Con la chiusura al transito delle merci attraverso il corridoio che collega la Russia alla propria exclave di Kaliningrad, il governo lituano ha in questi giorni inaugurato un nuovo livello di provocazione nei confronti di Mosca che minaccia, forse come mai è accaduto dal 24 febbraio scorso, l’esplosione di una guerra tra Mosca e la NATO. Da membro debole ed estremamente vulnerabile dell’Alleanza Atlantica e dell’Unione Europea, la Lituania ha agito senza dubbio su indicazione o, quanto meno, con il permesso di Washington e Bruxelles. L’iniziativa sarebbe giustificata dalla necessità di estendere anche qui le sanzioni europee contro la Russia, ma essa non ha in realtà nessuna giustificazione legale, essendo il traffico di beni verso la provincia russa affacciata sul Baltico regolato da un trattato bilaterale di quasi tre decenni fa.
Il territorio di Kaliningrad (già Königsberg), quartier generale della Flotta del Baltico russa, è stato controllato per oltre quattro secoli dalla Polonia, dalla Prussia e dalla Germania, fino all’annessione sovietica dopo la seconda guerra mondiale. Prima del 1991, i collegamenti con questo “oblast” non rappresentavano un problema, dal momento che la Lituania era parte dell’URSS. Successivamente, l’indipendenza delle repubbliche baltiche e la perdita della continuità territoriale con Kaliningrad avevano portato alla stipula di un trattato nel novembre del 1993 che, fino a qualche giorno fa, ha assicurato la libera circolazione di merci e uomini attraverso la Lituania e la Bielorussia.
Questa exclave è incastrata tra la Polonia e, appunto, la Lituania, ovvero tra due paesi NATO, di cui il primo ha da tempo delle mire su questo stesso territorio. La decisione del governo di Vilnius blocca il transito di merci su rotaia, ma solo quelle previste dalla lista nera UE. Tra queste figurano carbone, materiali da costruzione, greggio e derivati del petrolio, prodotti di alta tecnologia e metalli di vario genere. Secondo il governatore della regione di Kaliningrad, Anton Alikhanov, il bando riguarda circa la metà dei beni importati.
Nella regione non sembrano tuttavia scarseggiare i beni di prima necessità, parte dei quali sono prodotti in loco. La rotta via mare resta inoltre aperta per la Russia. Le autorità locali hanno già fatto sapere che almeno due navi cargo sono partite da San Pietroburgo per garantire la consegna delle merci fermate dalla Lituania e altre ancora verranno utilizzate a questo scopo se la situazione non dovesse tornare alla normalità nel breve periodo. Queste rassicurazioni non hanno comunque evitato una certa corsa ad accaparrarsi beni di prima necessità da parte della popolazione di Kaliningrad, come hanno mostrato svariati filmati circolati in rete.
Il blocco imposto dal governo lituano è una provocazione in piena regola e non è del tutto chiaro cosa sia stato a motivarla nello specifico, oltre alla stupidità pura e semplice dei vertici europei e dello stesso paese baltico. Il fatto che Kaliningrad sia geograficamente separata dal resto della Russia fa in modo che l’accesso a questo territorio sia garantito dal diritto internazionale. Perciò, l’iniziativa di Vilnius è giudicata da molti come un possibile casus belli che può giustificare una dichiarazione di guerra da parte di Mosca.
Il governo russo aveva già avvertito dell’intenzione dell’Europa di spingere la Lituania ad attuare una sorta di assedio economico ai danni di Kaliningrad. Durante la discussione di uno dei pacchetti di sanzioni adottato da Bruxelles, ad esempio, nel mese di aprile la Russia aveva spiegato che un eventuale blocco del proprio “oblast” occidentale avrebbe dovuto essere “rotto” per il bene della popolazione che vi abita.
Di conseguenza, non sorprende che le dichiarazioni provenienti da Mosca sulla situazione a Kaliningrad siano state particolarmente minacciose. Lunedì, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha definito “senza precedenti” la mossa della Lituania. La situazione, secondo Peskov, “è più che seria” e “richiede un’analisi molto approfondita” prima che vengano prese “decisioni e contromisure”. Nella mattinata di martedì, la portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, ha alzato il livello della ipotetica reazione russa, lasciando intendere che la vicenda potrebbe essere risolta unilateralmente da Mosca senza cercare un accordo con Vilnius.
Intervenendo in un programma televisivo, la diplomatica russa ha affermato che, nel caso il suo governo dovesse stabilire che quella lituana è stata una “decisione apertamente ostile”, allora da parte di Mosca “non ci saranno tentativi di trovare una formula per disinnescare la crisi”, ma soltanto una “risposta adeguata”. La gravità della situazione è determinata appunto dal fatto che la Lituania è un paese NATO e una risposta militare russa al blocco deciso nei giorni scorsi implicherebbe l’applicazione dell’articolo 5 del Patto Atlantico, che prevede cioè l’intervento automatico degli altri membri dell’Alleanza in appoggio al paese “aggredito”.
Discussioni molto accese sono in corso anche sul tipo di risposta che Mosca starebbe studiando se non ci sarà un passo indietro da parte del governo di Vilnius. La riapertura forzata del corridoio che permette i collegamenti di terra è la scelta più ovvia, ma qualche commentatore ha sollevato un’altra possibilità. Essendo la decisione lituana un ripudio a tutti gli effetti dell’accordo dei primi anni Novanta sulla delimitazione dei confini post-sovietici, Mosca potrebbe a sua volta disconoscere questi stessi confini, con conseguenze che sono facilmente immaginabili. Altri strumenti, oltre a quelli militari, sono comunque a disposizione della ritorsione russa, come il taglio delle forniture elettriche che costituiscono un fattore importantissimo nel quadro delle politiche energetiche lituane.
Resta il fatto che la responsabilità primaria dell’iniziativa ultra-provocatoria di Vilnius va attribuita all’Europa. Il ministro degli Esteri lituano, Gabrielius Landsbergis, ha in qualche modo rimandato a Bruxelles la questione del blocco delle merci, chiarendo che la decisione è stata presa in seguito a “consultazioni con la Commissione Europea” e “in accordo con le sue linee guida” relative alle sanzioni anti-russe.
Come già anticipato, non sono immediatamente comprensibili le vere ragioni del comportamento dell’Europa, per non parlare di quelle del governo lituano. Riguardo a quest’ultimo paese, se i governi post-sovietici sono stati dominati da elementi ferocemente anti-russi e ultra-atlantisti, da un punto di vista razionale politiche di questo genere sono poco meno che suicide, sia per l’esposizione del paese in un eventuale conflitto con la Russia sia per il fatto che la comunità russa ammonta a circa il 15% della popolazione lituana.
Per qualcuno, il flop in Ucraina avrebbe convinto l’Europa a provocare la Russia su un altro fronte, presumibilmente per moltiplicare lo sforzo militare di Mosca o, nella peggiore della ipotesi, per consegnare alla NATO l’occasione per entrare direttamente nel conflitto. La difficoltà nel comprendere la gestione europea della crisi ucraina e, ora, di Kaliningrad è accentuata dai messaggi contraddittori che stanno arrivando nelle ultime settimane. Segnali di una ricerca disperata di una via d’uscita al disastro ucraino si alternano a dichiarazioni e iniziative di senso opposto.
È possibile che la presa d’atto dell’impossibilità di sconfiggere la Russia in Ucraina stia lentamente penetrando nelle strutture del potere in Europa, ma allo stesso tempo persistano tendenze a provocare Mosca nell’illusione di potere in qualche modo indebolire questo paese o ridurlo a uno stato di quasi vassallaggio. Ad ogni modo, l’insensata decisione della Lituania si inserisce in un clima surriscaldato negli ultimi giorni da uscite a tratti deliranti di personalità politiche e militari occidentali.
Il culmine in questo senso lo ha toccato probabilmente il nuovo comandante delle forze armate britanniche, Patrick Sanders. In un messaggio ai soldati di sua maestà, il generale ha parlato dell’imperativo di “forgiare un esercito capace di combattere con gli alleati e di sconfiggere la Russia in battaglia”. Secondo Sanders, questa generazione deve prepararsi “ancora una volta a combattere sul territorio europeo”. Ugualmente preoccupanti sono state anche le dichiarazioni più recenti del segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, e del primo ministro britannico, Boris Johnson. Entrambi hanno in sostanza prospettato uno sforzo a lungo termine in appoggio al regime neo-nazista di Kiev, fino a quando, secondo l’ex sindaco di Londra, l’Ucraina non avrà riconquistato il Donbass e la Crimea.
Se nel breve periodo non dovessero prevalere posizioni e decisioni strategiche decisamente più assennate di queste, il futuro dell’Europa risulterà ancora più cupo di quello verso cui la sua classe dirigente la sta rapidamente conducendo. L’illusione di ribaltare le sorti del conflitto in Ucraina e di negare il raggiungimento dei legittimi obiettivi della Russia rischia di innescare uno scontro potenzialmente rovinoso, soprattutto per l’Occidente.
Va ricordato, a questo proposito, che Mosca sta conducendo dal 24 febbraio quella che definisce correttamente una “operazione militare speciale”, con l’impiego cioè di forze relativamente limitate e concentrandosi su obiettivi puramente militari. Le continue provocazioni occidentali e il tentativo di allargare il fronte del conflitto potrebbero però a un certo punto spingere il Cremlino a passare a un’operazione di guerra a tutti gli effetti. In quel caso, il livello di distruzione sofferto dall’Ucraina o da altri paesi come quelli del Baltico e l’umiliazione a cui andrebbe incontro l’Europa, per non parlare della gravità della crisi economica che si innescherebbe, farebbero impallidire i già pesantissimi scenari a cui si sta assistendo in questi ultimi quattro mesi.
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