Dritti contro l’iceberg senza spostarsi di un centimetro. La consueta audizione del presidente della Federal Reserve davanti al Congresso degli Stati Uniti è stata l’attesa occasione per conoscere – in linguaggio comune – quel che ha in testa il gruppo dirigente della banca centrale davanti a un’inflazione galoppante (+8,6% annuo, secondo l’ultima rilevazione).
Come è ormai noto, le principali banche centrali dell’Occidente neoliberista stanno reagendo all’aumento generalizzato dei prezzi aumentando i tassi di interesse. Questa è del resto la “ricetta” prevista dalla teoria monetarista che domina da quasi un cinquantennio.
Il problema che tutti gli economisti sottolineano, però, è che questa volta l’inflazione non dipende da un “surriscaldamento dell’economia”, ovvero da una dinamica troppo sostenuta della catena produzione-occupazione-salari-prezzi, ma pressoché unicamente dall’aumento del costo delle materie prime energetiche e alimentari per ragioni completamente diverse: “ripresa” dopo due anni di pandemia cui è seguita immediatamente la guerra in Ucraina.
Aumentare i tassi ha sempre come conseguenza quella di “frenare” l’economia, perché sale il costo del denaro per le imprese e dunque queste fanno un minor ricorso ai prestiti, rimandano gli investimenti e le assunzioni, resistono di più alle richieste di aumenti salariali, ecc.
Ma se la causa sono i prezzi di petrolio, gas, grano, mais, ecc., allora l’aumento dei tassi di interesse non serve a nulla. Anzi, rischia di innescare una recessione (diminuzione del Pil) senza intaccare minimamente la corsa dei prezzi.
Jerome Powell, presidente della Fed, ha ammesso che questo rischio c’è, ma ha anche spiegato che in pratica se ne frega.
La caduta del Pil «è certamente una possibilità», ha detto, anche perché è diventato «più difficile raggiungere il 2% di inflazione e nello stesso tempo mantenere un mercato del lavoro forte». Dunque controllare la “frenata” è ancora «più complicato», anche perché «ci sono fattori al dì fuori del nostro controllo», come la guerra in Ucraina, le strozzature nella produzione per i lockdown in Cina e – ma questo non lo ha menzionato – gli effetti retroattivi delle sanzioni alla Russia, che interrompono parecchie filiere produttive e linee di rifornimento proprio nel settore delle materie prime o dei semilavorati.
I congressisti, che pensano ai loro elettori che scrutano la tempesta all’orizzonte, hanno ovviamente posto domande sui rischi di recessione. E il numero uno della Fed ha risposto che «le probabilità non sono particolarmente elevate», ma comunque «c’è anche un altro pericolo da considerare, quello di non assicurare la stabilità dei prezzi. In questo ambito non possiamo fallire».
Bontà sua, ha assicurato che «l’economia americana è molto forte e ben posizionata per gestire una politica monetaria restrittiva» (ossia un prolungato aumento dei tassi di interesse). Secondo lui, infatti, l’inflazione Usa è più determinata dalla crescita della domanda, mentre quella europea dipende quasi esclusivamente dalla crescita dei prezzi dell’energia.
La differenza è reale, perché gli Usa – ricorrendo allo shale oil con la devastante tecnica del fracking – hanno raggiunto di nuovo l’autonomia energetica. Anzi, sono tornati ad essere un esportatore netto (ricordiamo l’“offerta” di gas gnl all’Unione Europea per sostituire quello russo, ovviamente ad un prezzo superiore del 50%…).
L’Europa, al contrario, che non ha proprie riserve naturali, è particolarmente colpita proprio dalle sanzioni a Mosca che, su spinta statunitense, ha deciso senza calcolare esattamente quel che stava combinando a proprio danno.
Ma la Bce, pur dovendo affrontare un fenomeno prezzi dalla composizione parzialmente diversa, non ha a disposizione una teoria monetaria differente. Quindi ha cominciato a seguire la stessa strada della Fed con il rischio di produrre esattamente il “mostro” che vorrebbe esorcizzare: la stagflazione, ovvero la compresenza di recessione produttiva e forte inflazione (a salari fermi, naturalmente, mica vorrete deprimere i profitti...).
La scorsa settimana la Fed ha deciso un aumento dei tassi dello 0,75%, il massimo dal 1984. E si propone di fare altrettanto a fine luglio, per arrivare probabilmente ad avere un tasso base del 3-3.5% entro fine anno.
Ma non c’è solo un effetto negativo sull’economia reale. Gli aumenti dei tassi di interesse comportano un aumento anche dei rendimenti dei titoli di stato. E dunque i treasury Usa promettono di diventare molto più remunerativi nei prossimi mesi. Questo significa “attirare capitali” dal resto del mondo, come avvenne ai tempi di Donald Reagan, con Paul Volcker come presidente della Fed.
E naturalmente più capitali verso gli Usa significa meno capitali a disposizione del resto del mondo. Almeno nelle intenzioni...
Del resto, da un sistema che ha fatto dell’economia “di carta” e di Wall Street il proprio baricentro assoluto, che altro potete attendervi?
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