[In tempi in cui pretesi filosofi “marxisti” come Slavoj Zizek dichiarano che non è di sinistra chi non appoggia l’invio di armi all’Ucraina, potrebbe rivelarsi estremamente utile la rilettura di un testo, apparso per la prima volta sul n° 13 del 1949 della rivista «Prometeo» del Partito Comunista Internazionalista, in cui si dimostra come tanta parte del dibattito contemporaneo, spesso confuso e sconclusionato (soprattutto nel caso in cui si parli di Patria, diritti, aggressione, diritto alla difesa, Nazione e guerra) sia stato ampiamente anticipato e superato da riflessioni che soltanto la solerte opera di rimozione e censura preventiva esercitata dallo stalinismo togliattiano e dai suoi epigoni (rispetto ai quali Gabrielli e Urso sembrano soltanto dei principianti) ha potuto tener lontano da un pubblico antagonista e antisistemico desideroso di trovar risposte alle necessità di lotta e opposizione poste all’ordine del giorno dalle sempre più pressanti contraddizioni socio-economiche e interimperialiste. Il testo è stato lasciato nella sua integrità, evidenziandone in grassetto le parti più significative, anche per mantenerne intatte l’ironia e lo stile di Bordiga, che mai si era definito filosofo e mai aveva dimenticato l’undicesima tesi di Karl Marx su Feuerbach. Unico nel suo tempo e ancora in quello attuale e per questo ancora ben confacentesi a ciò che contraddistingue generalmente i testi pubblicati su Carmilla. Sandro Moiso]
Aggressione all’Europa
Guerre di difesa e di aggressione, grossa polemica allo scoppio del conflitto europeo nel 1914 su questa distinzione, nei riguardi dell’atteggiamento dei socialisti.
Per i benpensanti è un quesito semplice, al solito. Governo, Stato, Patria, Nazione, Razza, senza andare troppo per il sottile, sono assimilati ad un unico soggetto con ragione torto diritto e dovere, come tutto si riduce alla Persona Umana, e alla dottrinetta sul suo comportamento, pigliala vuoi dalla morale cristiana, vuoi dal diritto naturale, vuoi dall’innato senso della giustizia e dell’equità, e quando si parla più difficile dalla eticità dell’imperativo categorico. E allora come l’uomo giusto e alieno dal male, se assalito, si difende dall’aggressore – lasciando per un momento da parte l’affare dell’altra guancia – così il Popolo assalito ha diritto di difendersi, la guerra è cosa barbara ma la difesa della patria è sacra, ogni cittadino deve democraticamente pronunziarsi per la pace e contro le guerre, ma dall’attimo in cui il suo Paese è aggredito deve correre alla difesa contro l’invasore! Questo vale per il singolo, vale per tutta la Nazione fatta Persona, vale dunque anche per i partiti a loro volta mossi e trattati come soggetti personificati nei loro obblighi, vale per le classi.
Ne venne fuori il tradimento generale del socialismo, il guerrafondaismo su tutti i fronti, il trionfo in tutte le lingue del militarismo. E non meno ovviamente non ci fu guerra che lo Stato e il Governo che la conducevano non qualificassero di difesa.
La polemica marxista naturalmente fu impostata sgombrando il campo di tutte quelle fantomatiche persone ad una testa, a più teste, o senza testa, o senza testa e colla testa altrui sul collo, riponendo al loro posto il carattere e la funzione di quegli organismi che sono le classi, i partiti, gli Stati, aventi una propria dinamica storica per indagare la quale a nulla servono i buoni principi morali.
Si rispose ai borghesi che i proletari non hanno patria e che il partito proletario persegue i suoi fini colla rottura dei fronti interni, cui le guerre possono offrire ottime occasioni; che non vede lo sviluppo storico nella grandezza o nella salvezza delle nazioni; che nei congressi internazionali era già impegnato a spezzare tutti i fronti di guerra cominciando ove meglio si poteva.
Si dispersero in una lunga lotta non solo verbale i falsificatori del marxismo, i quali in vari modi e in varie lingue si provarono a smantellare la teoria che il proletariato può costituirsi in classe nazionale, in primo tempo, solo con l’attuare contro la schiacciata borghesia la sua dittatura, come Marx insegnò, e vi sostituirono l’altra, spudorata, che esso e il suo partito assumono carattere nazionale sol che la democrazia politica e il liberalismo siano stati attuati.
Si chiarì lungamente come siano diversi i problemi delle conseguenze che le guerre, il loro procedere e il loro scioglimento hanno sulle vicende interne e mondiali della lotta di classe socialista e, del comportamento del partito socialista nei paesi in guerra, essendo condizione di ogni sfruttamento di condizioni nuove o di nuove fragilità di regimi, la continuità, la autonomia, la fiera opposizione classista, la disposizione teorica e materiale alla guerra sociale interna, del partito rivoluzionario.
Negata ogni adesione alla guerra degli Stati o dei governi, cadeva ogni discriminazione sulla guerra di difesa o di offesa, ogni scusante che da tali oblique distinzioni potesse sorgere per giustificare il passaggio dei socialisti nei fronti di unione nazionale.
D’altra parte la vacuità dei confronti colla zuffa di due persone sta nella diversa portata dei concetti di aggressione e di invasione. Anche i due mocciosi in rissa badano a berciare che il primo è stato lui, ma quando si invoca la integrità del territorio il caso è molto diverso. Nelle guerre di una volta, e in larga misura nella Prima Guerra Mondiale, la guerra pesava sull’incolumità dell’individuo in quanto soldato spedito a combattere, ma il rischio di morte per il civile lontano dal fronte era praticamente nullo. Se invece un territorio veniva invaso dall’esercito avversario, ecco sorgere il solito quadro della distruzione dei beni delle case dei focolari della famiglia, la violenza sulle donne e sugli indifesi e così via, tutto materiale di propaganda cui si fece largo ricorso per trarre i partiti socialisti nell’agguato. Anche il lavoratore nullatenente, si disse, maturo a lottare per i fini di classe, ha qualcosa da perdere e vede minacciati vitali suoi interessi in senso materiale ed immediato, se un esercito nemico invade la città o la campagna in cui vive e lavora. Deve dunque correre a ributtare l’invasore. Tesi letterariamente robusta. Siamo alla difesa organizzata nel castello dell’Innominato contro i Lanzichenecchi predoni, siamo al ritmo della Marsigliese: ils viennent jusque dans nos bras égorger nos fils et nos compagnes...
In risposta a tante piacevolezze i marxisti stabilirono cento volte che senza affatto rinunziare alla valutazione, critica e storica, dei caratteri distintivi tra guerra e guerra nella loro ripercussione sugli sviluppi delle lotte sociali e sulle crisi rivoluzionarie, tutti questi motivi di giustificazione della guerra, usati al fine di trovare carne da cannone e disperdere i movimenti e i partiti che traversano la strada al militarismo, sono inconsistenti e si distruggono tra di loro. Il motivo abusatissimo dell’aggressione e quello non meno sfruttato dell’invasione possono stare in contrasto. Uno Stato può prendere l’iniziativa della guerra ma, se ha dei rovesci militari, la sconfitta può esporre in breve i suoi territori all’invasore, come dalla già ricordata togliattiana teoria dell’inseguimento dell’aggressore.
Non meno contraddittori sono gli altri famosi motivi tratti dalle rivendicazioni nazionali e irredentiste, e quelli che molti marxisti di bocca buona allinearono per giustificare l’appoggio a guerre coloniali, che valevano a diffondere in paesi “barbari” i caratteri della moderna economia capitalistica. La guerra anglo-boera del 1899-900 fu una palese aggressione, i coloni boeri di razza olandese difesero la patria la libertà nazionale e il territorio violato, ma i laburisti riuscirono a giustificare come progressiva la impresa britannica. Nel maggio 1915 quella dell’Italia all’Austria ex-alleata fu palese aggressione, ma la giustificarono – i vari socialtraditori – col motivo della liberazione di Trento e Trieste e con l’altro della “guerra per la democrazia”, senza imbarazzarsi del fatto che dall’altro lato l’Austria-Ungheria era alle prese con gli eserciti dello Zar.
Un caso classico è riportato nel libro interessantissimo di Bertram D. Wolfe Three made a revolution1, vera miniera di dati storici, con ogni riserva sulla linea propria dell’autore.
Il 6 febbraio 1904 i giapponesi, alla Pearl Harbour, attaccano e liquidano la flotta russa davanti a Port Arthur senza dichiarazione di guerra. Palese aggressione. Dopo il lungo assedio da terra e da mare la cittadella cade nel gennaio del 1905. Lutto nero per il patriottismo russo. Nel Vperiòd del 4 gennaio 1905 Lenin scrive frasi come le seguenti: “Il proletariato ha ogni motivo di rallegrarsi... Non il popolo russo ma l’assolutismo ha subito una disfatta vergognosa: la capitolazione di Port Arthur è il prologo della capitolazione dello zarismo. La guerra è lontana dalla fine ma la sua continuazione solleva ad ogni passo l’inarrestabile fermento ed indignazione delle masse russe, ci porta più vicini al momento di una nuova grande guerra, la guerra del popolo contro l’assolutismo”.
Tutta la questione merita maggiori analisi se si vuol chiarire l’insieme dei problemi sui rapporti storici tra assolutismo borghesia e proletariato, sciogliendo mediante la dialettica marxista la pretesa contraddizione che il citato autore vede tra i tempi storici della dottrina e dell’opera leninista – ci basti ora notare che lo scritto dell’esule isolato vive dello stesso contenuto della gigantesca battaglia rivoluzionaria russa del 1905, sorta dalla disfatta nazionale pochi mesi oltre.
Passano quarant’anni e il 2 settembre del 1945 il Giappone battuto dagli Americani colle atomiche di Hiroshima e Nagasaki capitola senza condizioni. Benché la Russia non abbia dichiarata la guerra ai nipponici che nelle ultime ore, il Maresciallo Stalin dirama un Indirizzo di Vittoria, che testualmente dice: “La disfatta delle truppe russe nel periodo della guerra russo-giapponese lasciò un ricordo doloroso nelle menti dei nostri popoli. Fu una oscura macchia sul nostro paese. Il nostro popolo ebbe fede ed attese il giorno in cui il Giappone sarebbe stato disfatto e la macchia cancellata. Noi della vecchia generazione abbiamo atteso questo giorno per quarant’anni. Ed ora questo giorno è venuto!”.
La suggestiva storia delle adesioni alle guerre fornisce
dunque argomenti decisivi in sostegno del disfattismo rivoluzionario di
Lenin, della norma tattica che i partiti proletari non possono in questo
campo entrare nella via della minima concessione, senza porre la classe
operaia alla mercé delle mosse degli Stati militari. Basterà che questi
creino con un breve telegramma la mossa irreparabile, perché il
pericolo per la nazione il suo suolo e il suo onore sia determinato, ed
ogni sensibilità a tali argomenti sarà la rovina del movimento di classe
nazionale e internazionale.
Quando l’aggressione italiana del 1915 condusse col rovescio di
Caporetto alla invasione, si fece vacillare la meritoria opposizione dei
socialisti italiani, nel grido di Turati: “La patria è sul Grappa!”
malgrado che il suo fratello intellettuale Treves avesse osato ammonire:
“Un altro inverno non più in trincea!”.
Più ancora, gli Stati borghesi e i partiti di governo coniarono la teoria degli spazi vitali, della invasione preventiva, della guerra preventiva, motivandola con argomenti di salute nazionale. Motivi tutti non privi di reale consistenza storica, ma che non devono smuovere i rivoluzionari, come non devono smuoverli i motivi di difesa e di libertà del più candido e innocentino – se ci fosse – dei governi capitalisti. La stessa guerra del 1914, strombazzata aggressione teutonica, fu una guerra preventiva inglese. Ogni governo vede dove vuole i suoi interessi e i suoi spazi vitali; è un gioco di secoli quello inglese di avere le proprie frontiere sul Reno e sul Po, e questo gioco avrebbe salvato tante volte la Libertà, mentre la avrebbe offesa a morte la pretesa di Hitler di avere le frontiere vitali oltre i Sudeti e a Danzica... pochi chilometri fuori o anche pochi chilometri dentro casa, nell’ineffabile democratico capolavoro versagliese del corridoio polacco.
Le guerre potranno volgersi in rivoluzioni a condizione che, qualunque sia il loro apprezzamento, che i marxisti non rinunziano a compiere, sopravviva in ogni paese il nucleo del movimento rivoluzionario di classe internazionale, sganciato integralmente dalla politica dei governi e dai movimenti degli Stati Maggiori militari, che non ponga riserve teoriche e tattiche di nessun genere tra sé e le possibilità di disfattismo e di sabotaggio della classe dominante in guerra, ossia delle sue organizzazioni politiche statali e militari.
Nel numero precedente di questa rivista abbiamo del resto chiarito che questo proclamato disfattismo non è grande scandalo, avendolo tutti i nostri avversari, sia sedicenti rivoluzionari che borghesi autentici, in vari casi e luoghi decantato e applicato. Solo che in tutti questi casi il contenuto dialettico del disfattismo non è la conquista rivoluzionaria di un nuovo regime di classe, ma un semplice mutamento di stati maggiori politici nel quadro dell’ordine borghese vigente, e i disfattisti di tal tipo rischiano molte parole e poca pelle per il solo incentivo che un dato regime cadrà solo se sconfitto in guerra, e solo se cadrà si aprirà per essi uno spiraglio al successo personale ed a cariche di potere. Basta loro tanto poco – e sono poi gli stessi gentiluomini dei motivi patriottici nazionali liberi e democratici – per approvare che il paese e la sua popolazione nel senso materiale, e giusta la tecnica moderna di guerra, siano schiacciati da bombardamenti distruttivi e dilaniati da tutte le manifestazioni irreparabili dell’azione bellica e dell’occupazione militare.
Ciò ribadito una ennesima volta, vediamo che razza di guerra sarebbe la eventuale prossima dell’America per cui si votano crediti militari immensi, si fanno riunioni di Stati Maggiori e si danno ordini di preparazione e dettami strategici a paesi stranieri e lontani. Potrebbe risultare la più nobile delle guerre sotto il profilo dei lodati argomenti letterari, potrebbe riuscire ad avere di contro figure più nere dei Cecco Beppe, dei Guglielmone, dei Beniti, degli Adolfi, dei Tojo, di un rinato con essi Nicola dalle mani goccianti sangue, essa non indurrebbe i marxisti rivoluzionari a dare parole di attenuazione della lotta antiborghese e antistatale, ovunque.
Ciò non toglie diritto ad analizzare questa guerra e a definirla come la più clamorosa impresa di aggressione di invasione di oppressione e di schiavizzamento di tutta la storia. Non si tratta solo di una guerra eventuale ed ipotetica poiché essa è già in atto, essendo tale impresa legata da stretta continuazione con gli interventi nelle guerre europee del 1917 e del 1942, ed essendo in fondo il coronamento del concentrarsi di una immensa forza militare e distruttrice in un supremo centro di dominio e di difesa dell’attuale regime di classe, quello capitalistico, la costruzione dell’optimum delle condizioni atte a soffocare la rivoluzione dei lavoratori in qualunque paese.
Tale processo potrebbe svilupparsi anche senza una guerra nel senso pieno tra Stati Uniti e Russia, se il vassallaggio della seconda potesse essere assicurato, anziché con mezzi militari e una vera e propria campagna di distruzione e di occupazione, con la pressione delle forze economiche preponderanti della massima organazione capitalistica nel mondo – forse domani lo Stato unico Anglo-Americano di cui già si parla – con un compromesso attraverso il quale la organizzazione dirigente russa si farebbe comprare ad alte condizioni; e Stalin avrebbe già precisata la cifra in due miliardi di dollari.
Sta di fatto che le prepotenze di quei citati aggressori storici europei che si dannavano per una provincia o una città a tiro di cannone, fanno ridere di fronte alla improntitudine con cui si discute in pubblico – ed è facile arguire di che tipo saranno i piani segreti – se la incolumità di Nuova York e di San Francisco si difenderà sul Reno o sull’Elba, sulle Alpi o sui Pirenei. Lo spazio vitale dei conquistatori statunitensi è una fascia che fa il giro della terra; è il punto di arrivo di un metodo cominciato con Esopo quando il lupo disse all’agnello che gli intorbidiva l’acqua pur bevendo a valle. Bianco nero e giallo, nessuno di noi può ingollare un sorso d’acqua senza intorbidire i cocktails serviti ai re della camorra plutocratica nei night-clubs degli Stati.
Quando i reggimenti americani sbarcarono la prima volta in Francia i tecnici militari risero e gli Stati Maggiori anglo-francesi pregarono di ridar loro subito i pochi tratti di fronte occidentale consegnati, se non si voleva vedere subito Guglielmo a Parigi. I boys, ubriachi allora ed oggi, avrebbero però ben potuto rispondere che c’era poco da sfottere, e vediamo oggi i sorci verdi di un militarismo che surclassa quelli della nostra storia plurimillenaria. Sono i soldi, i capitali, gli impianti produttivi che contano per fare la guerra; l’abilità militare e il coraggio sono merci in vendita sul mercato mondiale, ricchissimo di superfurbi e di superfessi.
Si vantarono fin da allora di una prima vittoria, arricciarono il naso per aver dovuto uscire, sulla scia degli inglesi, dal loro isolazionismo, si ritrassero dopo aver disegnata una Europa più assurda di quella che, se ce l’avessero fatta, avrebbero disegnata Tamerlano o Omar Pascià. Venti anni di pace erano quello che ci voleva per la preparazione, e la consacrazione alla Libertà super-statuata, di una superflotta una superaviazione e un superesercito. Al servizio della superaggressione.
Nell’intervallo i coloni del Far West si sono anche ripuliti in fatto di alfabeto e hanno perfino studiata la storia, senza rinunziare alla ineffabile comodità di essere senza storia. Al secondo sbarco in Normandia non si sa se Clark o un altro graduato, giunto alla tomba del generale francese che lottò per l’indipendenza americana, ha trovato la frase sensazionale: “Nous voici, Lafayette!”. Ossia siamo venuti per ricambiare la finezza e liberare la Francia.
Ed infatti come a Mosca insegnano nei manuali di storia che Vladimiro Ulianoff detto Lenin chiese ed ottenne dallo Zar Nicola di poter formare un corpo di volontari per correre alla difesa della Manciuria contro i giapponesi, così insegneranno a Washington come il francese Lafayette, nella alleanza di tutte le forze democratiche mondiali capitanata dalla libera Inghilterra, combatté per liberare l’America del Nord, fino ad allora colonia oppressa dei tedeschi, che da allora in tutte le guerre mirano ad attaccarla e riconquistarla. Ed in una prossima edizione può darsi che i manuali yankee parlino addirittura di una lotta di emancipazione coloniale contro il conquistatore moscovita, le cui esose intenzioni di rivincita sono evidenti da quando cominciò col vendersi l’Alaska per poche libbre di oro.
Neanche nella seconda impresa le gesta militari sono state di prim’ordine, ma anche in fatto di bravura di guerra la quantità si trasforma in qualità. A proposito di Clark dicono che proprio in America gli negano la gloria della battaglia di Cassino. Avranno forse scoperto che non vi è mai stata una battaglia a Cassino, e non vi è mai stata una linea Gustavo, come possono attestare poche decine di soldati tedeschi rimasti incolumi e varie centinaia di migliaia di italiani civili bombardati sanguinosamente per cinque mesi, fino a che non si trovarono da fare avanzare alcuni reparti di polacchi, di italiani e, nella direttrice Sessa-Ausonia, di marocchini che si occuparono di violare tutte le donne dai dieci ai settanta anni e qualche altro ancora, agganciando meno deutsche grenadiere di quanti banditi di Giuliano aggancino le forze romane di polizia.
Tra le grandi decisioni del sinedrio americano militare per i fatti di Europa c’è dunque il riarmo italiano. Strana la parte dell’Italia in tutto questo muoversi di colossi, dopo che negli ultimi decenni la potenza demografica non è più il primo fattore di forza militare.
Dopo essere stata nella Prima Guerra sulle soglie di almeno un grande tentativo di disfattismo rivoluzionario, nella Seconda il nostro paese ne ha vissuto in pieno uno di disfattismo borghese.
In sostanza nessuno ha scalzato alle spalle la guerra dei fascisti nel periodo delle fortunate imprese di guerra tedesche. Molti hanno disfattisticamente sperato, ma per fatto personale. Mussolini era tra loro e la voluttà del potere. Qui tutto. Non potevano scalzare alle spalle l’esercito di Benito e di Hitler, standosene alle spalle degli eserciti avversari.
Nell’autunno del 1942 si diffuse la notizia che le forze di sbarco americane, dopo le lunghe discussioni, e reciproche insidie, cogli alleati russi che giorno per giorno si svenavano senza misura sul secondo fronte, erano sulle coste del Marocco, con un chiaro itinerario: il Mediterraneo, la penisola italiana.
Erano tappe di una unica invasione, passata da Versailles nel 1917-18, diretta a Berlino. Solo a Berlino? No, insensati allora plaudenti, diretta anche a Mosca. Per grandi specialisti della sensibilità al mutarsi della storia, siete in ritardo oggi nel gridare alla minaccia imperiale e all’aggressione. Sarebbe poco essere in ritardo, siete senza più fiato nella strozza, non potete più risuscitare e mandare in senso opposto i milioni di caduti di Stalingrado. Nessuno vi risponderà.
Quella notizia doveva bastare a prevedere il calvario che avrebbe traversato il paese italiano. A fini di classe, a fini di rivoluzione, il marxista attira sulla zona dove opera anche maggiori cataclismi. Ma qui si trattava di pura cecità. Aveva più senso storico la radio fascista che cantava una canzonetta di propaganda, per trarre acqua al proprio mulino sia pure, ma adatta oggi a passare nelle bocche degli alleati di ieri dell’America strapotente, dei tripudianti per il fallimento della classica contromossa militare italo-tedesca nella Tunisia, garantita in primo tempo alla Francia neutralizzata, contromossa giocata bene tecnicamente dall’ultimo esercito italiano da Scipione in poi (godiamo del fatto che non vi saranno più eserciti italiani senza altri aggettivi, più godremo quando eserciti non ve ne saranno con nessun aggettivo), ma che per lo strapotere dei mezzi accumulati sull’altra riva atlantica in tutta calma, mentre i cadaveri europei si ammonticchiavano davanti al Volga, non evitò la sanguinosa farsa del bagnasciuga.
Godevano del roseo futuro i patrioti, i nazionali, i popolari italiani.
Ma quale era la canzonetta, fascista ma non tanto scema? Ricordava che Colombo era italiano e diceva nel ritornello: “Colombo, Colombo, Colombo, chi te l’ha fatto fa’?”.
Secondo una moda già invalsa, temo forte che Stalin dovrà far scoprire dagli storici di Mosca che Colombo era russo.
Note
1) traduzione italiana: Bertram D. Wolfe, I tre artefici della Rivoluzione (Lenin, Trozki, Stalin), La Nuova Italia, Firenze 1953, nella collana Documenti della crisi contemporanea
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