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15/06/2022

La BCE all’assalto dei salari: parte prima

La Banca Centrale Europea (BCE) ha annunciato, giovedì 9 giugno, una storica virata nella politica monetaria dell’area euro. Due sono i profili di questa manovra monetaria che invertono la rotta avviata con la crisi dei debiti pubblici degli anni Dieci: l’aumento dei tassi di interesse e la fine degli acquisti diretti di titoli pubblici da parte della banca centrale.

Dopo undici anni di ribassi continui, la BCE ha annunciato che a luglio tornerà ad aumentare i tassi di interesse. Tra i compiti fondamentali di una banca centrale c’è la definizione del cosiddetto costo del denaro, ossia il tasso di interesse che le banche commerciali pagano alle banche centrali per prendere a prestito il denaro di cui hanno bisogno per il loro regolare funzionamento. La BCE, fissando i tassi di interesse pagati dalle banche commerciali per le loro operazioni di rifinanziamento, riesce ad orientare i tassi di interesse che le banche commerciali faranno poi pagare allo Stato, ai cittadini e alle imprese per l’erogazione di prestiti. In prospettiva, la BCE ha anche annunciato che quello di luglio sarà il primo di una serie di aumenti dei tassi di interesse che, progressivamente, porterà il costo del denaro ben al di sopra degli attuali tassi negativi, e dunque fuori dalla zona di eccezione in cui si è mossa la politica monetaria emergenziale dalla crisi dei debiti pubblici alla pandemia.

Secondo l’ideologia della BCE, la politica monetaria ha il compito fondamentale di garantire la stabilità dei prezzi e mantenere l’inflazione attorno al 2%. L’inflazione è solitamente spiegata dalle banche centrali come determinata da un eccesso di domanda che surriscalda l’economia e che dunque crea ondate inflazionistiche. L’annunciato rialzo dei tassi di interesse è stato giustificato dalla BCE, non senza acrobazie, con il sensibile aumento dei prezzi che si è registrato negli ultimi mesi. Tuttavia, l’inflazione galoppante dei mesi scorsi deriva palesemente dalla spinta dei prezzi dell’energia, in gergo economico dal lato dell’offerta, e non da eccessivi surriscaldamenti dell’economia guidati dalla domanda. Dunque, non vi sarebbe alcuna ragione, pur all’interno del quadro teorico stesso della BCE, per aumentare i tassi di interesse e di conseguenza comprimere la domanda di famiglie e imprese. Ci è arrivato persino il principale consigliere economico di Draghi, il bocconiano Giavazzi, forse incoraggiato in questo slancio di perspicacia dagli effetti nefasti che l’aumento dei tassi avrebbe oggi sul suo Governo e di cui parleremo nell’ultima parte di questo contributo: i nostri amici bocconiani ci hanno sempre raccontato che spread e tassi dipendono dalla fiducia e da altre amenità, mentre oggi che la frusta monetaria si abbatte sul loro loden ci spiegano che “noi non abbiamo una inflazione da domanda come negli Usa ma abbiamo una inflazione legata al prezzo del gas” e dunque “alzare i tassi è uno strumento sbagliato”. Comunque, non ci si lasci ingannare da questa conversione. Infatti, è sempre Giavazzi a chiarire: l’aumento dei tassi è sbagliato perché noi già stiamo facendo i nostri “compiti a casa” con il PNRR e le sue 528 condizionalità, e, in ogni caso, sempre citando Giavazzi, il nostro peccato originale è sempre e solo l’elevato rapporto debito/PIL.

Dall’altro lato della frusta, a Francoforte, tirano dritto e sono costretti ad argomentare che, sebbene sia evidente che l’inflazione attuale sia principalmente da offerta, le aspettative di lungo periodo (altre creature mitologiche dell’economia dominante) ingloberebbero già un’inflazione da domanda, cioè un eccesso di spesa rispetto alla produzione che si potrà realizzare. Già, avete capito bene: alla BCE stanno dicendo che l’economia è troppo frizzante e cresce a ritmi troppo elevati rispetto alle capacità produttive, e dunque c’è bisogno di raffreddare gli animi, cioè aumentare il tasso di interesse per frenare la domanda di beni e servizi. Nelle parole della Presidente della BCE: “Stiamo chiaramente vedendo che l’aumento dell’inflazione oltre il 2% interessa il 75% dei beni considerati ai fini del calcolo dell’inflazione, una percentuale senza precedenti. Ciò vale per beni industriali non energetici, vale per i servizi e si spiega solo in parte – ma non solo – come un riflesso dell’aumento dei costi dell’energia.”

Infine, e qui il delirio ideologico della BCE ci porta più vicini alla sostanza del problema, la Lagarde punta il dito contro un presunto aumento dei salari: “siamo molto attenti ai salari, alla contrattazione salariale ... vediamo aumenti salariali che hanno accelerato, in particolare da marzo ... e prendiamo atto che la Germania, per esempio, aumenterà il salario minimo a partire dal primo ottobre”. Oltre la cortina di fumo della teoria economica dominante, si intravede ora il reale significato dell’aumento dei tassi di interesse annunciato dalla BCE. Con i prezzi energetici si è avviato un ciclo di aumento generalizzato dei prezzi che avrà, come effetto principale, una redistribuzione del reddito dai salari ai profitti. All’interno di questo processo, l’aumento del tasso di interesse serve a preservare i profitti del settore privato (finanziario e non finanziario), lasciando indietro solo i salari che sono schiacciati dalla debolezza contrattuale dei lavoratori, dalla precarietà diffusa e dall’elevato livello di disoccupazione, che scoraggia le rivendicazioni salariali.

Per quanto riguarda il settore bancario e finanziario, sono proprio gli aumenti dei tassi di interesse messi in moto dalla manovra della BCE che permettono alle rendite finanziarie di crescere parallelamente ai prezzi, scaricando così sui debitori i maggiori costi di prestiti e mutui. Per quanto riguarda il settore delle imprese non finanziarie e non bancarie, utile è richiamare l’attenzione su quello che tra gli economisti viene comunemente chiamato Paradosso di Gibson o Price Puzzle. Secondo questo fatto empirico, che impropriamente è definito un paradosso, una politica monetaria restrittiva della banca centrale basata sull’aumento dei tassi porta ad un aumento dei prezzi. In sostanza le imprese, vedendo aumentati i costi di produzione (si pensi ad esempio ad imprese indebitate con il settore bancario che dovranno pagare un tasso d’interesse maggiore e sopportare un più elevato costo del debito), scaricano questi maggiori costi sui prezzi, aumentandoli. Ovviamente, si tratta di un paradosso solo per la teoria economica dominante, secondo la quale in periodi di forte inflazione la banca centrale, aumentando i tassi di interesse, rallenterebbe il surriscaldamento dell’economia e di conseguenza l’inflazione. Tuttavia, proprio un paradosso non sembra essere e diversi studiosi hanno iniziato a inquadrare tale effetto come una normale conseguenza della politica monetaria, definendolo appunto il ‘canale di costo della politica monetaria’. Ne consegue anche che l’ulteriore aumento dei prezzi che si verificherà proprio a causa della stretta monetaria della BCE porterà ad una ulteriore diminuzione del potere d’acquisto dei lavoratori. In sostanza, oltre al danno anche la beffa: già gli aumenti dei prezzi dell’energia gravano in larga misura sulle spalle della classe lavoratrice; l’aumento dei tassi di interesse, guidato dalle politiche scellerate della BCE, non fa altro che aggravare la situazione per la maggioranza della popolazione, in quanto da un lato aumenta ulteriormente i prezzi dei beni – alla faccia delle misure di contenimento dell’inflazione – e dall’altro costringe a pagare interessi più elevati per prestiti e mutui.

Con l’aumento dei tassi, dunque, la BCE schiera l’autorità monetaria in linea con l’orientamento inflattivo dell’economia, a tutela delle rendite finanziarie e i profitti delle imprese e a discapito dei salari. Dietro al feticcio della stabilità dei prezzi si nasconde il ruolo politico svolto dalla banca centrale nella lotta di classe per la divisione del prodotto, un ruolo che oggi è svolto in Europa con una forza mai vista prima in virtù dell’architettura istituzionale dell’Unione. Come abbiamo visto, le istituzioni europee, invece di lavorare seriamente al raggiungimento di un accordo di pace in Ucraina, il quale sì porterebbe ad un riassorbimento dell’inflazione, hanno scelto la via più facile: non scontentare i padroni e far pagare le conseguenze della guerra alla classe lavoratrice. Evidentemente, la guerra non è uguale per tutti!

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