO” con chiaro riferimento anche alla presenza delle basi americane nel nostro Paese che l’adesione al trattato aveva consolidato, un tema che nonostante il modificarsi dell’assetto delle relazioni internazionali rimane comunque di assoluta attualità.

Oggi con il ritorno dei nazionalismi appare conclusa la fase del post – caduta del Muro di Berlino, quella della “fine della storia” e degli USA “gendarmi del mondo”, esportatori di “democrazia”.

Rimane l’interrogativo riguardante il valore e l’attualità di un’organizzazione come quella del Patto Atlantico soprattutto dal punto di vista dell’Europa che, come scrive Gian Giacomo Migone sul “Manifesto”, non può essere considerata semplice terreno di conflitto e di spartizione da parte dei vari Trump, Putin, XI Jinping.

La risposta a questo quesito riguarda tutti gli europei e l’Italia non può sottrarsi esaltando semplicemente il richiamo alla propria sovranità mentre si sta preparando una nuova era nella quale sarà necessario rivedere la nostra capacità complessiva di individuare le nuove grandi “fratture” a livello globale.

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