Di Geraldina Colotti
“L’Ecuador al voto, contro il Giuda andino”. Intervista all'ex ambasciatrice del Venezuela a Quito
Il 7 febbraio si terrà in Ecuador il primo turno delle elezioni presidenziali. Sedici partiti aspirano a conquistare la presidenza e la vicepresidenza. Parallelamente, 137 membri dell’assemblea nazionale saranno eletti al parlamento del paese andino. Ne abbiamo discusso con Carol Delgado Arria. Accademica, femminista e diplomatica di lunga data, Delgado è stata ambasciatrice del Venezuela in Ecuador fino al 2018, quando è stata espulsa da Lenin Moreno, che ha rotto le relazioni diplomatiche con il governo Maduro.
Nella sua lunga carriera diplomatica, lei è stata ambasciatrice in Ecuador, sia ai tempi di Rafael Correa che di Lenin Moreno. Come ha vissuto questo cambio di governo?
Va ricordato che Moreno ha vinto grazie ai voti del movimento de la Revolución Ciudadana, fondato da Rafael Correa. Rivoluzione dei cittadini è la forza politica più solida e credibile da quando ha restituito stabilità a un Paese che aveva avuto 7 presidenti in dieci anni. Il Giuda ecuadoriano ha tradito le persone che lo hanno eletto, ha lavorato per il sottosviluppo dell’Ecuador, per riportarlo in una prospettiva periferica subordinata agli Stati Uniti. Ha così distrutto gli eccezionali progressi nelle politiche pubbliche compiuti dalla Rivoluzione dei cittadini. Ha stretto un patto con le banche, i media, la politica giudiziaria, ha cooptato il partito di Correa e ha aperto l’aeroporto delle Galapagos nell’Oceano Pacifico all’aviazione militare statunitense. Per quanto riguarda la transizione tra i due governi, sebbene i media ecuadoriani durante la presidenza di Correa non ci offrissero la migliore copertura, con l’arrivo di Moreno e il suo situarsi chiaramente nell’orbita negli Stati Uniti, si è scatenata una politica molto violenta contro il Venezuela. In quanto agente dell’imperialismo, Lenin Moreno si è fatto interprete di una strategia di razzismo politico contro il presidente Maduro e le autorità del governo venezuelano. E alla fine, ha scatenato una spietata aggressione contro il popolo venezuelano, che – di fronte alla guerra economica e alle sanzioni – ha scelto di emigrare in Ecuador o di transitare nel suo territorio. Tale operazione è consistita nella razzializzazione, attraverso ripetute diffamazioni, nella inferiorizzazione e infraumanizzazione del venezuelano: per far passare come naturali le misure di aggressione e la strategia di attacco allo Stato nazionale venezuelano. Questo processo di razzializzazione fascista può essere chiaramente osservato facendo un’analisi delle vignette, articoli di stampa e dichiarazioni pubbliche del governo Moreno contro il governo bolivariano. Sebbene possa sembrare insolito, Moreno ha espressamente promosso brigate di odio e persecuzione del popolo ecuadoriano contro i migranti venezuelani, che sono stati portati via dalle loro case di notte, le loro proprietà accatastate e bruciate con roghi pubblici nelle strade. Altri sono stati lapidati e perseguitati, altri ancora licenziati dal lavoro. E il Giuda andino, lungi dal rettificare, ha perseverato nel suo comportamento fascista. Le organizzazioni per i diritti umani sono rimaste in silenzio. Solo la “dittatura di Maduro” è andata in soccorso dei venezuelani con la Mission Vuelta a la Patria per facilitarne il ritorno. Nel quadro dell’attuale campagna elettorale e insieme alla demonizzazione contro il Venezuela, gli elettori ecuadoriani vengono spaventati dalla propaganda secondo la quale, se votano per i loro interessi progressisti, cioè per il binomio Araúz / Rabascall, condanneranno il Paese a un destino incerto come quello del Venezuela.
Il tradimento di Moreno è evidente, come indicano le sue decisioni politiche per restituire agli Stati Uniti il Paese che faceva parte di alleanze di solidarietà come ALBA e UNASUR. Tuttavia, la crisi era già in corso prima. Possiamo considerare il terremoto del 2016 come un punto di svolta che ha permesso al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale di rientrare nel Paese?
Certamente il terremoto ha colpito l’economia ecuadoriana che, a causa della dollarizzazione, manca di alcuni meccanismi di aggiustamento finanziario per autoregolarsi. Il problema, però, non è la richiesta di prestito, ma l’avidità e l’usura degli strozzini occidentali e le condizioni di vita sacrificali imposte ai paesi che ricevono il prestito. Il ritiro dell’Ecuador dalle istanze di integrazione regionale ha avuto conseguenze politiche e umane molto gravi. Ad esempio, tre mesi prima della pandemia, Moreno ha cancellato i servizi di 400 medici cubani dall’Ecuador, creando un vuoto grave nella protezione sanitaria. Le migliaia di morti dovute alla pandemia COVID19 a Guayaquil, sono responsabilità di un governo che ha rimosso l’Ecuador dall’ALBA; ha rimosso l’Ecuador da Unasur, il cui Consiglio sanitario ha definito soluzioni politiche comuni come l’acquisto congiunto di medicinali. Moreno ha distrutto l’architettura strategica dell’inserimento nella solidarietà globale che Correa e Chávez e Lula e Kirchner hanno realizzato per l’Ecuador con ALBA, UNASUR e CELAC, alleanze che canalizzavano i prestiti erogati dalla Cina senza condizioni capestro. E ha subordinato l’Ecuador a uno status di neocolonia allineata a un Nord America in declino. La storia giudicherà l’assurdo atteggiamento antinazionale e antiregionale di questo triste Giuda andino.
Qual è la sua analisi della situazione in Ecuador alla vigilia delle elezioni?
Il popolo ecuadoriano sta lavorando per cacciare i mercanti dal tempio. Andrés Arauz, un candidato progressista, nei sondaggi è considerato come il vincitore inequivocabile al primo turno delle presidenziali. Ma per vincere al primo turno occorre ottenere il 51% dei voti o 10 punti percentuali di vantaggio sul secondo candidato più votato. Non è facile se ricordiamo che Moreno ha vinto con i voti del Correísmo e un’alleanza segreta con il partito cristiano-sociale dell’ex sindaco Nebot di Guayaquil, che in queste elezioni sostiene la formula della destra. Riuscire a vincere al primo turno è fondamentale. Il secondo turno, di solito, funziona come un meccanismo per consentire la riorganizzazione delle alleanze di destra e aggirare la volontà democratica del popolo. La recente alleanza del binomio progressista Arauz-Rabascall con la CONAIE, che è la principale confederazione indigena dell’Ecuador, è un grande passo verso la vittoria al primo turno. Ma per vincere non basta ottenere la maggioranza dei voti. Ricordiamo la manipolazione criminale della Missione elettorale dell’OSA nella rielezione di Evo in Bolivia, lì un piccolo incidente elettorale è stato manipolato per legittimare un colpo di stato. Inoltre, sono stati creati pericolosi meccanismi interventisti come l’ISO elettorale, in base ai quali interessi privati statunitensi minano la sovranità elettorale delle nazioni del Sud e “certificano” o “decertificano” l’idoneità dei processi elettorali. Simón Bolívar lo aveva già molto chiaro nel Congresso costituente della Bolivia nel 1826, quando affermò che il potere elettorale avrebbe dovuto essere il quarto potere dello Stato per prevenire abusi contro la volontà della maggioranza dei popoli. Preoccupano anche la ristampa di milioni di schede a causa di un errore dell’autorità elettorale ecuadoriana, il recente viaggio di Moreno negli USA, e il fatto che migliaia di elettori all’estero non sappiano se potranno esercitare il diritto di voto, quando mancano pochi giorni alla scadenza elettorale. Il candidato alla presidenza progressista Andrés Arauz è un importante economista, che è stato Vice Ministro della Pianificazione, Ministro della conoscenza e del talento umano e Direttore della Banca centrale dell’Ecuador nel governo del Presidente Correa. Ha ampiamente dimostrato di possedere la conoscenza e l’onestà, che secondo Bolívar erano le condizioni necessarie per guidare i poteri pubblici.
Perché c’è una parte della sinistra indigena e anche delle femministe che sostiene il banchiere Lasso, qual è la situazione delle donne in Ecuador?
Anche in Ecuador c’è una sinistra coloniale che non è né di sinistra né indigena. Anche lì ci sono femministe coloniali. La formazione politica decoloniale richiede ancora un duro e permanente sforzo. Occorre aprire un dibattito profondo sul patriarcato, il razzismo, il disprezzo per gli indigeni, la questione storica, l’unione bolivariana e manuelista, il bene comune, all’interno della formazione. Sia i progetti di sinistra che quelli di destra hanno decantato il moderno e l’europeo-statunitense, e la realtà è che un modello di nazione anticapitalista, egualitario, di genere e non razzista, non si costruisce in pochi anni. Dieci anni di Rivoluzione non cancellano cinquecento anni di colonialismo.
Quali sono gli attori, le proposte e le forze che possono riportare il Paese nella sfera della Patria Grande? Che implicazioni comporterebbe un cambio di marcia in una economia dollarizzata e subordinata al comando militare degli Stati Uniti?
L’opzione uno, costituita dal binomio della speranza guidato da Andrés Araúz per la presidenza è primo nelle intenzioni di voto, seguito dal banchiere Guillermo Lasso nominato dai partiti di destra CREO e Partido Social-Cristiano. Al terzo posto, c’è il leader indigeno Yaku Pérez per il MUPP. L’Ecuador ha la sua economia dollarizzata da 20 anni, il che, sebbene eviti il deprezzamento del risparmio, presenta la difficoltà di rendere la produzione nazionale più costosa rispetto agli stessi beni prodotti dai paesi vicini che sono più competitivi. Il mantenimento della dollarizzazione genera anche la tendenza all’indebitamento pubblico. La sfida dell’Ecuador è quella di intendere che la vera politica è in realtà la geopolitica, come sottolinea il filosofo Rafael Bautista. L’Ecuador affronta la battaglia politico-ideologica e la battaglia culturale-epistemologica per liberarsi dal colonialismo e dalla schiavitù di un modello neoliberista che delega le sue decisioni sovrane, di politica internazionale, giudiziaria, economico-finanziaria, militare, alla geopolitica occidentale europea e statunitense. L’Ecuador sta combattendo per cacciare i mercanti dal sacro tempio della Patria ecuadoriana. Sta lottando per qualificare un soggetto storico rivoluzionario che dia sostenibilità al proprio modello nazionale di tutela della vita, del buen vivir nel pieno inserimento strategico regionale e globale. L’Ecuador si schiera a favore della lavoratrice, della studentessa, del contadino per liberarsi del colonialismo e progettare la rinascita dell’UNASUR che ha sede a Quito, dell’ALBA, il che equivale a ritrovare la sua identità e la sua libertà più profonda: il Sumak Kawsay.
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