di Carlo Formenti
Il titolo del libro di Sahra Wagenknecht – dirigente storica della Linke, partito di cui è stata vicepresidente dal 2010 al 2014 – rischia di suscitare aspettative eccessive: Contro la sinistra neoliberale (Fazi editore) evoca infatti una svolta radicale, una presa di congedo netta e senza tentennamenti da ciò che le sinistre – non solo la tedesca, bensì tutte le sinistre occidentali – oggi rappresentano. Ci si aspetterebbe, insomma, di leggere una condanna senza appello, del tenore di quella contenuta nella lettera aperta di Hans Modrow alla Linke che abbiamo rilanciato su questa pagina.
Viceversa il punto di vista della Wagenknecht è più sfumato e contraddittorio. Non che manchino accenti durissimi nei confronti di quella che l’autrice definisce “sinistra alla moda”: come vedremo fra poco, la sua requisitoria è lunga, dettagliata e argomentata, così come è corretta la sua analisi delle radici di classe del fenomeno politico in oggetto. A lasciare perplessi è però il tentativo di tracciare un confine fra neoliberalismo “di sinistra” e liberalismo tour court; un approccio che legittima l’idea secondo cui il liberalismo di sinistra tradizionale, o liberal socialismo, non è il grembo che ha partorito l’attuale sinistra neoliberale, bensì qualcosa di completamente diverso, un patrimonio di idee e valori da cui si potrebbe trarre il materiale per rifondare una “vera” sinistra. Ma procediamo con ordine.
Il bersaglio della Wagenknecht sono coloro che non pongono più al centro della propria attenzione i problemi sociali e politico-economici bensì le tematiche relative allo stile di vita, alle abitudini di consumo e ai giudizi morali sui comportamenti. Per queste persone, le tradizioni e i legami comunitari passano in secondo piano, quando non sono oggetto di rifiuto e disprezzo, rispetto all’autonomia e all’autorealizzazione individuali (l’identità individuale è concepita come qualcosa che esiste indipendentemente dalla vita sociale). Trovare riconoscimento e conferma di sé viene prima di qualsiasi velleità di cambiare il mondo e la società, e in ogni caso si ritiene che il mondo e la società possano e debbano essere cambiati cambiando le parole con cui li si nomina e descrive (questa moda del politically correct, scrive Wagenknecht, è nata nelle università di élite angloamericane, imbevute delle idee dei maestri del postrutturalismo come Foucault e Derrida).
Alle lotte per l’uguaglianza subentra la santificazione della disuguaglianza, una mistica della differenza che fa sì che non ci si impegni più per ottenere l’equiparazione legale delle minoranze, bensì per rivendicare privilegi da concedere alle minoranze stesse. Di qui una svalutazione degli interessi della maggioranza che diventa un alibi per le classi benestanti, le quali che possono così astenersi dal finanziare la collettività, in quanto ai loro occhi non rappresenta più l’incarnazione di un interesse comune e condiviso. A fornire un altro alibi al liberismo economico e al suo progetto di smantellamento dello stato sociale è poi il concetto di società aperta e di cittadinanza globale, una dimensione astratta cui tutti possono accedere senza che ciò comporti coesione e aiuto reciproco. Infine, dietro le maschere dell’apertura e della tolleranza che questa gente indossa, si cela uno spirito intollerante degno della peggiore destra reazionaria: per esempio chi non condivide i valori e i dogmi della cultura Lgbt (a partire dalla negazione di ogni fondamento biologico delle differenze sessuali) non è fatto solo oggetto di disprezzo, ma di vero e proprio odio, sentimento che viene riservato a priori ai maschi bianchi della classe media.
Sinistra alla moda è definizione azzeccata: come le mode postmoderne cercano di illudere il consumatore di godere di prodotti e servizi “unici”, ritagliati su misura per le sue esigenze, che viceversa differiscono solo per qualche elemento marginale, allo stesso modo, dietro l’esaltazione delle differenze e delle singolarità individuali che sostanzia l’ideologia delle nuove sinistre, si nasconde una disarmante uniformità di gusti, idee e valori. Questo conformismo di massa, chiarisce Wagenknecht, non è un prodotto puramente culturale ma rispecchia precisi interessi di classe. Al posto di concetti come classe creativa o lavoratori della conoscenza, l’autrice usa la definizione di “nuovo ceto medio dei laureati”, ma la sostanza è la stessa: si tratta di quel 25/30% di lavoratori (1) – dipendenti, autonomi e liberi professionisti – che svolgono attività legate prevalentemente ai settori della finanza, dell’economia digitale e della comunicazione (media, pubblicità, marketing, ecc.). A marcare la distanza fra questo strato sociale da una parte e la classe operaia e le “vecchie” classi medie dall’altra, non sono solo le forti differenze salariali, sono anche differenze antropologiche (atteggiamenti, valori e stili di vita) che rispecchiano precise condizioni materiali di vita: gli uni vivono nei quartieri centrali delle metropoli, che qualcuno ha definito vetrine della globalizzazione felice (2), o nelle città universitarie, gli altri nelle periferie e/o nei piccoli centri di provincia. L’economia della conoscenza non conosce sindacati, stipendi – né tanto meno posti – fissi, percorsi di carriera predefiniti. I contratti di lavoro sono frutto di trattative individuali, mentre il rischio individuale associato a tale condizione viene esaltato come una virtù, in quanto, secondo la vulgata mainstream, questa spietata competizione di tutti contro tutti premierebbe i “giocatori” più meritevoli e coraggiosi.
Nel concetto di nuovo ceto medio dei laureati, più del termine laureati pesa l’attributo nuovo. La semplice laurea, infatti, non garantisce più di poter salire sull’ascensore sociale, in quanto le professioni meglio pagate richiedono ormai capacità che i percorsi formativi pubblici non sono in grado di trasmettere. Di conseguenza, l’istruzione superiore torna a essere quel privilegio che la massificazione degli accessi all’università sembrava avere cancellato nella seconda metà del secolo scorso, dal momento che sono solo le famiglie benestanti a poter offrire ai figli la possibilità di frequentare università di élite. Ma la selezione comincia prima, su base socio territoriale, dal momento che, come ricordato sopra, il nuovo ceto medio vive nei centri gentrificati delle metropoli, cioè in quartieri dove le scuole, dalle elementari ai licei, offrono chance ben superiori di quelle degli istituti periferici. In poche parole, il privilegio sociale è una spirale che si autoalimenta e si rafforza continuamente, aumentando costantemente la distanza fra alto e basso.
Queste distanze si rispecchiano nelle scelte elettorali: come tutte le ricerche sulla composizione sociale dei flussi elettorali confermano, oggi a votare a sinistra sono gli individui benestanti di cultura elevata, tutti gli altri votano a destra o – in misura crescente – si astengono. Wagenknecht cita il caso dei Verdi tedeschi, che hanno superato da tempo i Liberali come partito più votato dai ricchi, ma ammette che anche il suo partito, la Linke, un tempo sostenuto da un elettorato di cultura medio-bassa prevalentemente operaio, è diventato un “partito dei laureati”. Ma soprattutto si rispecchiano negli stili di vita, nei linguaggi e nelle posture ideologico-culturali. Le élite della nuova sinistra guardano dall’alto in basso “quelli che non hanno frequentato l’università, vivono in provincia e comprano da LIDL i prodotti per la grigliata per risparmiare”. Questi “sdentati” (3) usano parole che l’etichetta politicamente corretta considera intollerabili, per cui, nelle redazioni dei media, nelle istituzioni pubbliche e nelle aziende sono sottoposte a dure sanzioni sociali, al punto che “più della metà dei cittadini tedeschi non osano esprimere liberamente le proprie opinioni“ (4).
Quando questa “marmaglia”, ribellandosi contro le politiche neoliberali e le condizioni di vita che esse impongono alle classi subalterne, scende in piazza dando vita a spettacoli “indecorosi”, come le manifestazioni dei gilet gialli in Francia, degli elettori di Trump negli Stati Uniti e dei No Vax in tutto il mondo, viene bollata con accuse di neofascismo. Le sole manifestazioni accettabili sono quelle per i diritti delle minoranze Lgbt, dei migranti o per la tutela dell’ambiente, e devono essere pacifiche, allegre e variopinte come quelle di movimenti come MeTo e Friday for Future. Per inciso, nota Wagenknecht, a queste ultime non hanno partecipato più dell’80% dei giovani, mentre i due terzi dei partecipanti hanno ammesso di appartenere a un ceto sociale elevato.
Passiamo all'altra faccia dello specchio. I proletari votano a destra perché si sono convertiti in massa al fascismo, o solo perché l’assoluta assenza di empatia del nuovo ceto medio nei confronti delle loro esigenze e dei loro timori non lascia a queste persone altre alternative per esprimere la propria rabbia? Questa per Wagenknecht è ovviamente una domanda retorica che ammette solo la seconda risposta. Le radici della rabbia affondano nel venir meno di ogni senso di sicurezza e continuità. La mistica del cambiamento e del rischio che esalta il nuovo ceto medio, per i membri delle classi subalterne, che hanno bisogno di sapere che cosa accadrà domani, è viceversa associato a un angosciante senso di precarietà e insicurezza esistenziali. Nel trentennio postbellico lo Stato aveva imposto limitazioni alla corsa al profitto privato, alla cui logica aveva sottratto la sanità, l’educazione, il diritto alla casa, le comunicazioni e alcuni servizi fondamentali come elettricità, acqua e trasporti pubblici. La rivoluzione neoliberale ha spazzato via in tempi brevissimi questi presidi che garantivano sicurezza e protezione. Nei primi cinque anni del governo Thatcher è andato in fumo un terzo dei posti di lavoro industriali. Globalizzazione, decentramento produttivo nei Paesi a basso costo del lavoro, outsourcing dei servizi interni alle imprese hanno fatto il resto. Il nocciolo duro del proletariato industriale, caratterizzato da una cultura del lavoro fondata anche sull’orgoglio professionale (non si lavorava “solo per denaro ma per fare qualcosa di utile di cui andare fieri, non si voleva solo fare un lavoro ma farlo bene”), è stato rimpiazzato da un coacervo di mestieri dislocati nella logistica, nella grande distribuzione, nei servizi di cura e assistenza, tutti lavori precari, mal retribuiti e lontani dal garantire una qualche forma di soddisfazione professionale. Un capitalismo finanziarizzato, in cui il reddito proviene dalle rendite patrimoniali più che dal lavoro, ha alimentato disuguaglianze, aumento dei debiti pubblici e privati e immiserimento di massa, al punto che le aspettative di vita della classe media di un Paese ricco come gli Stati Uniti si sono drasticamente ridotte a causa del diffondersi dell’alcolismo, dei suicidi e dell’abuso di psicofarmaci.
La divaricazione alto/basso si evidenzia con particolare nettezza a proposito di temi come l’ambiente e l’immigrazione. In entrambi i casi il nuovo ceto medio e le forze politiche che lo rappresentano propongono un’analisi irrealistica del problema e soluzioni che non tengono in alcun conto gli interessi delle classi subalterne. Partiamo dall’ambiente. Le analisi dei Verdi non vanno alla radice delle cause del degrado ambientale – la logica del profitto capitalistico – ma puntano il dito contro i comportamenti individuali, alimentando l’illusione secondo cui basterebbe cambiare stile di vita per salvare il pianeta. Ovviamente a cambiare stile di vita dovrebbero essere soprattutto i poveri le cui pratiche antiecologiche vengono addebitate a ignoranza e incuria e non alla necessità di risparmiare, per cui si propone di penalizzare determinati consumi di massa (per esempio il carburante diesel) con rincari che “renderebbero nuovamente beni di lusso molti oggetti di consumo e servizi comuni cui grandi fette di popolazione non avrebbero più accesso”.
Veniamo all’immigrazione. L’ideologia delle sinistre cosmopolite che predicano l’accoglienza indiscriminata e senza limiti non fa distinzione fra chi è costretto a emigrare dai disastri provocati dall’imperialismo occidentale e chi lo fa per scelta, rimuovendo il fatto che questi ultimi non sono affatto i più poveri, che non hanno i mezzi per farlo per farlo, bensì i corrispettivi dei ceti medi emergenti dei Paesi occidentali. Così aumentano ovunque i medici del terzo mondo e i paesi poveri finanziano la formazione di specialisti che verranno sfruttati dai paesi ricchi, assistiamo cioè a un sovvenzionamento del Nord da parte del Sud che viene depauperato di forza lavoro qualificata (venti milioni di lavoratori dell’Est sono venuti in Germania dopo l’ingresso dei loro Paesi nella UE). I padroni ottengono così il duplice obiettivo di usufruire di forza lavoro a basso costo e di dividere i lavoratori, ma anche il ceto medio dei laureati ha il suo tornaconto: la disponibilità di servizi di cura alla persona garantisce infatti un aumento del loro potere d’acquisto. A pagare per tutti questi vantaggi sono i quartieri poveri in termini di concorrenza per le abitazioni, degrado delle scuole e dei servizi locali. Il fatto poi che le nuove ondate migratorie giunte in Germania negli ultimi anni dalla Siria e altri Paesi del Medio Oriente abbiano faticato a trovare lavoro e vivano di sussidi, alimenta nei ceti subalterni l’idea che questi soldi vanno a persone che non c’entrano nulla con noi né hanno lavorato per meritarsele.
Fin qui il discorso fila e, pur non apportando sostanziali novità a quanto già argomentato da altri autori, ha il merito di approfondire la situazione tedesca evidenziandone la sostanziale convergenza con quella degli altri Paesi dell’Europa Occidentale e degli Stati Uniti. Le perplessità nascono laddove, come anticipato in sede introduttiva, la Wagenknecht si sforza di riscattare il concetto di sinistra, sia riagganciandolo – acriticamente – alla tradizione della socialdemocrazia tedesca, sia temperando il giudizio sulla sinistra neoliberale nel tentativo di distinguerla dal neoliberismo economico, il che la induce a imboccare una strada che conduce a un pasticcio ideologico che ha scarse chance di contribuire alla costruzione di un’alternativa al dominio neoliberale.
Sulla conversione delle sinistre al neoliberalismo disponiamo già del contributo, fra gli altri, di autori come Nancy Fraser che ha coniato la formula neoliberismo progressista per denotare l’alleanza fra liberalismo di sinistra e liberismo economico (5), o di Wolfgang Streeck, che nei suoi lavori parla della fine della liberal democrazia dovuta al definitivo divorzio fra liberalismo e democrazia (6), ma l’approccio di Wagenknecht, forse perché è più lontana dalla cultura marxista degli autori appena citati, è decisamente meno radicale. Pur riconoscendo che fra liberalismo di sinistra e neoliberismo economico esistono molte convergenze, in quanto riflettono entrambi la visione di strati sociali che sono stati premiati dai grandi mutamenti socioeconomici degli ultimi decenni, continua a coltivare l’illusione che esista un liberalismo di sinistra non ispirato al liberismo economico. È vero che questa differenza si riduce alla disponibilità a tenere in vita un welfare “riformato”, fondato su provvedimenti come l’istituzione di un reddito di base incondizionato che, invece di promuovere politiche finalizzate al conseguimento di uno stato di piena e buona occupazione, si limitano a offrire ai poveri un’assistenza di tipo umanitario, ciò non toglie, secondo Wagenknecht, che queste differenze conservino traccia della sinistra liberale “classica”, che nulla avrebbe a che fare con l’attuale neoliberismo “progressista”.
Per sinistra liberale “classica”, Wagenknecht intende movimenti come la sinistra laburista di Corbyn e quella democratica di Sanders o, per restare in Germania, le ali di sinistra di SPD e Linke. Il che implica, secondo lei, che per rianimare una sinistra degna di questo nome, basterebbe restituire centralità al ruolo dello Stato (di questo Stato) in economia, senza che ciò debba essere necessariamente associato a un progetto di trasformazione sistemica; progetto che del resto, a partire dalla svolta di Bad Godesberg, non fa più parte della cultura socialdemocratica tedesca. La “sua” sinistra dovrebbe essere “liberale e tollerante” e collocarsi nella tradizione dell’illuminismo occidentale che l’autrice assume come un complesso di valori universali privi di connotazioni storiche e politiche (7).
Insomma Wagenknecht è una liberale (“classica”) senza se e senza ma, al punto che si compiace nello scrivere che “oggi la maggioranza dei cittadini pensa in maniera molto più liberale rispetto a pochi decenni fa, lo spirito dei tempi è solidamente liberale” e che “il nostro sistema politico è ancora liberale e bisogna sperare che continui ad esserlo”. Di più: da buona tedesca, Wagenknecht non si rifà semplicemente alla tradizione liberale bensì a quella dell’ordoliberalismo, un pensiero che esalta in quanto impegnato a limitare il potere dei monopoli e garantire le condizioni di una “sana” concorrenza e che, a suo avviso, fino agli anni Novanta, avrebbe premiato “il merito, gli sforzi per migliorarsi e l’operosità individuale”. Non una parola sul fatto che la “libera” concorrenza (Marx docet) genera monopolio, che il merito e la competizione individuale per migliorarsi sono stati la base ideologica su cui è venuta crescendo quella sinistra alla moda che giustamente le sta sui nervi. Non una parola sul fatto che la potenza e il benessere del suo Paese si fonda su un modello di sviluppo mercantilista che ha potuto sfruttare, grazie all’egemonia tedesca sulla UE, il lavoro a basso costo degli operai del Sud e dell’Est Europa. Infine rammarico per un industria tedesca che sarebbe in crisi non a causa delle contraddizioni interne al suo modello di sviluppo bensì delle “importazioni cinesi basate sul dumping”, puntando il dito contro quella Cina “che intrattiene con la democrazia e con i diritti civili un rapporto quale non ci augureremmo mai in Europa”.
In conclusione mi scappa da dire: cara Sahra non capisci che quella sinistra alla moda che giustamente ti irrita è l’erede della tradizione liberal socialista del tuo Paese che oggi ti ispira tanta nostalgia?
Note
(1) Questa percentuale ricorre in tutte le analisi della composizione sociale delle società occidentali, anche se i criteri di ricerca variano. Piketty, ad esempio, si riferisce a quegli strati sociali che più di altri hanno beneficiato delle politiche redistributive del “trentennio glorioso”, ciò che ha loro permesso di integrare il reddito da lavoro con rendite derivanti dal possesso di beni immobili e titoli di stato.
(2) A usare questa definizione è, fra gli altri, il geografo francese Christophe Guilluy, autore di una serie di opere in cui descrive la dimensione territoriale del conflitto di classe.
(3) A usare questa sprezzante definizione nei confronti delle classi inferiori è stato l’ex presidente socialista francese François Hollande.
(4) Questo fenomeno di autocensura indotto dalla pressione del discorso delle élite sull’opinione pubblica è stato analizzato dalla sociologa tedesca Noelle Neumann che lo definisce “la spirale del silenzio” (La spirale del silenzio, Meltemi, Milano 2017).
(5) Cfr. N. Fraser, Capitalismo, Meltemi, Milano 2019.
(6) Cfr. W. Streeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli, Milano 2013.
(7) La Wagenknecht respinge l’accusa che il pensiero postcoloniale rivolge alla razionalità occidentale, definendola eurocentrica e colonialista, ma se all’ideologia postcoloniale si possono rivolgere molte critiche, questa accusa è invece, piaccia o meno ai paladini dell’ideologia occidentale, un suo merito indiscusso.
Fonte
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