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04/04/2020

Non ci resta che spendere

Con oltre 100.000 contagiati rilevati, quasi 30.000 ricoverati con sintomi, oltre 4.000 persone sottoposte a terapia intensiva ed un tributo di vite umane che sfiora le 15.000 unità, l’Italia è tra i Paesi più duramente colpiti dalla pandemia di Covid-19. La situazione è resa ancor più drammatica dallo smantellamento del servizio sanitario nazionale prodotto da decenni di politiche di austerità imposte dall’Unione Europea. L’emergenza sanitaria ha assunto dimensioni tali da mettere in crisi l’economia, un tracollo mai sperimentato in tempo di pace che potrebbe compromettere le possibilità di ripresa della produzione e dell’occupazione nel prossimo futuro.

Davanti a questo terremoto, tutti, ma proprio tutti, concordano circa la necessità di mettere in campo il più rapidamente possibile un significativo intervento pubblico a sostegno del settore sanitario e dell’economia tutta, facendo ricorso al debito pubblico. Il problema è che, a fronte di questa apparente consapevolezza comune, il Governo italiano e le istituzioni europee sono incartati in faticose e barocche trattative. A quasi sei settimane dall’inizio dell’emergenza, nel mondo alla rovescia costruito dall’architettura europea, ci si arrovella ancora sul come, il quando e il perché muoversi. Il momento dei provvedimenti decisivi è sempre un po’ più in là. Nel pieno della tempesta, le classi dominanti aspettano serenamente l’Eurogruppo del 7 aprile, dimostrando ancora una volta che la crisi non è democratica e non morde tutti alla stessa maniera.

In questo frangente della storia, l’interrogativo cruciale è sempre lo stesso: che fare? Che cosa fare concretamente adesso, non tra un mese, non tra un anno. La risposta dipende in maniera univoca da quali sono le priorità che ci si dà. Oggi come ieri – e anche in tutto il tempo buttato finora – la priorità è una: spendere, senza limiti arbitrari e di natura esclusivamente politica, tutto quello che è necessario per affrontare l’emergenza sanitaria ed evitare di sprofondare in una potenzialmente ancora più grave emergenza economica. Centinaia di persone che muoiono ogni giorno, ospedali al collasso, un numero crescente di donne e uomini che hanno difficoltà a fare la spesa, con la prospettiva che i tempi davvero bui siano davanti e non dietro a noi, sono l’unica cosa che conta adesso. Solamente l’attore pubblico si può far carico di tutto questo, non sussistono più dubbi. La questione allora diventa: come farlo? Come finanziare le spese necessarie, fino all’ultimo centesimo?

Qui si aprono due vie, la prima delle quali prevede il continuare a fare come fino a oggi. Questa prima via si declina in due sfumature: continuare a inseguire i fantasmi, incarnati oggi dai Covidbond, di un’Unione Europea solidale che ti aiuta senza chiedere nulla in cambio, ignorando il fatto fondamentale che i fantasmi non esistono, o ottenere oggi l’ossigeno per sopravvivere al prezzo di un lento soffocamento domani, stretti nella morsa dell’austerità permanente del MES. È evidente che questa prima via non risponde alle esigenze e alle priorità individuate.

Rimane solamente la seconda via, quindi: finanziare il massiccio intervento pubblico di cui abbiamo bisogno tramite l’ordinario collocamento di tutto il debito pubblico italiano necessario sui mercati finanziari. Non chiedere soldi alle istituzioni europee, dunque, ma prenderli in prestito dalle banche, come si fa di solito, in condizioni normali. Questa modalità di finanziamento ha il vantaggio di essere libera da qualsiasi condizionamento politico diretto: nessun Memorandum, nessun impegno ad applicare l’austerità negli anni a venire. Le banche che prestano denaro agli Stati chiedono in cambio solo vil denaro, al tasso di interesse prevalente su quel particolare mercato.

È evidente che si tratta di una via stretta e impervia, molto lontana dall’essere una soluzione ideale. Ci sono ovvi problemi insiti in essa, anch’essi collegati alla perversa natura dell’architettura istituzionale europea. Sappiamo che la BCE detiene sostanzialmente il controllo del tasso di interesse sui titoli di Stato dei diversi Paesi membri dell’Unione. Dunque, è vero che il ricorso al mercato esclude la possibilità di subire condizionamenti politici diretti, ma il controllo sul mercato esercitato dalla banca centrale apre la strada ad un condizionamento indiretto e, potenzialmente, altrettanto pervasivo.

Se l’Italia decidesse davvero di “fare da sola”, andando sui mercati a raccogliere rapidamente le risorse per comprare respiratori e rilanciare la crescita, come reagirebbe la BCE? Continuerebbe, con i suoi acquisti di titoli di Stato italiani, a contenere il costo di questo nuovo e maggiore debito pubblico contratto fuori da qualsiasi condizionalità politica? In questo caso riusciremmo a raccogliere rapidamente le risorse che ci servono per salvare vite e rilanciare produzione e occupazione, senza per questo ipotecare il nostro futuro con i programmi di austerità.

Oppure userebbe tutta la sua autorità per riaffermare la condizionalità, abbandonando l’Italia alla speculazione finanziaria in modo tale da costringerla, col ricatto dell’instabilità finanziaria, a tornare sui binari del MES, e dunque a riprendere obtorto collo la via dell’austerità? Le basterebbe rallentare il ritmo degli acquisti di titoli di Stato italiani nell’ambito del QE per scatenare i fondi speculativi e far aumentare istantaneamente lo spread. Farebbe, insomma, quello che la BCE ha sempre fatto, persino davanti a tragedie umanitarie come l’aumento della mortalità infantile registrata in Grecia negli anni della crisi. In ogni caso, la BCE sarebbe costretta a scoprire le carte.

Potremmo nel primo caso arginare l’emergenza sanitaria e porre le basi per ricostruire condizioni di vita migliori nel nostro Paese. Viceversa, se la BCE decidesse di chiudere i cordoni della borsa facendo impennare lo spread, ci troveremmo di fronte ad una realtà in cui i respiratori non si possono acquistare perché l’Unione Europea ce lo impedisce. La partita si farebbe in questo caso terribilmente seria.

Non possiamo saperlo con certezza. Di certo ci sono comunque, almeno, due cose: le alternative ad oggi in ballo – cioè MES e Covidbond – non rappresentano una soluzione, ma solo due modi diversi di non affrontare il problema, con tutto il potenziale di aggravare la situazione. L’altra cosa certa è che, in questo caso e sempre, la questione di fondo è meramente politica e la sua risoluzione passa attraverso la politica. La via indicata è l’unica che offre una prospettiva in tal senso, una strada da percorrere, una prospettiva realista e attuabile ora, senza certezze sull’esito finale, ma con almeno in sé un elemento di possibilità.

Nel corso delle trattative, il Presidente del Consiglio Conte ha lanciato un ultimatum alle istituzioni europee, che possiamo riassumere come segue: vi diamo 10 giorni per trovare una soluzione comune, dopo faremo da soli. La minaccia ha talmente spaventato gli interlocutori da indurli a fissare un periodo di 14 giorni per individuare una soluzione europea. Lunedì, scaduto l’ultimatum, avremo la conferma che Conte e il suo Governo stanno dalla parte dell’austerità, della condizionalità, della troika. Il governo va sfidato apertamente su questo punto. Una strada per fronteggiare la crisi economica e sanitaria c’è, oggi e ora: prendere i soldi direttamente sui mercati, mettere alle strette la BCE e forzare una soluzione all’altezza dell’emergenza. Il tempo è un lusso che non possiamo più permetterci.

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