Diciamo la verità. La scissione dei Cinque Stelle, con la fuoriuscita di Di Maio e altri 60 parlamentari, non ci ha sorpreso minimamente. I tempi della decisione, ovviamente, non potevamo saperli prima, ma la dinamica politica che ha prodotto la triturazione del “populismo grillino” era visibile da anni.
Bastava guardare senza il paraocchi dell’ideologia e inquadrare i tormenti della “classe politica” italiana all’interno dei processi europei, invece che come un fatto “tutto nazionale”.
Le elezioni politiche del marzo 2018 avevano fatto registrare il trionfo del “populismo”, quel confuso insieme di pulsioni sociali prive di progetto che trovava momentanea rappresentanza nei Cinque Stelle e nella Lega “nazionale” di Salvini.
Un trionfo che l’establishment “centrista e europeista” aveva provato immediatamente ad azzerare – non riuscendoci – con l’incarico esplorativo dato a Carlo Cottarelli. L’inguardabile “contratto” giallo-verde, che formalmente garantiva una maggioranza nel rispetto della democrazia parlamentare, rinviava di un anno il redde rationem.
L’estate del Papeete erodeva il pilastro leghista e consegnava così i grillini al “lavorìo” del pensiero unico, tra “condizionalità” indiscutibili e goffi tentativi di presentare la propria azioni in continuità con le premesse.
Frollati ben bene dalla compagnia del Pd, si arrivava poi al commissariamento della politica italiana, consegnando le chiavi di Palazzo Chigi all’ex presidente della Bce.
Nemmeno per un attimo è stato possibile interpretare il governo Draghi come una espressione autonoma della sbrindellata “borghesia italiana”. Ovvero come un “prodotto nazionale”, frutto di un equilibrio trovato anche in Parlamento.
A quanti non l’hanno ancora capito, ha provveduto lo stesso Mario Draghi a chiarirlo ieri, quando ha voluto spiegare perché proprio non poteva accettare di subordinare le sue scelte sull’invio delle armi in Ucraina al voto dell’aula, né ora né in futuro: «Impossibile: vorrebbe dire che il governo è commissariato dal Parlamento».
Diciamolo seriamente: questo è la logica da amministratore delegato di un’azienda (è stato in effetti anche vicepresidente di Goldman Sachs...). Ma in una democrazia parlamentare è un’affermazione golpista.
Se il baricentro del potere politico si sposta dal Parlamento (sintesi e rappresentanza della volontà popolare) all’Esecutivo, allora è quest’ultimo a commissariare il Parlamento. Ossia l’intera vita politica di un paese.
Perché la tripartizione dei poteri in un ordinamento liberale ha proprio questo tratto immodificabile: il governo è subordinato al Parlamento e agisce solo avendone la fiducia su ogni atto rilevante.
E non si conosce, a memoria umana, nessun atto più rilevante come quello della partecipazione o meno ad una guerra.
Guerra che non era ancora all’orizzonte quando Draghi – il 2 febbraio dell’anno scorso – ha ricevuto l’incarico di formare un governo. Ma già eravamo comunque in una “situazione di eccezione” – addirittura formalizzata con lo stato di emergenza – stretti tra la necessità di affrontare una pandemia che aveva fatto oltre 100mila morti e quella di affidare il Recovery Fund (ora concretizzato in PNRR) a mani più “consapevoli”.
Sulla pandemia, come sappiamo, si è lasciato correre il virus e “a chi tocca tocca, pazienza“.
Già allora era invece esplicito il ruolo che il governo Draghi assumeva rispetto alla “classe politica” italiana: “Il compito di Draghi è dunque almeno duplice: realizzare il ‘piano di riforme’ e creare un primo credibile nucleo della ‘classe politica’ che dovrà, dal 2023 in poi, gestire il nuovo ordine in questo Paese”.
Per fare questo “nucleo” – obbligatoriamente “centrista, europeista e atlantista”, visto il tipo di vincoli esterni posti dall’Unione Europea e dunque dalla borghesia multinazionale – bisognava sciogliere nell’acido quella “vecchia”, a partire dai due “ufo” partoriti dal malessere della piccola e media borghesia nazionale.
Di Maio & co. stanno collaborando attivamente a questo processo. Niente di più, niente di meno. Ma è inutile affannarsi – come fanno i media mainstream – dietro le dichiarazioni a pioggia, gli interessi individuali inconfessabili, le dietrologie fantasiose.
C’è semplicemente un piccolo blocco di parlamentari per caso, giunti al limite temporale della loro esperienza, privi da sempre di una visione realistica del mondo e dei poteri che lo abitano, privi perciò di un progetto politico che andasse oltre “onestà e legalità”, senza legami solidi con interessi sociali organizzati e riconoscibili.
Parlamentari che ora sperano di essere riciclati da poteri che hanno imparato a conoscere. E che sono al di là delle loro capacità. Tutti insieme appassionatamente, con gli altri cocci di Renzi, Calenda, Casini, e via assommando frantumi.
L’aspetto quasi paradossale è che sono stati proprio loro tra i protagonisti di una riforma costituzionale che ha ristretto la rappresentanza politica – solo 400 deputati e 200 senatori – facendo un favore immenso ai “centralizzatori” che non hanno mai tollerato l’idea che “il governo sia commissariato dal Parlamento”.
Ovvero a quelli che non sopportano la normale democrazia liberale... Insomma, il Parlamento è stato davvero aperto “come una scatoletta di tonno”. Ma da Draghi e dal capitale europeo, non certo dai grillini.
Se vogliamo trovare delle similitudini in Europa, quella in corso da cinque anni in Italia è una versione pasticciata della macronie, ossia del tentativo di far convergere “al centro” – europeista e liberista, of course – tutta la dialettica politica, centralizzandola nelle mani di alcuni “affidatari” e “tagliando le estreme” (destra e sinistra).
Proprio la Francia ci dice però che questo processo-progetto incontra resistenze popolari, equamente ripartite tra ignobili (la destra di Marine Le Pen) e classicamente di sinistra (La France Insoumise, cuore e motore della coalizione Nupes, giunta a un passo dal guadagnare la maggioranza).
Perché, per quanto possano essere seppellite dalla “narrazione” mediatica h24, le politiche concrete che quel potere “centrista” attua sono tutte univocamente dirette a peggiorare le condizioni di vita della popolazione, a cominciare dai livelli salariali, da pensioni, scuola, sanità, casa, ecc.
Politiche da “economia di guerra”, ma che sono in atto da ben prima che la guerra vera e propria bussasse alle porte di una Unione Europea tutta concentrata sul come far arricchire di più i settori imprenditoriali più ricchi e “internazionalizzati”.
Proprio la Francia, in conclusione, ci indica una possibile via d’uscita dalla morsa del potere. Certo, non è una strada che preveda la possibilità di restarsene in casa a bestemmiare su una tastiera...
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