Dalla Francia all’ultimo comune italiano dove si è votato domenica un solo grido: astensione!
Oltre il 50% nell’Esagono, stesse cifre – più o meno – qui da noi. Ciò che resta dei partiti – grumi di clientele senza alcun progetto – si atteggia comunque a “protagonista”, rivendicando d’aver vinto lì anche se ammette di aver perso là... Roba di qualche voto in più.
Mentre il fiume dei consensi si prosciuga litigano – o fingono di farlo – per il controllo di qualche pozza nella secca che si allarga.
Anche i “commentatori” di professione, in pensosi editoriali, ammoniscono che i “partiti si devono ridefinire”, mettendo magari fine ad una polverizzazione imbarazzante che sconsiglia chiunque dal prestare loro fede. O almeno attenzione...
Basterebbe guardare ai nomi (“Italia” declinato in molti modi, ecc.) per capire che di idee non ne girano molte. Di visioni di lungo periodo e grande portata, men che meno.
Nessuno che si chieda quali sono le cause di questo evidente “scollamento tra politica e popolo”.
Proviamo ad indicarne alcune, solari, senza la pretesa di esaurire l’argomento.
In primo luogo, in una sedicente democrazia parlamentare (italiana, francese o britannica, non cambia molto), perché si vota?
Le Costituzioni liberali lo spiegano grosso modo così: per decidere, tra le varie proposte e soluzioni possibili ai problemi di un paese (o più d’uno), quale debba avere il potere di mettersi alla prova, prendendo in mano le leve della Cosa Pubblica.
Il voto di ogni singolo cittadino, insomma, concorre – o dovrebbe farlo – a decidere come si gestisce o cambia il paese in cui si vive.
Nella tradizione politica italiana, per di più, il voto locale (comunali, regionali, una volta c’erano persino le provinciali) è di solito più partecipato. Vuoi perché i candidati sono gente che si può conoscere anche personalmente, sia perché le clientele e i “favori” che si pensa di poter ricevere sono più “concreti” degli ideali e dei programmi, vuoi perché servono meno voti e quindi puoi nutrire l’impressione di contare anche individualmente, ecc.
Ma se neanche alle elezioni comunali si ferma la valanga dell’astensione, allora, dove sta l’origine del franare?
Sembra inevitabile comprendere che questa origine sta nella certezza, ormai maturata, che il nostro singolo voto è inutile. Possiamo votare chi vogliamo – una brava persona, un delinquente, un idealista o un ipercorrotto – ma non cambierà sostanzialmente nulla. Possiamo avere un sindaco che tappa meglio le buche nelle strade o altri dettagli secondari, ma la decisione sulle cose importanti (lavoro, casa, pensioni, scuola, sanità, prezzi, ecc.) non sta nelle nostre mani.
Per un motivo semplice: non sta neanche nella mani di chi eventualmente votiamo.
Per capire dove sia il potere politico bisogna inevitabilmente alzare gli occhi dal nostro cortile e guardare da dove scaturiscono le decisioni macro, quelle davvero rilevanti. E quindi guardare al groviglio di vincoli esterni che regolano la vita di tutti i singoli paesi di questo continente.
Abbiamo una sfera militare in cui sono gli Stati Uniti (e il capitale multinazionale che rappresentano) a imporre strategie e tattiche, mediante la Nato. E abbiamo una sfera economico-giuridica (con qualche tentazione anche militare) che da 30 anni inchioda, con una progressione lenta ma inesorabile, le scelte di politica economica dei singoli paesi.
Sono entrambe sfere in cui il “voto popolare” è stato estromesso fin dall’inizio come variabile rilevante. I sistemi di trattati, una volta firmati, valgono indipendentemente dalla occasionale maggioranza politica che sale al governo di un paese. È il volto meno simpatico della “stabilità”, perché a che servirebbe un trattato (o un sistema di trattati tra loro collegati) se bastasse una diversa coalizione politica per renderlo vano?
Pochi hanno voluto farci caso, ma il problema era stato sollevato anni fa da Yanis Varoufakis all’interno stesso dell’Eurogruppo (il vertice informale e non legale dei ministri dell’economia UE), ricevendo da Wolfgang Schauble la risposta definitiva: “Questo è stato accettato dal governo precedente e non si può assolutamente permettere ad un’elezione di cambiare nulla. Perché abbiamo elezioni ogni giorno, siamo in 19, se ogni volta che c’è una elezione e qualcosa è cambiato, i contratti tra noi non significherebbero nulla”.
Dopo un trentennio in cui tutti i popoli europei hanno sperimentato questo “pilota automatico” (definizione di Mario Draghi, quando era presidente della Bce) non sembra perciò sorprendente che il concetto sia stato ben compreso: “il nostro voto non serve a niente”. E che quindi ci si possa astenere con una certa facilità.
Tanto più in Italia, dove la breve stagione “populista” aveva premiato due insiemi scombiccherati come la Lega “italiana” (anziché “nordica”) di Salvini e i Cinque Stelle. Questi ultimi, soprattutto, hanno rappresentato quell’”antipolitica” che era la reazione di pancia alla constatazione di inutilità dell’elettorato.
Arrivati al governo hanno dovuto verificare che il potere lì non c’era, le “leve della Cosa Pubblica” stavano da un’altra parte. Di tutte le loro promesse o sogni hanno potuto realizzare poco o nulla, e comunque in modo assai meno “radicale” (reddito di cittadinanza, quota 100, ecc.). Finendo ben presto stritolati nella morsa del potere vero che ha portato infine proprio Draghi a Palazzo Chigi.
La valanga dell’astensionismo ha ripreso quindi a scorrere con immane potenza, e promette di diventare più grande alle elezioni politiche del prossimo anno. Dove già ora, con una frammentazione dell’offerta “politica” che minaccia di aumentare, si profila sullo sfondo una riedizione dei “governi di salvezza nazionale” guidati da qualche super-esperto mandatoci dalla Bce, Ocse, Banca d’Italia, ecc.
Il rito principe della “democrazia” è stato svuotato del suo scopo – il potere politico – ed “il popolo” ne ha preso atto, disertando la cerimonia in misura crescente.
Significa allora che partecipare alle elezioni sia inutile?
No, anche se il margine è stretto. Le elezioni francesi ci mostrano – oltre a un astensionismo monstre – anche la credibilità sociale di un’alternativa netta e radicale all’ordine esistente.
Ma per essere individuata anche a livello di massa come netta e radicale occorre che abbia un profilo chiarissimo proprio sui punti che qui tutti tendono a mettere sotto il tappeto. Chi è che comanda in Europa? Come si fa a rompere la gabbia di decisioni prese sulla nostra testa e tutte a favore delle frazioni più forti e internazionalizzate del capitale? Si va in Parlamento (o al governo, in Francia) per dare battaglia, insomma, non per spostare qualche cippo o tagliare qualche nastro.
La France Insoumise, in anni di lavoro, ha costruito questo profilo con sufficiente nettezza, al punto da potersi permettere una “mediazione” pur di mettere insieme una coalizione vincente. Ha dalla sua anche un “plan B”, ben più radicale, per uscire da molte trappole.
È questo quel che è mancato davvero, fin qui, in questo disgraziato paese...
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