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24/06/2022

Confindustria va alla guerra

Sono ormai quattro mesi che la guerra infuria alla soglia dell’Europa, con un portato drammatico di morte e devastazione che non accenna a diminuire. Di fronte a questo orrore, la reazione più comune è di sgomento e l’opinione pubblica del nostro Paese, in maniera maggioritaria, non si è fatta avviluppare dalle sirene belliciste che risuonano a reti unificate, su tutti i giornali e in Parlamento dalla mattina alla sera, mantenendo una ferma contrarietà a misure quali l’invio di ulteriori armi all’Ucraina, che non possono che generare altra guerra e devastazione.

Come abbiamo avuto modo di scrivere già nelle prime settimane del conflitto, le conseguenze economiche della guerra in questa parte di mondo non sono simmetriche e non colpiscono tutti allo stesso modo: a fronte di una stragrande maggioranza della popolazione che soffre per l’inflazione galoppante e maledice Putin e la Nato ogni volta che deve mettere benzina o fare la spesa, le imprese del settore energetico e quelle coinvolte nella produzione di armi macinano miliardi su miliardi di profitti di guerra.

Si sa che la guerra, ogni guerra, per qualcuno costituisce sempre un buon affare. In questi primi mesi del conflitto in Ucraina è noto come Leonardo, azienda ex Finmeccanica attiva nel settore difesa (che, fra l’altro, ha affidato il vertice di una propria fondazione a quel noto “cercatore di pace” che risponde al nome di Marco Minniti), ha conosciuto un aumento di circa il 50% del proprio valore di borsa.

Ma stiamo solo scalfendo la punta dell’iceberg. Il Gruppo Gedi, presieduto da John Elkann, è uno dei più importanti gruppi editoriali italiani e possiede, nello specifico, 12 quotidiani, 8 periodici, 4 emittenti radiofoniche e 23 testate digitali (solo per citarne alcuni: la Repubblica, la Stampa, il Secolo XIX, Radio DeeJay, Radio Capital). Ebbene, Gedi è riconducibile alla Exor – di cui Elkann è l’amministratore delegato – che controlla anche Cnh e dunque la Iveco Defence Vehicle e il Consorzio Iveco Oto Melara, azienda di punta dell’industria nazionale degli armamenti terrestri. Risulta dunque piuttosto semplice interpretare l’aggressivo interventismo di molti giornali italiani, considerati gli interessi materiali in gioco.

Apparentemente, però, per una volta sembra che anche un pezzo di padronato soffra, insieme a milioni di lavoratori, per l’aumento incontrollato dei prezzi del gas e dell’energia, oltre che per la chiusura del commercio internazionale con la Russia: settori come la siderurgia, cementifici, vetrerie, produttori di ceramica e così via sono fortemente energivori e stanno sperimentando sulla propria pelle un importante aumento dei costi di produzione.

Questo fattore rappresenta un problema non banale per chi, come il Governo italiano, spinge per il proseguimento della guerra: come costruire consenso per la follia bellicista, quando non solo la maggioranza della popolazione ma anche pezzi non indifferenti della classe padronale vedono come il fumo negli occhi il prosieguo delle ostilità? Non che il Governo sia particolarmente interessato a ciò che pensa il lavoratore o il pensionato, se non per fini elettoralistici, ma ci sono segmenti del blocco sociale di riferimento dell’esecutivo Draghi che vanno tenuti a bada.

Ecco quindi che entra in gioco Carlo Bonomi, il presidente di Confindustria, appena rientrato da una missione ‘diplomatica’ in Ucraina in cui ha incontrato il Presidente Zelensky e il ministro degli Esteri Kuleba. Mentre si continua a morire, mentre cadono le bombe, mentre il conflitto rischia di espandersi ulteriormente, il capo degli industriali italiani cerca di mettere le mani su una fetta della ricostruzione dell’Ucraina, firmando un accordo con il quale, ci spiega Bonomi, “mettiamo a disposizione le nostre filiere per la ricostruzione del paese e abbiamo convenuto anche l’apertura di un ufficio, con una delegazione permanente di Confindustria presso l’ambasciata italiana proprio per accompagnare le imprese italiane in questo percorso di avvicinamento all’Ucraina e alla sua ricostruzione”.

Non siamo naturalmente di fronte a un’iniziativa estemporanea del Presidente di Confindustria. Il terreno per quell’incontro l’ha preparato il primo ministro Draghi qualche giorno prima. Ecco che la scampagnata in interrail con Macron e Scholz assume tutt'altro significato rispetto a quello riportato dai media nostrani: il nostro premier non è andato nel teatro di guerra a perorare la causa dei negoziati di pace, ma a preparare il campo per la spartizione della torta della ricostruzione.

D’altronde, è la stessa Confindustria a sottolineare in un comunicato che (grassetto nell’originale): “Confindustria, d’intesa con il governo italiano e in piena collaborazione con l’Ambasciata d’Italia in Ucraina, è la prima Associazione imprenditoriale europea in missione a Kyiv a testimonianza della volontà, da parte di migliaia di imprese italiane, di impegnarsi per sostenere il popolo ucraino”.

La torta da spartirsi sarà enorme – si parla infatti di più di un trilione (mille miliardi) di euro, secondo le stime di Werner Hoyer, capo della Banca Europea degli Investimenti – e Zelensky non ha esitato nel brandire a più riprese questo argomento come esca per ottenere ancora armi e un ulteriore supporto bellico e finanziario da parte dei Paesi occidentali.

Ecco, quindi, che il cerchio si chiude: la ricompensa che il padronato italiano vede all’orizzonte più che ripaga per le difficoltà da sopportare nel breve periodo. Il blocco sociale che va da Confindustria e passa per la Lega e il Partito Democratico, fino a Fratelli d’Italia, si ricompatta e può tornare a remare come un sol uomo per avere più guerra e più miseria. Ancora una volta, il prezzo da pagare sarà salatissimo: per chi vive nel teatro di guerra, sarà fatto di ancora più morte e distruzione; per chi ha la fortuna di vivere in un Paese in pace e riceve una pensiona o lavora – o magari un lavoro non ce l’ha – sarà il carovita che erode il potere d’acquisto di salari che ristagnano da decenni e di pensioni da fame.

D’altro canto, non c’è nulla di sorprendente. Avevamo già evidenziato che l’UE nei suoi interventi concreti, come il RePower EU, ha di fatto rinunciato a lavorare per la pace, implementando un’economia di guerra che potrebbe per certi versi fare gli interessi del capitale europeo, ma di certo non quelli di lavoratrici e lavoratori.

Oltre al danno, anche la beffa. Parlando della ricostruzione che verrà e dei fondi europei che saranno destinati allo scopo, la Presidentessa della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha già messo in chiaro che la ricostruzione dovrà combinare “investimenti e, immediatamente, riforme”. Tradotto in parole semplici, i fondi per l’Ucraina saranno verosimilmente anch’essi soggetti alla famigerata condizionalità di stampo europeo. D’altronde, sarebbe stato difficile immaginare una maniera più paradigmatica per iniziare il pur difficile processo di integrazione nell’Unione Europea dell’Ucraina. Ancora una volta, lacrime e sangue. In questo caso, purtroppo, letteralmente.

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