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17/06/2022

La BCE si muove, ma non è chiaro cosa farà

La Bce è dovuta correre ai ripari in sole 48 ore, dopo aver disastrosamente annunciato la fine del quantitative easing e l’inizio di una fase di rialzo dei tassi di interesse, senza minimamente curarsi dei differenti spread.

Questa mossa – sponsorizzata dai “falchi” dell’Europa del Nord per punire fra l’altro l’Italia, rea di fare concorrenza sleale con salari bassissimi pur essendo un paese core della Ue (non la Bulgaria, insomma) – aveva concorso largamente al crollo del borse continentali e soprattutto al crollo dei prezzi dei titoli di stato dei paesi Pigs.

Il che, come sanno gli addetti ai lavori, si traduce automaticamente in un “aumento dei rendimenti”, ossia delle cifre che gli stati devono pagare per gli interessi sul debito.

Ma data la struttura incompleta dell’Unione Europea – non c’è una politica fiscale comune, ma solo una politica di bilancio “controllata da Bruxelles”, oltre ad economie parecchio differenti tra loro – questo aumento è profondamente differenziato, con l’effetto paradossale per cui gli stati messi peggio sono anche quelli che devono sborsare di più, esposti come sono alla speculazione.

È questa quella che i media specializzati chiamano “frammentazione degli spread” e che, alla faccia della protervia dei “falchi”, rischia di diventare una delle cause di erosione della “tenuta unitaria” della UE. Se alcuni paesi – specie i più grandi, come appunto l’Italia – si ritrovano a rischio default sul debito pubblico (che non significa “impossibilità di pagare”, ma impossibilità di rifinanziare il debito in scadenza, rinnovandolo), neanche quelli presuntamente “virtuosi” potrebbero sentirsi al sicuro.

Da questa consavolezza è derivata la riunione straordinaria, ieri mattina e in teleconferenza, del Direttivo della Bce, che ha preso in considerazione i diversi strumenti di intervento possibile sul mercato per ridurre la “frammentazione degli spread al di sopra dei fondamentali”.

Quest’ultima è una formula di compromesso, naturalmente. Significa che i paesi con più debito pubblico dovranno comunque essere “puniti” sborsando di più per il servizio del debito, ma non illimitatamente – come tende a fare la normale speculazione dei mercati – bensì entro i limiti considerati “appropriati”, in relazione appunto ai “fondamentali” delle singole economie.

Altrettanto naturalmente, cosa sia “appropriato” dipende dall’atteggiamento dei “giudici”. Per i falchi della Bce questo limite allo spread è molto ampio, per le “colombe” è molto più ridotto.

Christine Lagarde comunque, dopo aver avallato la scelta disastrosa dello scorso fine settimana, ha avuto mano semi-libera nell’uso di uno strumento già a disposizione. Si tratta del PEPP, flessibile abbastanza per “preservare il funzionamento dei meccanismi di trasmissione della politica monetaria”.

In pratica si tratta di un fondo utilizzato a piene mani durante la pandemia, che ha comportato acquisti di titoli di stato da parte della Bce, un po’ di tutti i paesi dell’eurozona. Al momento, ha raggiunto un portafoglio titoli da 1.700 miliardi circa, con una quota di titoli italiani attorno ai 280 miliardi, contro i 412 miliardi di titoli tedeschi (notare la differenza a favore dei ben più apprezzati titoli di Berlino, che si è tradotta per anni nella possibilità di rifinanziare il proprio debito a gratis, anzi, guadagnandoci qualcosa in virtù dei tassi di interesse negativi).

In teoria, ogni titolo decennale tedesco in scadenza – con restituzione quindi del capitale – potrebbe/dovrebbe essere reinvestito in Btp italiani, Bonos spagnoli et similia. Questo farebbe salire il prezzo di questi titoli di stato e quindi ridurre il “rendimento”, ovvero la cifra da sborsare per gli stati interessati.

Fuori dai tecnicismi, si tratta di un meccanismo che conserva alcuni meccanismi del quantitative easing, ma soltanto a favore degli stati con maggiore debito pubblico e spread tendenzialmente più alto.

Ma non senza condizioni...

Infatti la Bce sta considerando anche l’uso degli Omt (operazioni monetarie definitive), altro strumento inventato da Mario Draghi quasi 10 anni fa, ma mai utilizzato per nessun paese. Perché prevedeva come condizione la richiesta di aiuto al MES da parte dello Stato colpito dalla speculazione.

In pratica, uno stato poteva essere “protetto” dai mercati solo se si metteva completamente nelle mani del Mes (diretto da un “falco” tedesco, peraltro). Il che, nelle condizioni attuali (inflazione da offerta e causa guerra, non certo per politiche di bilancio di “manica larga”) risulta effettivamente fuori bersaglio.

Sarà un caso – non lo è – ma proprio nelle ore in cui la Bce si riuniva e il trio Macron-Draghi-Scholz preparava i bagagli per la visita a Kiev, Mosca riduceva le forniture di gas a Berlino (-40%) e Roma (-15%). Il prezzo del gas internazionale è immediatamente schizzato verso l’alto, a dimostrazione del fatto che questa inflazione non è affrontabile con la manovra sui tassi di interesse (c’è arrivato persino Giavazzi...).

Di fatto, però, pur indicando la necessità di trovare uno “strumento anti-frammentazione degli spread”, la Bce non lo ha ancora trovato, o per lo meno non lo ha indicato esplicitamente. Si è limitata ad incaricare i propri “uffici tecnici” di studiarne alcuni, con la dovuta calma. Il che comporta il forte rischio che “i mercati” provino a vedere se la Banca centrale bluffa oppure no.

Per il momento verrà usato il PEPP, sperando che basti (non è detto che la tempistica dei titoli migliori in scadenza coincida con la necessità di acquistare quelli più “junk”).

I mercati per un giorno hanno apprezzato, nei prossimi si vedrà...

E intanto la Federal Reserve spara un rialzo dei tassi dello 0,75%, il più alto da un quarto di secolo. A dimostrazione del fatto che affrontare problemi nuovi con l’ideologia monetarista anni ’80 è fare come gli sciamani che impongono sacrifici umani contro la siccità...

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