Il comparto del trasporto pubblico nazionale su rotaia si ferma. Gli ultimi colloqui tra le parti si sono conclusi senza accordo nel pomeriggio di ieri, lasciando la parola al più grande sciopero ferroviario degli ultimi trent’anni.
I lavoratori incroceranno le braccia oggi, giovedì e sabato, ma in Inghilterra, Scozia e Galles il servizio ha cominciato a ridursi già ieri sera. Ai 40 mila delle ferrovie si aggiungeranno, in lotta per il salario e contro 600 licenziamenti, gli 11 mila della metropolitana di Londra rappresentati dalla National Union of Rail, Maritime and Transport Workers (Rmt) – la principale union dei trasporti – e dal sindacato Unite.
«Va ribadito che la fonte di queste controversie è la decisione del governo Tory di tagliare 4 miliardi di sterline di finanziamenti dai nostri sistemi di trasporto – 2 miliardi di sterline dalle ferrovie nazionali e 2 miliardi di sterline da Transport for London», si legge nel comunicato della Rmt. Che chiede un aumento salariale di almeno il 7% per stare al passo di corsa dell’inflazione, attualmente al 9%, ma prevista all’11% in autunno.
Il gestore della rete ferroviaria Network Rail, controllato dal governo, aveva offerto un aumento di stipendio iniziale del 2% e una richiesta di tagli ai posti di lavoro. Altre rivendicazioni dei lavoratori sono la fine della pratica di licenziamento interno e riassunzione a salario ridotto, degli attacchi al regime pensionistico ferroviario e dei blocchi salariali.
Si prevede una diminuzione dei servizi a circa un quinto del flusso normale, e l’impatto sul traffico sarà avvertito su tutto l’arco della settimana, con gli esami scolastici e il festival di Glastonbury a farne le spese.
È l’inizio di quella che qualcuno chiama già l’«estate dello scontento», riferendosi al «Winter of discontent», gli scioperi del 1978-79 durante l’allora governo laburista di James Callaghan: un’ondata destinata ad allargarsi a gran parte del settore pubblico nei prossimi mesi con insegnanti, infermieri, medici e impiegati delle poste tendenzialmente disposti a fermarsi anche loro.
Per il segretario ai trasporti, Grant Shapps, il governo ha fatto «il massimo» per scongiurare gli scioperi, pur rifiutandosi fermamente di intervenire nella disputa tra sindacati e compagnie ferroviarie private – un punto su cui insisteva l’opposizione laburista.
I tagli di 2 miliardi al settore non sono dovuti al governo, secondo Shapps, bensì al calo del numero dei passeggeri in seguito alla pandemia. Dal canto suo, il segretario al Tesoro Clarke ha echeggiato Boris Johnson nell’escludere aumenti salariali in linea con l’inflazione, adducendo la ben nota «spirale prezzi-salari» come concausa della crescita inflattiva.
La politica adottata è, classicamente, monetaria restrittiva: la scorsa settimana, la Banca d’Inghilterra ha aumentato i tassi di interesse dall’1% all’1,25%.
Questa settimana il governo Johnson cercherà di abrogare il divieto alle aziende di utilizzare lavoratori temporanei durante gli scioperi: secondo il Times, i piani potrebbero entrare in vigore già entro metà luglio. Legalizzare il lavoro interinale per rendere inefficaci gli scioperi – il lavoro dei crumiri – equivale ad alzare il livello dello scontro.
Già nel marzo scorso, il semi-tracollo della compagnia di traghetti P&O – di proprietà di un colosso logistico di Dubai – vide l’assunzione alla disperata di temporanei dopo aver licenziato 800 lavoratori senza aver minimamente avvertito i sindacati.
I Tory cercano di dipingere l’agitazione come ampiamente sostenuta dal partito Laburista di Keir Starmer, che invece con i sindacati è in disputa, avendo rifiutato il suo pieno sostegno agli scioperi, e dicendosene invece «rammaricato». Tanto che la segretaria-ombra dei trasporti del Labour, Louise Haigh, ha affermato in un soprassalto di evangelica equanimità che il partito «sta con l’opinione pubblica e coi lavoratori delle ferrovie».
Di avviso leggermente differente Mick Lynch, il segretario generale della RMT, che ha esortato Keir Starmer a «pensare a dove sta andando il partito laburista», aggiungendo che dovrebbe «saper tirare fuori politiche che dimostrino di essere dalla parte dei lavoratori».
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