Inutile seguire i titoli dei giornali sui risultati dei ballottaggi. L’unico vero vincitore è stato l’astensionismo, visto che alle amministrative del 12 giugno ha votato il 54,73% del corpo elettorale, un italiano su due, mentre ieri si è recato alle urne il 42% degli aventi diritto.
Se i propagandisti della democrazia liberale fossero sinceri dovrebbe essere questa la loro prima preoccupazione. Ma se ne fregano ampiamente. Anche se votasse soltanto il 5% per loro sarebbe uguale. Anzi, meglio, perché il controllo sarebbe ancora più preciso.
Sul piano numerico si potrebbe dire che il centrodestra ha comunque ottenuto una mezza vittoria. Nei capoluoghi di regione ottiene infatti 3 sindaci, il centrosinistra soltanto 1.
Anche nei capoluoghi di provincia il centrodestra ottiene più sindaci – 13 – mentre il centrosinistra 10, le liste civiche 3.
Ma rispetto alle precedenti elezioni l’arretramento è evidente: il centrodestra aveva ottenuto 17 sindaci, il centrosinistra 5, le liste civiche 4.
Vanno stavolta al centrodestra Palermo, Lucca, Belluno, Barletta e conferma i comuni di Genova, L’Aquila, La Spezia, Pistoia, Asti, Rieti, Frosinone, Oristano, Gorizia.
Mentre il centrosinistra può vantare quelli di Catanzaro, Lodi, Alessandria, Parma, Piacenza, Verona, Monza e conferma i comuni di Padova, Taranto e Cuneo.
Ma è indubbiamente Verona il risultato meno atteso (prima del primo turno), perché una città storicamente “nera” vede prevalere Damiano Tommasi, ex calciatore della Roma e della nazionale, chiamato al tempo “il chierichetto” per la sua religiosità e le buone maniere.
Però il centrosinistra che esulta per questa vittoria deve pur sempre registrare che Tommasi ha rifiutato di prendere la tessera del Pd ed ha preteso che nella lista non comparisse nessun simbolo di partito. Insomma, ha vinto lui nonostante le formazioni che lo sostenevano.
Peggio ancora a destra, dove il suicidio è stato clamoroso, con il divorzio violento tra il sindaco uscente, Sboarina, sostenuto da Lega e Fratelli d’Italia, e il suo predecessore Tosi, passato nelle fila dei berlusconani.
Un divorzio che ha attraversato non solo i gruppi dirigenti, ma anche l’elettorato, che ha rifiutato l’apparentamento e il “voto utile”.
Ma il giudizio politico generale deve essere necessariamente un altro. La verifica del distacco tra classe politica e popolazione sta diventando clamorosa. Se tre elettori su cinque si disinteressano del voto più “di prossimità” che ci sia, quello comunale, vuol dire che quasi nessuno crede più che si possa incidere sulle politiche o almeno le decisioni amministrative minori.
Il voto comunale è roba che riguarda ormai soprattutto gruppi di interesse, clientele, possibili scambi di favori, oltre a una quota sempre minore di “voto d’opinione”. Ma neanche su questo piano riesce più ad essere attrattivo.
La destra in particolare, con le sue divisioni, è la fotografia della “borghesia nazionale” italica, quella che vive o sopravvive con un business che non va al di là dei confini nazionali o regionali, priva di qualsiasi visione che ecceda i limiti di quel business.
Non a caso sono i giornali del grande capitale sovranazionale – Repubblica, Stampa, Corriere – a gioire per “l’avanzata del centrosinistra”, la “sconfitta del populismo” e banalità similari.
Ma entrambi gli schieramenti, che pure convivono allegramente nel governo Draghi, sanno benissimo che i margini di azione loro concessi sono strettissimi, perché le grandi scelte politiche avvengono da tempo fuori dai luoghi che loro frequentano o possono conquistare.
Come ci capita spesso di dire, il potere politico non abita più a Palazzo Chigi, e tanto meno in Campidoglio o a Palazzo Marino (Roma e Milano, insomma). Un potere reale irraggiungibile dagli elettori, e costitutivamente indifferente all’opinione e agli interessi delle classi popolari.
Ma questa consapevolezza viaggia ormai anche a livello di massa e si traduce nella frase che tutti noi ci sentiamo ripetere quando pure tentiamo di smuovere l’apatia popolare: “tanto non cambia niente”.
È il punto di non ritorno di una crisi di legittimità delle istituzioni che non può essere superata da “discorsi” o “narrazioni” volontaristiche. Solo un conflitto sociale effettivamente radicale – incentrato cioè sui temi vitali della condizione popolare (lavoro, salario sufficiente, casa, sanità, carovita, scuola, pensioni, ecc.) – può restituire “alla gente” la consapevolezza di poter “cambiare le cose”.
E dunque anche fare del rito elettorale, in determinate condizioni, un momento di lotta politica, anziché una stracca verifica dell’efficacia del marketing elettorale.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento