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19/06/2022

L’incubazione della guerra/3. Il conflitto nel Donbass del 2014

Il violento colpo di stato armato, compiuto a Kiev alla fine di febbraio 2014 ha aperto il vaso di Pandora della guerra in Ucraina, sia nelle regioni russofone dell’Est (Donetsk e Lungansk), sia sul fronte interno contro le minoranze russofone, le organizzazioni comuniste e antifasciste.

Il pretesto della violenta rivolta conosciuta come la seconda “Euro Maidan” fu il rifiuto dell’allora presidente ucraino Janukovič di firmare l’Accordo di associazione all’Unione europea, su cui insisteva pesantemente la Ue.

A tale scopo fu organizzata una provocazione contro la polizia, la risposta di questa fu registrata su video e diffusa immediatamente dai media occidentali. Tutto ciò avveniva alle 4 del mattino, sulla piazza centrale della capitale ucraina (la Maidan che significa appunto piazza), dove, “in modo perfettamente casuale”, si trovavano già diverse troupe, che registravano tutto su video e lo trasmettevano.

Fu l’innesco che scatenò la seconda “Majdan” che, sotto la direzione dell’ambasciata USA e con le visite di incoraggiamento in piazza dei leader europei, si trasformò in colpo di stato armato.

Sono state sfacciate le interferenze negli affari interni dell’Ucraina operate da senatori e diplomatici USA (Biden, McCain, Nuland) e Presidenti ed ex presidenti polacchi (Gribauskajte, Kaczyński, Kwaśniewski, Wałęsa) che arrivavano di persona a Majdan appositamente per incoraggiare le persone nella loro rivolta contro il governo. Il primo sangue a Kiev venne versato il 22 gennaio 2014, quando viene uccisa una persona ed accusata la polizia.

La contrapposizione tra governo e piazza si andava trascinando troppo a lungo e il presidente Janukovič si rifiutava di ricorrere alla forza. Al contrario, gli agitatori di Majdan avevano bisogno di sangue, affinché il “regime sanguinario” diventasse, alla fine, davvero tale. Avevano bisogno di un massacro sacrificale, su cui si potesse focalizzare l’attenzione di tutta la comunità internazionale.

Le fucilate, che provocarono la morte di 43 persone, furono esplose al mattino del 20 febbraio 2014, in via dell’Istituto. Le persone furono colpite da cecchini appostati alle loro spalle: dall’albergo Ucraina, il cui edificio dà direttamente su via dell’Istituto, e dal tetto del Conservatorio di Kiev, direttamente verso la folla sulla Majdan.

In un colloquio tra il Ministro degli esteri estone Urmas Paet e l’Alta rappresentante esteri UE Catherine Ashton, Paet dichiarava apertamente che le persone di via dell’Istituto erano state uccise dall’opposizione. “Preoccupa altamente, che la nuova coalizione non voglia indagare sulle circostanze esatte dell’accaduto. Cresce rapidamente la convinzione che dietro quei cecchini non ci fosse Janukovič, ma qualcuno della nuova coalizione”, così Urmas Paet esprimeva alla collega di Bruxelles le impressioni del suo viaggio in Ucraina.

Il 31 marzo 2014 la Verkhovnaja Rada (il Parlamento ucraino) adottò la legge “Sulla eliminazione delle conseguenze negative e sulla inammissibilità di persecuzioni e sanzioni per avvenimenti verificatisi nel corso di pacifiche riunioni”; secondo cui non potevano esser istruiti nuovi procedimenti penali e procedimenti per violazioni amministrative, relativi a tali eventi, e tutti i procedimenti istruiti in precedenza contro partecipanti a riunioni pacifiche avrebbero dovuto esser chiusi (rientrando nell’amnistia).

Quindi tutti coloro che avevano attaccato le forze dell’ordine schierate a difesa dei palazzi istituzionali, come pure coloro che avevano compiuto un colpo di stato armato, venivano completamente affrancati da ogni tipo di azione penale.

Eppure durante gli scontri, 23 agenti erano stati uccisi e 932 erano rimasti feriti; tra questi, 257 avevano riportato lesioni gravi, e 158 presentavano ferite da arma da fuoco.

Il 21 febbraio 2014 il presidente ucraino Yanukovich, deposto dalle violenze nelle piazze, fugge in Russia.

L’inizio della guerra nel Donbass

Il 20 febbraio 2014, la guarnigione russa della base navale di Sebastopoli, senza mostrine, esce dalle caserme e prende il controllo su tutto il territorio della Crimea. Il 16 marzo, viene organizzato un referendum dalle nuove autorità della Crimea. Il 95,3%, votò per la separazione dall’Ucraina e l’annessione alla Russia mai riconosciuta però dalla comunità internazionale.

Quanto accaduto in Crimea e le violenze nazionaliste antirusse e anticomuniste in Ucraina, avviano un processo di insurrezione e contro-insurrezione nelle regioni meridionali e orientali ucraine, fino a scatenare quella che conosciamo come la guerra del Donbass, un conflitto, “a bassa intensità” che però ha provocato tra i 14 e i 16 mila morti fino ad oggi.

Fra il 6 e il 7 aprile 2014, in Donbass si verificano l’occupazione di sedi comunali e regionali da parte di milizie armate locali delle popolazioni russofone e di gruppi di antifascisti ucraini. A Odessa, il 2 maggio, si consuma una strage con la morte di 48 militanti antifascisti uccisi nel rogo della Casa dei Sindacati.

A maggio 2014 nelle Repubbliche del Donbass si vota per l’indipendenza. L’affluenza alle urne risulterà più alta delle aspettative, nelle Repubbliche di Donetsk e Lugansk si supera il 60%, con lunghe file di elettori che attendevano il proprio turno già al mattino presto. Un risultato che – considerando l’assedio militare – smentisce coloro che continuano a parlare di uno scarso sostegno della popolazione delle zone ribelli nei confronti della scelta ‘separatista’.

Nella prima fase della guerra del Donbass, fra il giugno e l’agosto del 2014, l’esercito ucraino e i battaglioni nazisti al suo fianco, riconquistarono il porto di Mariupol, le città di Sloviansk, Kramatorsk e Debaltseve, arrivando fino alla periferia di Shakhtarsk, sulla strada che collega Donetsk a Lugansk. Ma le milizie repubblicane a giugno riprendono l’offensiva e scacciano l’esercito regolare ucraino, sia dal confine, sia dai territori più avanzati e vicini alle capitali dei due oblast.

Ad agosto 2014 nonostante i moniti statunitensi e le minacce da parte dell’allora Presidente della Commissione Europea Josè Manuel Barroso, il governo russo in accordo con il Comitato Internazionale della Croce Rossa decide di inviare un convoglio di aiuti umanitari alle popolazioni delle regioni orientali dell’Ucraina assediate dall’esercito di Kiev.

Una carovana composta da 280 camion, carichi di aiuti di emergenza, accompagnati da gruppi di motociclisti, parte da Mosca diretta verso le città del Donbass completamente isolate dalle truppe agli ordini del regime golpista di Kiev, il quale nei giorni precedenti aveva detto no all’apertura di corridoi umanitari che permettessero di rifornire gli abitanti stremati di Donetsk e Lugansk di generi alimentari, acqua e medicine. Kiev denuncia che oltre gli aiuti umanitari la Russia avrebbe inviato anche aiuti militari alle Repubbliche del Donbass.

Ma ancora a ottobre 2014 il Cremlino viene apertamente accusato dall’opposizione interna di non sostenere la lotta delle Repubbliche indipendentiste del Donbass.

Il regime nazionalista ucraino contesta che esista una emergenza umanitaria nelle regioni sud-orientali e parla di propaganda russa. Il 5 agosto l’ambasciatore di Kiev Aleksandr Pavlichenko nel corso del dibattito del Consiglio di Sicurezza dell’Onu dichiara che “non vi è alcuna crisi umanitaria in Ucraina, come i nostri colleghi russi continuano ad affermare”.

A smentirlo sarà John Ging, direttore della Divisione di Coordinamento e Risposta dell’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) delle Nazioni Unite, secondo cui quasi 4 milioni di persone vivono nelle zone interessate da combattimenti e bombardamenti, 118.000 persone sono in fuga dagli insorti del Donbass si sono trasferite in altre regioni dell’Ucraina, mentre altre 740.000 sono in fuga dall’esercito ucraino e si sono rifugiate in Russia, per un totale di quasi 900 mila sfollati.

Nella regione ci sono circa 1,5 milioni di abitanti di Donetsk, Lugansk ed altre città e villaggi che ormai da settimane vivono assediate e sottoposte a continui bombardamenti da parte delle truppe ucraine, senza possibilità di scappare visto l’assedio da parte delle forze armate ucraine e dei battaglioni nazisti.

La situazione si stabilizza nel settembre 2014, con la riconquista di circa il 50% del territorio degli oblast di Lugansk e Donetsk da parte delle milizie popolari repubblicane. Questa fase iniziale della guerra si conclude con gli accordi di Minsk, con la mediazione dell’Osce e la partecipazione diretta di Germania e Francia, il 5 settembre.

Ma la guerra nel Donbass riprenderà molto presto con i ripetuti tentativi ucraini di schiacciare – senza successo – le Repubbliche indipendenti di Lugansk e Donetsk, incentivata anche dalle leggi discrimitarie contro i russofoni adottate dal governo di Kiev.

A febbraio del 2015 viene reso pubblico il “Manifesto di solidarietà con la Resistenza Antifascista nel Donbass. Nel Manifesto è scritto:
“Per la prima volta un popolo dell’ex URSS, quello del Donbass, non ha accettato di subire passivamente l’imposizione di un governo nazifascista, strumento del controllo NATO e UE sul proprio territorio e non ha accettato il deliro nazionalista di questo governo che sta cercando di imporre una sola lingua e una sola identità nazionale in un territorio multietnico e multilinguistico.

Per opporsi a tutto questo il popolo del Donbass è ricorso al principio dell’autodeterminazione democratica costituendo attraverso un referendum due Repubbliche Democratico Popolari e proponendo al Governo Ucraino la costituzione di uno Stato Federato autonomo, né alle dipendenze della UE, né a quelle Russe.

Un percorso diametralmente opposto alla follia nazionalista e fascista che è invece lo strumento preferito dell’occidente per imporre l’adesione alla NATO e all’economia di mercato.

Come risposta il Governo Centrale ha organizzato i fascisti, ha affiancato all’esercito regolare una guardia nazionale di volontari nazisti, ha inviato i carri armati contro le popolazioni, ha utilizzato i propri aerei per radere al suolo intere città, ha tagliato le forniture di gas e di elettricità, ha chiuso scuole e ospedali, è arrivato fino a sospendere il pagamento delle pensioni a chi abita nel Donbass.

Il Popolo del Donbass resiste, si organizza, risponde militarmente e purtroppo subisce tutte le conseguenze dei brutali metodi della potenza militare NATO”.
Ad aprile del 2015 il Ministro della giustizia ucraino Pavel Petrenko annuncia l’adozione, da parte della Rada entro maggio di un pacchetto di “decomunistizzazione” del paese.

Una delle misure previste dal pacchetto, la qualifica del regime comunista come “contrario all’umanità” e la sua equiparazione al fascismo e al nazismo, insieme al divieto della simbologia comunista, era già in vigore, mentre poco dopo (maggio 2015) viene respinto definitivamente il ricorso legale per la proibizione del Partito comunista ucraino, dopo che dal 2014 era stata sciolta la sua frazione parlamentare. Da allora i comunisti sono totalmente fuorilegge in Ucraina.

Nel 2016, mentre Francia, Germania, Russia e Ucraina cercavano di implementare gli accordi di Minsk, la Camera dei deputati USA approva un progetto di legge – “Sulla stabilità e la democrazia in Ucraina” – che, oltre all’inasprimento delle sanzioni contro la Russia, prevede la fornitura di armi letali a Kiev.

Anche se il disegno di legge riveste carattere di “raccomandazione”, è indicativo di come Washington intendesse ostacolare la road map franco-tedesca (senza dubbio concordata con Mosca) che cominciava appena a muovere i primi stentati passi. Ma non sono solo gli Stati Uniti a soffiare sul fuoco.

A proposito di crimini di guerra, è bene ricordare che la Corte internazionale dell’Aja ad aprile 2016 delibera che “Nessuna causa verrà avviata per il massacro di civili nel Donbass, perché i delitti denunciati non rientrano nella giurisdizione del tribunale”, dato che “La Corte può esercitare giurisdizione sui crimini internazionali, se la sua competenza è riconosciuta dallo Stato nel cui territorio è stato commesso il reato, dallo Stato di cui è cittadino l’accusato, o il caso è delegato dal Consiglio di sicurezza dell’ONU”.

Nel caso sollevato dall’avvocato russo Igor Trunov sui civili del Donbass uccisi dalle truppe e dai battaglioni neonazisti in Donbass, secondo i giudici de L’Aja, nessuna di queste condizioni è data. Trunov si riferiva a casi specifici, ponendo l’accento soprattutto su “l’uso di armi di distruzione di massa, con la morte in massa di civili. Bombardamento di edifici pubblici, abitazioni e infrastrutture.

Una scuola è stata colpita, provocando quindici vittime; ucciso anche un collaboratore della Croce Rossa Internazionale, lo svizzero Laurent Etienne Du Pasquier”
. Ma, secondo i giudici de L’Aja, avrebbero dovuto essere il governo di Kiev a intentare causa contro le proprie truppe e i propri battaglioni neonazisti inviati a terrorizzare il Donbass!

Nel 2017 viene ventilata la proposta di un contingente di interposizione dell’Onu sulla linea degli scontri tra Ucraina e Repubbliche del Donbass.

Putin incaricò il Ministro degli esteri Sergej Lavrov di mettere a punto la risoluzione, poi presentata al Consiglio di sicurezza ONU. La risoluzione parte dalla constatazione di una fase di stallo nella risoluzione del conflitto in Donbass, a causa della mancata attuazione da parte di Kiev degli impegni assunti in base al “Minsk-2”.

Ma il governo ucraino (allora il presidente era l’oligarca Poroshenko e non ancora Zelenski, ndr) aveva una idea tutta sua della missione di interposizione delle Nazioni Unite. Avrebbe voluto che le forze ONU controllassero l’intera zona del Donbass, secondo però il “modello jugoslavo”, ovvero quello che consentì alle potenze occidentali di attuare tranquillamente i loro piani di disgregazione della Jugoslavia.

Lo scenario immaginato dall’Ucraina puntava sul modello dello “Storm” croato utilizzato per eliminare la Repubblica serba di Krajina. Non a caso, a Kiev cominciano ad arrivare “esperti croati” tra i quali l’ex Ministro della giustizia croata Shkare-Ozhbolt, che tenne un seminario su “L’esperienza croata della reintegrazione pacifica dei territori non controllati”.

Un piano, “pacifico” quanto reale, da attuare incuneando reparti di carri armati in due o tre punti delle difese delle Repubbliche popolari e, bloccando Donetsk e Lugnask, per poi arrivare sino alla frontiera russa.

La Russia riteneva invece che i Caschi Blu dell’Onu avrebbero dovuto disporsi esclusivamente lungo la linea di separazione tra le forze ucraine (inclusi i battaglioni neonazisti) e le milizie popolari, a difesa degli osservatori della missione OSCE e che sarebbe stato possibile solo dopo il ritiro delle forze dalla linea di contatto e con il consenso delle Repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk, condizione sempre rifiutata da Kiev.

Il definitivo affossamento degli accordi di Minsk

Nel 2019, a Parigi si era tornati a discutere degli accordi di Minsk. L’ultimo incontro era avvenuto nel 2016. A gestire l’incontro era il cosiddetto “quartetto normanno” composto Vladimir Putin, Vladimir Zelenskij, Angela Merkel e Emmanuel Macron per discutere i punti principali di una “road map” che non riesce a ingranare e risolvere almeno due problemi: lo scambio di prigionieri e la fissazione di almeno altre tre “aree pilota” per l’arretramento delle forze, dopo quelle di Zolotoe e Petrovskoe.

Tutt’altro che chiara la questione delle elezioni in Donbass, previste dagli accordi di Minsk del 12 febbraio 2015 e mai ammesse da Kiev: il “quartetto normanno” le ha confermate, ma l’Ucraina ha continuato a declinarle a modo suo.

In un incontro separato tra Putin e Zelenskij, il Presidente russo si era detto soddisfatto del colloquio col partner ucraino e in Russia si era ironizzato parecchio sulla dichiarazione di Zelenskij su un risultato definito come uno “zero a zero”, a fronte di un “assenso completo” di Kiev su tutte le questioni.

Merkel e Macron in qualche modo se ne erano “lavati le mani” e Zelenskij si era trovato di fronte a un bivio: salvare il proprio paese dalla guerra oppure salvare se stesso dai nazionalisti.

Alla vigilia del vertice, un esponente del partito di Zelenski aveva perimetrato gli obiettivi in vista dell'appuntamento a Parigi: “cessazione delle ostilità lungo la linea di demarcazione e elezioni in Donbass secondo la legislazione ucraina”, dopo il ritiro “delle formazioni armate illegali”, escludendo in ogni caso ogni dialogo diretto con le Repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk e puntando invece sul ristabilimento del controllo delle frontiere con la Russia in Donbass da parte di Kiev. Obiettivi diametralmente opposti alla visione delle Repubbliche separatiste.

Per fare pressione su Zelenski e spingerlo a non fare concessioni l’8 dicembre a Kiev c’era stata una violenta manifestazione convocata dai partiti ”Evropejskaja solidarnost”, “Batkivščina” e “Golos” (facenti capo rispettivamente a Petro Porošenko, Julija Timošenko e Svjatoslav Vakarčuk) con lo slogan “No alla capitolazione”, contro ogni “compromesso con Mosca”, ponendo quali punti fermi inammissibili: rinuncia alla “eurointegrazione” ucraina, elezioni in Donbass prima di aver realizzato condizioni di sicurezza (tradotto: disarmo delle milizie), dialogo diretto con LNR e DNR, compromessi sulla Crimea.

Due giorni prima Zelenskij, aveva “corretto” il precedente assenso dato dal rappresentante ucraino a Minsk, l’ex Presidente Leonid Kučma, alla “Formula Steinmeier”(il presidente tedesco che Zelenski non aveva voluto a Kiev durante la guerra in corso, ndr), una formula che prevedeva lo status speciale da concedere al Donbass, affermando invece che la formula diverrà legge solo dopo il disarmo delle Repubbliche del Donbass.

Il vertice a quattro di Parigi nel 2019, aveva visto il fallimento del tentativo ucraino di rivedere gli accordi di Minsk e il passaggio delle frontiere sotto controllo ucraino, prima di aver tenuto le elezioni in Donbass. La linea di Kiev era quella di sottoscrivere documenti, affermare che sia necessario adempiere gli accordi di Minsk, ma di fatto non adempiere un bel niente.

Vedi la prima puntata: La guerra contro la Jugoslavia nel 1999

Vedi la seconda puntata: Il conflitto in Georgia nel 2008

Fonte

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