di Gioacchino Toni
Si è visto [su Carmilla] come la carica contestataria dello street style, sempre più globalizzato, sia stata in buona parte assorbita dalle logiche della moda contemporanea dei grandi brand. Continuando a seguire le riflessioni di Nello Barile, Dress Coding. Moda e stili dalla strada al Metaverso (Meltemi 2022), vale la pena soffermarsi sui rapporti che nella contemporaneità intercorrono tra moda, street style, social media e nuove tecnologie.
Se a lungo si è guardato ai media come a “sistemi di vampirizzazione” delle culture giovanili, attorno alla metà degli anni Novanta tale visione molare del sistema mediale ha iniziato a mostrare i suoi limiti ed il dibattito si è tendenzialmente spostato su «un modello dialogico che vede i media e i detentori del “capitale sottoculturale” in un processo di costruzione reciproca delle rispettive identità» (p. 62). Tale cambiamento di prospettiva, sottolinea Barile, non sottovaluta affatto la funzione svolta dai media nel consolidamento di una moda all’interno dell’ambito mainstream.
Se si tiene presente che, rispetto ai legami forti costruiti su uno spiccato senso di appartenenza – che si instaurano nelle comunità e negli ambiti familiari o amicali – i legami deboli – che si creano tra individui fisicamente e socialmente lontani o che vantano contatti rari e asistematici – conferiscono maggior dinamismo al sistema in quanto si prestano a facilitare aperture a sollecitazioni esterne e ad agevolare cambiamenti, non è difficile comprendere l’incidenza di Internet nel processo di trasmissione e consolidamento delle tendenze. La capacità del Web di moltiplicare i legami deboli e veicolare anche i contesti sottoculturali si presta alla propagazione di trend che, indipendentemente da come e perché si sono originati, vengo agevolmente dirottati verso finalità commerciali manistream.
In risposta al diffondersi negli anni Novanta di segnali di rigetto nei confronti dei grandi marchi, questi ultimi hanno iniziato a ricorrere alla figura del cool hunter per «intercettare i contesti esperienziali ad alto contenuto di autenticità» (p. 64). Si tratta di una figura che osserva, seleziona ed amplifica le tendenze a cui ricorrono i brand nella loro opera di saccheggio delle culture alternative da cui ricavano suggestioni creative da trasformare in esperienze e lifestyle mercificati.
Quella del cool hunter è necessariamente una figura liminale che pur operando per le aziende non può integrarsi pienamente in esse appartenendo al contempo a quegli ambienti creativi alternativi in cui vive ed opera. Si tratta in sostanza di una sorta di “infiltrato” abile nel trasformare esperienze ludiche in occasioni di reddito, una figura capace di cogliere «il valore strategico della “strada” nello sviluppo prima culturale e conseguentemente economico» (p. 66) delle scena urbana.
A cavallo del passaggio di millennio, con l’affermarsi dei social, sostiene Barile, l’epoca “fisica” del cool hunter tramonta e l’interesse si sposta sulle banche dati offerte da Internet sempre più dettagliate ed aggiornate circa le tendenze in atto; alcune piattaforme approfittano della decostruzione del sistema moda operata dalla fast fashion per sviluppare mappature e sistemi previsionali automatizzati dei trend. La disarticolazione del sistema stagionale della moda e la centralità assunta del consumatore fniscono per rendere indispensabile il ricorso a nuove tecnologie.
Da qualche anno sono stati implementati sistemi di previsione delle tendenze tramite il machine learning e l’intelligenza artificiale. Questo perché i social media sono sempre più i contenitori dei trending topics del momento. L’osservazione dei social consente pertanto di monitorare la reazione dei pubblici di un dato brand, di osservare le tendenze in ascesa, di studiare le preferenze degli utenti tramite tecniche quali-quantitative come la Sentiment Analysis, o di conoscere in maniera più approfondita le conversazioni tra membri di una online community sui contenuti o i prodotti di un brand con la netnography. […] L’introduzione del machine learning e della IA ha trasformato la concezione stessa di trend analysis e forecasting. Questo perché la disponibilità enorme di dati, reperibili tramite social media e motori di ricerca, consente di addestrare le Reti Neurali Artificiali (RNA) che, partendo dall’apprendimento di serie storiche di dati quali-quantitativi, sono in grado di formulare previsioni sullo sviluppo dei trend nel futuro (pp. 67-69).
Si attivano pertanto strategie basate sull’elaborazione dei dati raccolti, ad esempio, tra il pubblico di qualche influencer, dall’analisi degli hashtag, dai profili individuali, dai commenti rilasciati ecc. L’anello intermedio tra la figura del cool hunter e quella dell’influencer, suggerisce Barile, può essere individuata nei fashion blogger che, con il loro intervento da posizione indipendente, contribuiscono a destrutturare il sistema-moda tradizionale sostituendo l’insieme di competenze in esso sedimentate con uno spontaneismo in linea con un generale processo di orizzontalizzazione – reale o percepito che sia – della comunicazione e della società. Esiste pertanto, sostiene lo studioso, «una linea di continuità che, dall’esautorazione del ruolo dello stilista, iniziata negli anni Sessanta, conduce, attraverso l’epoca del cool hunting, agli influencers e ai sistemi customer-centrici gestiti dall’Intelligenza Artificiale» (p. 71).
L’accelerazione online determinata dalla pandemia ha enormemente rafforzato il ruolo delle piattaforme nella «gestione dell’immaginario visuale e fotografico degli influencer» (p. 71). A differenza delle vecchie figure degli opinion leader, gatekeeper ecc., l’influencer si presenta come «una sorta di prosumer “evoluto”, un produttore/consumatore di contenuti online capace di trasformarsi in vero e proprio medium di se stesso» (p. 71) attento nel rapportarsi ai brand di streetwear a non compromettere la propria credibilità. I contenuti esperienziali confezionati dagli influencer hanno a che fare tanto con «la capacità dei social di “scolpire” le identità online» quanto con «la capacità di “confezionare” le identità trasformate in veri e propri prodotti» (p. 71).
Analogamente a quanto avvenuto nella televisione dei reality e dei talk show a sfondo confessionale, anche la comunicazione della moda opera mediaticamente sulla dimensione quotidiana, questa sembra però, soprattutto grazie alla diffusione della versione virtuale degli influencer, spingersi fino al punto di presentare il digitale stesso come “la nuova moda” a compimento di quella logica del simulacro tratteggiata sin dai primi anni Ottanta da Jean Baudrillard a proposito della trasformazione contemporanea dello star system.
Per definizione, gli influencer virtuali sono persone immaginarie generate dal computer, che simulano caratteristiche e personalità degli esseri umani. Il fenomeno riguarda diverse piattaforme di social media […] dove le virtual influencer giocano sulla sostanziale ambiguità tra essere un personaggio reale che veste in modo stravagante ma plausibile, che frequenta luoghi ordinari del quotidiano, ma che allo stesso tempo produce in chi la osserva un effetto di grande straniamento, tipico della cosiddetta “valle inquietante” (“uncanny valley”), teorizzata dagli studiosi di robotica, ovvero il simultaneo effetto di familiarità e di spaesamento suggerito da queste figure. Come già accade nel caso degli influencer umani, le nuove celebrità sintetiche e pressoché riproducibili illimitatamente, vanno a caccia di unicità, di autenticità, di risorse che possono garantire loro un notevole seguito di follower ma anche un loro sostanziale attaccamento (p. 75).
Se da un lato la loro natura artificiale rappresenta un freno al processo di identificazione del pubblico, dall’altro permettono una costruzione identitaria modulare dell’influencer sintetico in funzione di target specifici analizzati puntualmente anche dal punto di vista emozionale: l’influencer artificiale può così svolgere proficuamente la sua funzione a partire dalle personalità dei follower.
Viviamo in un regime customer-centrico, che pone il consumatore al centro del nuovo ecosistema digitale, per due motivi principali: perché esso produce dati che sono sempre più il vero prodotto della nuova economia dell’attenzione; perché grazie a questi dati è possibile conoscere, prevedere e coinvolgere sempre più le scelte del consumatore. L’utilizzo dell’intelligenza artificiale nella moda espanderà enormemente il processo di centralizzazione e customizzazione dell’offerta, tanto da coinvolgere anche la parte più ideativa e creativa, che storicamente spettava allo stilista. La centralità del consumatore, già paventata nella retorica comunicativa dei marchi anni Novanta, è oggi implementata dal nuovo ecosistema digitale. Per capire meglio tale processo occorre fare un passo indietro, alle origini della mass customization (p.137).
La comunicazione digitale ha stravolto tanto le tradizionali procedure di ideazione, progettazione e confezionamento dei capi di abbigliamento quanto quelle distributive e di reperimento da parte dei consumatori. La centralità di questi ultimi nelle strategie aziendali contemporanee tende a indirizzare verso una “produzione industriale su misura” basata su una «fabbricazione tramite economie di scala di componenti basilari che possono essere riassemblate in modalità differenti per offrire prodotti relativamente diversificati» (p. 140). Ecco allora perché la conoscenza del sistema cognitivo del consumatore diviene centrale: è attorno a questo che si dispiega una strategia di differenziazione volta a soddisfarlo.
Stringendo alleanze con i gradi detentori di dati del Web, le grandi piattaforme on-line dell’abbigliamento stanno sviluppando sistemi di machine learning che operano incrociando quanto disponibile nelle banche dati che raccolgono pareri creativi di operatori del settore e dati offerti dai colossi del Web per proporre configurazioni sempre più individualizzate. «Il sistema si basa su un elevato livello di customizzazione in cui si richiede all’utente di scegliere il proprio mood (triste, allegro, eccitato ecc.), il proprio stile (gotico, rockabilly ecc.) e di tracciare un disegno intorno alla figura umana raffigurata al centro del video, da cui verrà ricavato l’outfit finale proposto dalla piattaforma» (p. 144).
Se il futuro della moda sembrerebbe indirizzarsi verso la sostituzione dello stilista con il consumatore stesso, occorre però interrogarsi non solo a proposito di quale reale grado di libertà disponga quest’ultimo ma anche di quanto sia ulteriormente reso operativo all’interno di una catena produttiva che si estende oltre i terminali dell’ideazione e del consumo del capo acquistato contemplando anche gli aspetti più intimi dell’emotività e della personalità degli individui. Tutto ciò conduce alla creazione di reti che, integrando canali diversi, coniugando esperienza on-line ed esperienza off-line, strutturano un ambiente che circonda l’utente-generatore di dati capace di relazionarsi con quanto si conosce del cliente con finalità predittive.
È in tale contesto che ha preso piede l’idea di Metaverso, concetto formulato dalla letteratura Cyberpunk negli anni Novanta, visto ora come «occasione di rilancio di piattaforme in crisi; è il collettore di una serie di servizi innovativi e a pagamento come gli NFT [NFT – Non-Fungible Token: modalità di identificazione in modo univoco e certo di un prodotto digitale creato su Internet] e le nuove strategie di gamification; è il punto di raccordo tra mondo fisico e virtuale che implicherà ulteriori problemi di protezione dei dati personali dei suoi utenti» (p. 158).
Negli ultimi anni l’interesse dei brand di moda e delle piattaforme di vendita online nei confronti della virtualità, del gaming, degli NFT e del Metaverso, è cresciuto esponenzialmente. Dalla retorica sulla Realtà virtuale degli anni Novanta e inizio Duemila (come nel caso di Second Life), passando per le applicazioni della Realtà Aumentata come nuova frontiera della Quarta Rivoluzione Industriale, giungiamo oggi al Metaverso che rappresenta un punto di sintesi tra le diverse caratteristiche della Realtà Virtuale e della Realtà Aumentata […]. Il termine non è affatto nuovo ma deriva ovviamente dal Cyberpunk, in particolare dal testo di Neal Stephenson, Snowcrash (1992). Nel testo è suggerito un avvicinamento tra mondo reale e mondo virtuale ma tra i due prevale ovviamente il secondo. […] Il nuovo Metaverso rappresenta un punto di convergenza tra reale e virtuale su cui le aziende puntano per moltiplicare i propri servizi e i propri utili. […] Al di là delle promesse mirabolanti e pubblicitarie del Metaverso proposto come nuova esperienza parallela ed extramondana, in accordo con la sua eredità psichedelica degli anni Novanta, il valore di questa innovazione starà nella sua capacità di accordarsi con il mondo della vita dei consumatori, di integrarsi con la loro realtà quotidiana, di aumentarla in maniera non eccessivamente invasiva (pp. 160-166).
A fronte di un tale scenario resta da chiedersi quanto siano ancora distinguibili una realtà quotidiana off-line ed una on-line strutturata dalle piattaforme e quali margini di autonomia, autenticità ed identità restino agli individui sempre più mercificati e costretti a mettersi in vetrina producendosi, vendendosi e, per certi versi, anche comprandosi, prima che faccia capolino l’obsolescenza biologica-merciologica.
Insomma, dal produci-consuma-crepa siamo passati al produci(ti)-consuma(ti)-crepa. Un bel passo in avanti, non c’è che dire.
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