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06/10/2021

La Russia nel cambio di equilibri in Africa

La notizia della ricezione di quattro elicotteri russi, giovedì scorso, da parte del Mali, e l’inquietudine francese rispetto all’ipotesi di un impiego da parte dello Stato africano di paramilitari del gruppo privato Wagner, dà la cifra di come stia avvenendo un “cambio di equilibri” non indifferenti nel continente africano.

In Mali, la scorsa estate, un “colpo di stato” militare con un notevole sostegno popolare aveva privato Parigi di un suo storico perno nell’area. E, sia detto per onore di cronaca, i primi diplomatici incontrati dalla giunta militare erano proprio russi.

È il terzo colpo messo a segno da Mosca, che in pochi mesi aveva infittito i legami bilaterali – dal punto di vista della partnership militare – con i due più popolosi Stati africani, la Nigeria ed in precedenza l’Etiopia.

Due contesti differenti, dove la configurazione di un quadro di relazioni tra Mosca e Abuja, è soprattutto legata alla minaccia di Boko Haram, ed in cui sia la Russia, ma anche gli Stati Uniti, fornivano sistemi d’arma al paese.

Il coronamento di questo nuovo profilo di relazione – voluto dal presidente nigeriano Muhammadu Buhari già dal 2019 – incrementa l’influenza di Mosca, e conferma la Russia come un partner privilegiato scelto da sempre più Paesi anche nella “lotta al terrorismo”.

L’accordo tra Mosca e Addis Abeba è in una situazione differente perché il governo etiope è in seria difficoltà; è infatti alle prese non con un organizzazione terrorista di stampo jihadista, ma con un gruppo di insorgenti della regione del Tigray, fortemente radicati in loco, con una lunga esperienza militare alle spalle e con parti del precedente establishment politico, che com’era prevedibile, stanno dando parecchio filo da torcere al presidente Abiy Ahmed.

Altra differenza rilevante è il conflitto apertosi tra Etiopia, Sudan ed Egitto rispetto alla costruzione della diga Gerd – la diga del Gran Rinascimento – che per il secondo anno consecutivo, quest’estate, ha incrementato la portata del bacino artificiale che sfrutta le acque del Nilo Azzurro. Un progetto strategico che produrrebbe elettricità per il 60% dei 110 milioni di abitanti etiopi e farebbe da volano allo sviluppo del Paese.

Ognuno di questi attori (Egitto, Sudan ed Etiopia) si sta appoggiando ad una differente filiera d’interessi, con l’Egitto ed il Sudan del dopo-Bashir più in orbita statunitense, rispetto all’Etiopia.

Il Sudan, infatti, all’inizio di quest’anno ha firmato gli “Accordi di Abramo” per arrivare alla normalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele, di fatto in cambio di un finanziamento annuale di un miliardo di dollari da parte della Banca Mondiale. Insieme al Marocco, è l’unico stato africano “arabo-musulmano” ad avere sottoscritto l’accordo.

Mosca aveva firmato poco prima un accordo con Khartum per potere disporre di uno scalo portuale e quindi nel Mar Rosso, cosa che gli permetterà di avere fino a quattro navi contemporaneamente, disporre di un organico civile-militare di 300 unità e spostare armi e mezzi nel Paese. Un hub importante su una rotta strategica in prossimità di due importanti “colli di bottiglia” del traffico commerciale globale, in particolare di idrocarburi (Suez e lo stretto di Bab el Mandeb).

L’accordo di cooperazione militare di giugno tra Mosca ed Addis Abeba aumenterà la conoscenza ed il trasferimento tecnologico tra Russia ed Etiopia, complicando il Risiko politico della regione, indebolendo gli USA che stanno ora ripianificando complessivamente il loro intervento nell'area, con un piano ventennale per l’AFRICOM, all’interno del quale il Corno d’Africa ed il Golfo di Guinea diventano le priorità.

Ma questi paesi africani (Mali, Nigeria ed Etiopia) non sono casi isolati, considerato che circa un quinto (il 18%) del flusso dell’export di armi russe dal 2016 al 2020 si è diretto verso il continente africano e che, prima dello scoppio della pandemia, erano una ventina i contratti di cooperazione militare tra Mosca ed i Paesi Africani.

Un’espansione che ovviamente non piace all’Occidente, ed in particolare alla Francia, che ha visto già annullata la propria egemonia nella Repubblica Centro Africana, dove tra l’altro la sicurezza del presidente Faustin-Archange Touadéra – eletto nel 2016 e confermato da poco meno di un anno – è in mano ai russi, che hanno un importante ruolo nella stabilizzazione del paese sul piano politico e militare (nonché interessi nel settore estrattivo), con Valery Zaharov – ex membro della FSB russa – tra i principali consiglieri militari.

Non è peregrino pensare che l’arresto di Juan Rémy Quignolot, avvenuto a Bangui il 10 maggio scorso, sia il fallimento di operazione di destabilizzazione dai contorni poco chiari condotta da Parigi. Avvenuta peraltro appoggiandosi ad una coalizione etnico-religiosa mussulmana, orchestrata da un ex militare francese, poi mercenario, e da un entourage di figure tutt’altro che secondarie della cosiddetta “cellula Africa dell’Eliseo” durante la presidenza Chirac, come Bernard Cousin e Christophe Renauteau.

L’arresto di Quignolot, da parte delle autorità della RCA, ha messo in serio imbarazzo Parigi che ha gridato alla strumentalizzazione.

Tale operazione, qualunque sia il profilo attuale dell’ex mercenario che rischia l’ergastolo (spia, “soldato di ventura” per conto terzi, o “lupo solitario”), è senz’altro un successo della collaborazione quasi triennale tra la RCA e la Russia.

La quale è ormai saldamente radicata nel Paese per prevenire quella “piattaforma di destabilizzazione dello Stato” già denunciata dal presidente nel 2018.

Un secondo smacco evidente, dopo il colpo di stato in Mali, che aveva sorpreso l’intelligence francese, segno che i tradizionali canali con cui la Francia ha praticato la guerra sporca in Africa sono ora depotenziati.

Un alto tassello di questo puzzle è il rapporto tra la Repubblica Democratica del Congo e la Russia, con cui Brazzaville ha siglato un accordo nel maggio 2019 per autorizzare l’entrata di esperti militari russi sul proprio territorio, sfruttare i mezzi che il Congo aveva acquistato dall’ex Unione Sovietica, in particolare blindati e mezzi di trasporto aereo.

Un secondo accordo di cooperazione è entrato in vigore l’estate di quest’anno. Un’intesa che amplia di molto i termini della collaborazione sull’addestramento, lo scambio di esperienze e la possibilità per Mosca di inviare navi ed aerei nel Paese – che confina la Repubblica Centro Africana – nei tre porti e nelle due basi aeree di cui dispone.

È chiaro che in vista del terzo summit annuale Russia-Africa a Sochi, il prossimo anno, l’Orso Russo stia guadagnando terreno. Il primo importante appuntamento, cui erano presenti oltre una quarantina di Capi di Stato africani, era stato un primo importante passo per una potenza “non coloniale” che poteva mettere a frutto le relazioni iniziate in epoca sovietica.

La Russia, in questo quadrante, sembra volere controbilanciare le pressioni euro-atlantiche che tendono al suo accerchiamento in Europa Orientale o nel Caucaso, mostrando come l’aiuto di Mosca sia per gli stati africani più risolutivo del supporto delle potenze occidentali.

Basta dare un occhiata alla mappa del continente per comprendere come Mosca stia creando dei corridoi geo-strategici in grado di cambiare gli equilibri e di minare vecchie e nuove sfere di influenza.

Le notizie che giungono dal Mali, così come quelle che giungono dall’Algeria – il cui esercito ha tra i maggiori fornitori proprio Mosca – si inseriscono quindi in un contesto dove il protagonismo russo (a cominciare dalla Libia, di fatto spartita con i turchi) sta sottraendo terreno alla Francia. La quale vede così le proprie pedine cadere – come in Mali – ed è ancora prigioniera delle sabbie del Sahel, dove sta da anni impiegando più di 5 mila uomini senza vedere progredire la situazione a proprio vantaggio.

La strategia messa in campo da Parigi è quella di “internazionalizzare” il conflitto in Sahel, chiedendo una maggiore compartecipazione degli Stati dell’Unione Europea, tra cui l’Italia. Un’impresa che, con un clamoroso effetto boomerang, potrebbe trasformarsi in un “Secondo Afghanistan”.

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