È di pochi giorni fa la notizia del rischio di un incidente militare in Siria tra alcuni aerei militari russi e le forze militari statunitensi ancora presenti in quel paese. Nell’incubazione della guerra in corso in Ucraina, un certo rilievo ha avuto – e come vediamo potrebbe ancora avere – quanto accaduto in Siria negli ultimi sette anni.
A settembre del 2015 le forze armate russe sono intervenute ufficialmente in Siria per aggiungere il supporto militare al sostegno politico e diplomatico al governo Siriano impegnato su due fronti nella guerra civile, da una parte contro i ribelli dell’Esercito Siriano Libero sostenuto dalla Turchia e dall’altro contro l’Isis. Entrambi foraggiati più o meno apertamente anche da Usa, Gran Bretagna, Francia, Italia.
Nel secondo caso anche dall’Arabia Saudita e dalle petromonarchie del Golfo. Tutti costoro, pur con alleanze a geometrie variabili, convergevano sull’abbattimento del governo di Damasco in mano ad Assad.
Gli Stati Uniti cominciavano a visualizzare piuttosto chiaramente il fallimento della propria egemonia in Medio Oriente e avevano dato il via a quella strategia del caos tesa a destabilizzare più che stabilizzare i paesi della regione.
Quando la guerra civile in Siria crebbe notevolmente di intensità, Mosca divenne consapevole dell’errore commesso nel 2011, quando, la Russia si era astenuta dall’apporre il proprio veto alla risoluzione 1973 dell’Onu con lo scopo di instaurare una no-fly-zone sulla Libia al fine di proteggerne la popolazione.
La risoluzione venne invece sfruttata dalle potenze occidentali per supportare i ribelli, deporre e far brutalmente uccidere il leader libico Gheddafi.
Nel 2011 la Russia faceva ancora parte del G8 e delle varie camere di compensazione con le potenze della Nato, ma al Cremlino crebbe la consapevolezza di essere stati rigirati e che un altro errore simile non doveva essere commesso nel caso della Siria, legata da relazioni storiche con Mosca e dove la Russia disponeva dell’unica base militare/navale nel Mediterraneo a Tartus.
Nell’agosto del 2013, le potenze occidentali accusarono il governo di Damasco di essere responsabile di un attacco chimico nei confronti della popolazione siriana.
La Russia esercitò forti pressioni sul governo di Assad affinché accettasse di ratificare la Convenzione sulle armi chimiche e aprisse le porte dei propri depositi di armi alle ispezioni dell’Onu in modo da poter eliminare tale arsenale. Se Damasco si fosse rifiutata di aderire al trattato, si sarebbe palesato il rischio di un’invasione occidentale del paese, come avvenuto in Iraq, che avrebbe inevitabilmente portato alla capitolazione di Assad.
Inizialmente la Russia inviò al governo siriano essenzialmente armi leggere e munizioni, ma ben presto, cominciò a rifornire Damasco con armamenti più avanzati, inclusi droni ed elicotteri.
Nel 2015 secondo fonti ufficiali rese note dal Sunday Times, l’allora primo ministro britannico Cameron voleva il via libera del parlamento per effettuare raid aerei in Siria a partire dai primi di ottobre. Il ministro degli Esteri britannico Osborne affermava che “una Siria più stabile e in pace si raggiunge con la lotta al malvagio regime di Assad e ai terroristi Isis”.
Ad agosto 2015, il presidente statunitense Barack Obama aveva dato l’autorizzazione alle forze statunitensi per compiere raid aerei in difesa dei gruppi di ribelli siriani addestrati dagli Usa nell’ambito della sua strategia anti-Isis, ma anche se ad attaccarli fossero state le forze del presidente siriano Bashar al Assad.
Già nell’agosto 2015 la risposta della Russia a questa direttiva di Washington non si era fatta attendere. I possibili raid aerei Usa per proteggere l’opposizione siriana, secondo il Cremlino, potrebbero destabilizzare ulteriormente la situazione in Siria facendo il gioco dell’Isis.
“Mosca ha sottolineato ancora una volta che l’assistenza, tanto più con mezzi finanziari o tecnici all’opposizione in Siria, porta all’ulteriore destabilizzazione del Paese”, aveva dichiarato Dmitri Peskov, portavoce del Cremlino.
“In sostanza questo porta ad una situazione nel Paese di cui possono approfittare i terroristi del cosiddetto Stato Islamico perché è in questo modo che la dirigenza indebolita perde il suo potenziale per combattere l’ulteriore espansione dello Stato Islamico”.
Nel 2015, dopo quattro anni di rovesci, la guerra era arrivata alle porte di Damasco e il governo di Bashar al Assad controllava ormai pochissimo territorio.
L’Isis dilagava in Siria e Iraq e le milizie jihadiste ribelli avevano esteso e consolidato le loro posizioni nell’area della Siria a ridosso del confine con la Turchia.
L’intervento russo, coordinato con l’aumento del sostegno da parte dell’Iran e dei libanesi di Hezbollah, si è rivelato determinante per rovesciare le sorti del conflitto.
La Russia è intervenuta ufficialmente nel conflitto siriano il 30 settembre 2015, bombardando le regioni di Homs e Hama, allora poste sotto il controllo dei gruppi di jihadisti siriani, e poi con la presenza di alcune migliaia di militari sul campo (non più di 4.000 per volta per un totale di 48.000 effettivi che hanno ruotato nel territorio siriano in tre anni).
Il punto di forza dell’intervento russo in Siria, fin dall’inizio, è stata l’aviazione, anche con qualche incidente. Il 24 novembre 2015 due F-16 turchi abbatterono sui cieli siriani al confine con la Turchia un Su-24 russo. Ankara presentò le proprie scuse e la cosa non ebbe conseguenze.
I bombardieri strategici e caccia russi hanno preso gradualmente il controllo dei cieli siriani. Nei primi cinque mesi della missione, fino a fine febbraio 2016, l’aviazione russa organizzò una media di 60 missioni aeree quotidiane (a fronte delle 7 della coalizione a guida Usa) contro le postazioni sia dell’Isis sia delle milizie jihadiste, contro i pozzi controllati e le rotte del traffico di petrolio con cui Isis si foraggiava.
La Russia ha utilizzato anche le armi delle flotte del Mar Mediterraneo, Mar Nero e del Mar Caspio per lanciare missili a lunga gittata su obiettivi sensibili.
A partire dall’8 novembre 2016, anche gli aerei ed elicotteri decollati dalla portaerei Kuznetsov stanziata nel Mediterraneo orientale hanno svolto missioni militari in Siria.
La riconquista di Aleppo e Deir ez-Zor – con le devastazioni e i morti che ne sono derivati – portarono via via al consolidamento del controllo del governo di Assad sui tre quarti del territorio nazionale, ed hanno segnato le conseguenze di lungo termine dell’intervento militare russo in Siria.
Inoltre durante l’azione militare in Siria, decine di migliaia di militari russi (circa 48.000) hanno ruotato sul campo di battaglia nel corso degli anni ricevendone formazione ed esperienze.
La fase attiva dell’operazione militare russa in Siria è durata 804 giorni, dal 30 settembre 2015 all’11 dicembre 2017. Nel dicembre 2017, il presidente russo Putin, durante una visita alla base aerea di Khmeimim, ordinò il ritiro della maggior parte delle truppe russe dal Paese.
La guerra civile in Siria è stata avvolta in una coltre di nebbia che ha nascosto molte alleanze del diavolo, molte alleanze a geometria variabile e molti interessi definiti ma non sempre definibili, nelle quali districarsi non è mai stato facile.
Anche in questa guerra molte fake news vennero diffuse dai governi e dai media occidentali, soprattutto in relazione alle accuse alla Siria di aver usato armi chimiche, accuse che si sono rivelate false o addirittura nel loro contrario.
Anche nel caso dell’intervento militare in Siria, ne l’Unione Europea ne gli Stati Uniti d’America hanno applicato sanzioni contro la Russia. Le restrizioni personali statunitensi si applicarono a dodici persone e sette società russe: Tempbank, AKB RFA Bank, Rosoboronexport, Russian Financial Corporation, Global Concept Groups, Promsyryeimport, Maritime Assistance.
Il provvedimento statunitense “Sulla protezione della popolazione civile della Siria”, noto come “Caesar Act”, in vigore dal giugno 2020 consolidava le restrizioni esistenti nei confronti dei paesi alleati di Damasco e le ampliava, complicando le relazioni della Siria con altri paesi e interferendo con l’instaurazione di un dialogo.
Inoltre mentre molti mass media interventisti per la guerra in Ucraina, ricordano solo i bombardamenti russi su Aleppo, ma va ricordato che gli Stati Uniti – ma anche Francia e Gran Bretagna – hanno a più riprese bombardato la Siria sotto tre amministrazioni: Obama, Trump, Biden. Una sorta di dottrina del “bombardare per esistere”, fino all’inchiesta del New York Times sui bombardamenti Usa che hanno provocato vere e proprie stragi di civili siriani.
Un curioso particolare va però segnalato. A marzo 2022, nonostante la guerra in Ucraina, nelle zone critiche della Siria si è assistito ancora a pattugliamenti congiunti tra le forze militari russe, quelle statunitensi (che hanno sul terreno ufficialmente 900 militari) e quelle turche, sia a Idlib sia sulla strada che da Qamishli porta verso il confine con l’Iraq.
Per molti aspetti l’intervento militare della Russia in Siria ha segnalato le preoccupazioni di Mosca non tanto o non solo per la diffusione del jihadismo alle proprie frontiere, quanto quelle relative alla destabilizzazione operata dagli USA in Libia, Iraq e Siria.
La Russia in Siria ha affiancato all’intervento anche una complessa diplomazia triangolare con Turchia e Iran per mediare la fine del conflitto con una serie di incontri trilaterali con le altre due potenze regionali coinvolte e interessate al conflitto siriano.
Dalla Siria alla Libia. La Russia sulle sponde del Mediterraneo
Indubbiamente la guerra civile siriana si è rivelata l’opportunità perfetta per permettere a Mosca di tornare a proiettare la propria forza militare in Medio Oriente e nel Mediterraneo. La Russia prima della guerra civile siriana disponeva sul Mediterraneo del solo porto di Tartus, in Siria. Adesso può utilizzare anche la base aerea di Khmeimim vicino a Latakia.
Nelle priorità della proiezione strategica statunitense, il Mediterraneo è venuto assumendo nel corso degli anni una importanza relativa, un buco nel quale si è inserita la Turchia e hanno manifestato ambizioni Francia e Italia.
L’esperienza dell’intervento militare russo in Siria ha prodotto un’onda lunga anche verso il Mediterraneo occidentale, con l’intervento nella guerra civile in Libia – attraversa la compagnia di mercenari Wagner – a sostegno delle milizie del generale Haftar contro quelle del governo di Tripoli sostenuto invece dalla Turchia.
Tra l’aprile 2019 e il luglio 2020 Mosca ha sostenuto (in)direttamente la marcia del generale Khalifa Haftar (comandante dell’Esercito nazionale libico, Enl) verso Tripoli, mentre Ankara ha contribuito attivamente alla difesa della capitale e delle posizioni del Governo di accordo nazionale (Gna), riconosciuto dall’Onu. Turchia e Russia hanno discretamente consolidato la propria presenza militare rispettivamente in Tripolitania e Cirenaica.
Mosca – soprattutto mediante il Gruppo Wagner – ha stabilito postazioni militari volte a proteggere la “mezzaluna petrolifera”, tra le massime poste in gioco del conflitto libico. Fortificando inoltre le installazioni militari dell’Enl funzionali alla protezione dei terminal petroliferi.
Inoltre alcuni jet russi sono stati schierati nella base aerea di Juffra – nel cuore della Libia – per sopperire con l’arma aerea al parziale disimpegno di una parte dei contractors della compagnia Wagner dal teatro libico. Inoltre le relazioni tra Haftar e la Russia sembrano in via di depotenziamento, con la seconda che guarda sempre più come interlocutore a Saif Al Islam Gheddafi, uno dei figli del leader libico ucciso nel 2011.
Vedi la prima puntata: La guerra contro la Jugoslavia nel 1999
Vedi la seconda puntata: Il conflitto in Georgia nel 2008
Vedi la terza puntata: La guerra in Donbass nel 2014
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