Con
oltre 100.000 contagiati rilevati, quasi 30.000 ricoverati con sintomi,
oltre 4.000 persone sottoposte a terapia intensiva ed un tributo di
vite umane che sfiora le 15.000 unità, l’Italia è tra i Paesi più
duramente colpiti dalla pandemia di Covid-19. La situazione è resa ancor più drammatica dallo smantellamento del servizio sanitario nazionale prodotto da decenni di politiche di austerità imposte dall’Unione Europea. L’emergenza sanitaria ha assunto dimensioni tali da mettere in crisi l’economia, un tracollo mai sperimentato in tempo di pace che potrebbe compromettere le possibilità di ripresa della produzione e dell’occupazione nel prossimo futuro.
Davanti a questo terremoto, tutti, ma proprio tutti, concordano circa la necessità di mettere in campo il più rapidamente possibile un significativo intervento pubblico a sostegno del settore sanitario e dell’economia tutta,
facendo ricorso al debito pubblico. Il problema è che, a fronte di
questa apparente consapevolezza comune, il Governo italiano e le
istituzioni europee sono incartati in faticose e barocche trattative. A
quasi sei settimane dall’inizio dell’emergenza, nel mondo alla rovescia costruito dall’architettura europea,
ci si arrovella ancora sul come, il quando e il perché muoversi. Il
momento dei provvedimenti decisivi è sempre un po’ più in là. Nel pieno
della tempesta, le classi dominanti aspettano serenamente l’Eurogruppo
del 7 aprile, dimostrando ancora una volta che la crisi non è
democratica e non morde tutti alla stessa maniera.
In questo frangente della storia, l’interrogativo cruciale è sempre lo stesso: che fare?
Che cosa fare concretamente adesso, non tra un mese, non tra un anno.
La risposta dipende in maniera univoca da quali sono le priorità che ci
si dà. Oggi come ieri – e anche in tutto il tempo buttato finora – la
priorità è una: spendere, senza limiti arbitrari e di natura
esclusivamente politica, tutto quello che è necessario per affrontare
l’emergenza sanitaria ed evitare di sprofondare in una potenzialmente
ancora più grave emergenza economica. Centinaia di persone che
muoiono ogni giorno, ospedali al collasso, un numero crescente di donne e
uomini che hanno difficoltà a fare la spesa, con la prospettiva che i
tempi davvero bui siano davanti e non dietro a noi, sono l’unica cosa
che conta adesso. Solamente l’attore pubblico si può far carico di tutto
questo, non sussistono più dubbi. La questione allora diventa: come farlo? Come finanziare le spese necessarie, fino all’ultimo centesimo?
Qui si aprono due vie, la prima delle
quali prevede il continuare a fare come fino a oggi. Questa prima via si
declina in due sfumature: continuare a inseguire i fantasmi,
incarnati oggi dai Covidbond, di un’Unione Europea solidale che ti
aiuta senza chiedere nulla in cambio, ignorando il fatto fondamentale
che i fantasmi non esistono, o ottenere oggi l’ossigeno per sopravvivere
al prezzo di un lento soffocamento domani, stretti nella morsa dell’austerità permanente del MES. È evidente che questa prima via non risponde alle esigenze e alle priorità individuate.
Rimane solamente la seconda via, quindi: finanziare
il massiccio intervento pubblico di cui abbiamo bisogno tramite
l’ordinario collocamento di tutto il debito pubblico italiano necessario
sui mercati finanziari. Non chiedere soldi alle istituzioni
europee, dunque, ma prenderli in prestito dalle banche, come si fa di
solito, in condizioni normali. Questa modalità di finanziamento ha il
vantaggio di essere libera da qualsiasi condizionamento politico
diretto: nessun Memorandum, nessun impegno ad applicare l’austerità
negli anni a venire. Le banche che prestano denaro agli Stati chiedono
in cambio solo vil denaro, al tasso di interesse prevalente su quel
particolare mercato.
È evidente che si tratta di una via
stretta e impervia, molto lontana dall’essere una soluzione ideale. Ci
sono ovvi problemi insiti in essa, anch’essi collegati alla perversa
natura dell’architettura istituzionale europea. Sappiamo che la BCE detiene sostanzialmente il controllo del tasso di interesse sui titoli di Stato dei diversi Paesi membri dell’Unione.
Dunque, è vero che il ricorso al mercato esclude la possibilità di
subire condizionamenti politici diretti, ma il controllo sul mercato
esercitato dalla banca centrale apre la strada ad un condizionamento
indiretto e, potenzialmente, altrettanto pervasivo.
Se l’Italia decidesse davvero di “fare da
sola”, andando sui mercati a raccogliere rapidamente le risorse per
comprare respiratori e rilanciare la crescita, come reagirebbe la BCE?
Continuerebbe, con i suoi acquisti di titoli di Stato italiani, a
contenere il costo di questo nuovo e maggiore debito pubblico contratto
fuori da qualsiasi condizionalità politica? In questo caso riusciremmo a
raccogliere rapidamente le risorse che ci servono per salvare vite e
rilanciare produzione e occupazione, senza per questo ipotecare il
nostro futuro con i programmi di austerità.
Oppure userebbe tutta la sua autorità per
riaffermare la condizionalità, abbandonando l’Italia alla speculazione
finanziaria in modo tale da costringerla, col ricatto dell’instabilità
finanziaria, a tornare sui binari del MES, e dunque a riprendere obtorto
collo la via dell’austerità? Le basterebbe rallentare il ritmo degli
acquisti di titoli di Stato italiani nell’ambito del QE per scatenare i
fondi speculativi e far aumentare istantaneamente lo spread. Farebbe,
insomma, quello che la BCE ha sempre fatto, persino davanti a tragedie
umanitarie come l’aumento della mortalità infantile registrata in Grecia negli anni della crisi. In ogni caso, la BCE sarebbe costretta a scoprire le carte.
Potremmo nel primo caso arginare
l’emergenza sanitaria e porre le basi per ricostruire condizioni di vita
migliori nel nostro Paese. Viceversa, se la BCE decidesse di chiudere i
cordoni della borsa facendo impennare lo spread, ci troveremmo di
fronte ad una realtà in cui i respiratori non si possono acquistare perché l’Unione Europea ce lo impedisce. La partita si farebbe in questo caso terribilmente seria.
Non possiamo saperlo con certezza. Di
certo ci sono comunque, almeno, due cose: le alternative ad oggi in
ballo – cioè MES e Covidbond – non rappresentano una soluzione, ma solo
due modi diversi di non affrontare il problema, con tutto il potenziale
di aggravare la situazione. L’altra cosa certa è che, in questo caso e
sempre, la questione di fondo è meramente politica e la sua risoluzione passa attraverso la politica.
La via indicata è l’unica che offre una prospettiva in tal senso, una
strada da percorrere, una prospettiva realista e attuabile ora, senza
certezze sull’esito finale, ma con almeno in sé un elemento di
possibilità.
Nel corso delle trattative, il Presidente
del Consiglio Conte ha lanciato un ultimatum alle istituzioni europee,
che possiamo riassumere come segue: vi diamo 10 giorni per trovare una soluzione comune, dopo faremo da soli.
La minaccia ha talmente spaventato gli interlocutori da indurli a
fissare un periodo di 14 giorni per individuare una soluzione europea.
Lunedì, scaduto l’ultimatum, avremo la conferma che Conte e il suo
Governo stanno dalla parte dell’austerità, della condizionalità, della
troika. Il governo va sfidato apertamente su questo punto.
Una strada per fronteggiare la crisi economica e sanitaria c’è, oggi e
ora: prendere i soldi direttamente sui mercati, mettere alle strette la
BCE e forzare una soluzione all’altezza dell’emergenza. Il tempo è un
lusso che non possiamo più permetterci.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento