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17/06/2022

La BCE all’assalto dei salari: parte seconda

La Banca Centrale Europea (BCE), giovedì 9 giugno, ha annunciato una storica virata nella politica monetaria dell’area euro: l’aumento dei tassi di interesse e la fine degli acquisti diretti di titoli pubblici da parte dell'Istituto. Queste decisioni non saranno neutrali né per il potere d’acquisto della classe lavoratrice, come mostrato nella prima parte di questo contributo, né per la stabilità finanziaria e quindi politica dei paesi dell’area euro.

La manovra di politica monetaria di giovedì non si limita alla leva, pur fondamentale, dei tassi di interesse. L’altro pilastro della gestione finanziaria dell’area euro dell’ultimo decennio che viene abbattuto è il protagonismo della banca centrale negli acquisti di titoli pubblici sui mercati, che già a marzo scorso aveva segnato il passo con la fine del programma di acquisti di titoli varato per contrastare gli effetti della pandemia, il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP).

A partire dal 2010, quando i tassi di interesse sui titoli greci volavano alle stelle, la BCE ha introdotto una serie di strumenti che le consentissero di acquistare direttamente sui mercati finanziari i titoli del debito pubblico dei Paesi membri. Così, prima con il Greek Loan Facility vennero acquistati i titoli del debito pubblico greco per frenare la spirale speculativa che si era abbattuta sul Paese, poi con il Securities Market Programme ed il fondo salva stati (oggi European Stability Mechanism) gli acquisti si sono estesi ai cosiddetti PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna), la periferia dell’Unione dove si stava allargando il fronte dell’instabilità finanziaria esploso in Grecia. Passata la stagione emergenziale, la BCE aveva introdotto l’Asset Purchase Programme (APP), evoluzione di tutti gli strumenti precedenti, il quale serviva a gestire i flussi di questi acquisti diretti di titoli pubblici europei in maniera più equilibrata: questo strumento consentiva di comprare titoli della periferia ma anche titoli dei Paesi centrali, Germania in primis, e dunque di ribilanciare il costo del denaro pagato dai governi dell’area dell’euro e di governare pienamente gli spread, cioè i divari tra i tassi di interesse sui titoli di Stato dei vari Paesi europei. Infatti, ogni volta che la banca centrale acquista i titoli del debito pubblico di un Paese, spinge al ribasso il tasso di interesse su quei titoli perché ne alimenta la domanda: gli acquisti di titoli sono uno strumento di contenimento del costo del debito pubblico sostenuto dai governi, ovvero il principale strumento attraverso cui è stata garantita la stabilità finanziaria dell’area euro negli ultimi dieci anni.

Per avere un’idea più concreta di cosa significhi questo, guardiamo agli effetti sul costo del debito pubblico italiano del contesto di politica monetaria degli ultimi dieci anni, caratterizzato da tassi di interesse al limite minimo e acquisti diretti di titoli di Stato da parte della banca centrale: il costo medio all’emissione dei titoli del debito pubblico italiano è passato dal 3,61% del 2011 allo 0,1% del 2021. Da luglio, però, si volta pagina.

Proprio mentre decide di aumentare i tassi di interesse, con l’annuncio di giovedì la BCE termina l’APP, mettendo fine all’acquisto di ulteriori titoli pubblici europei sui mercati finanziari. Questa specificazione, “ulteriori”, è fondamentale per comprendere la mossa dell’autorità monetaria europea. Infatti, la banca centrale ha annunciato la fine degli acquisti netti, ma non degli acquisti lordi: non verranno più comprati nuovi titoli di Stato europei, ma quelli acquistati nell’ultimo decennio resteranno nei conti della BCE e, alla scadenza saranno reinvestiti sempre nell’acquisto di titoli di Stato, in modo da mantenere inalterata la quantità di titoli pubblici europei detenuta dall’autorità monetaria. Questo dettaglio è fondamentale perché, nel decennio di acquisti netti positivi la BCE ha accumulato, tra APP e PEPP, circa 4.500 miliardi di euro di debito pubblico dei paesi europei. Per provare a dare maggiore concretezza a queste cifre astronomiche, proviamo a concentrare l’attenzione sull’Italia: vi sono oggi in circolazione 2.300 miliardi di euro di titoli del debito pubblico italiano di cui 727 miliardi, cioè il 31,6%, detenuto dalla BCE in virtù degli acquisti effettuati tramite i due principali programmi, APP (448 miliardi) e PEPP (279 miliardi). In altre parole, attraverso acquisti diretti sui mercati finanziari, la BCE è giunta a detenere un terzo del debito pubblico dell’Italia e, analogamente, dei principali Paesi europei. Per fare cosa?

Con la fine degli acquisti netti decretata dalla BCE, questo patrimonio di circa 4.500 miliardi di euro di debito pubblico dei paesi dell’area euro smetterà di crescere ma non inizierà a diminuire, e resterà nella pancia della banca centrale. Con un’importante, ulteriore, specificazione: la composizione di questa massa di titoli pubblici potrà variare secondo logiche che la stessa banca centrale si riserva di definire nel prossimo futuro. In sostanza, la BCE si impegna a tenere in pancia titoli del debito pubblico di tutti i paesi europei per un ammontare pari a 4.500 miliardi di euro, ma si tiene la libertà di scegliere la composizione di questi 4.500 miliardi. Se da una parte, quindi, gli acquisti netti dell’area euro presa nel suo complesso non varieranno, potranno cambiare gli acquisti netti che la BCE farà in relazione ai titoli del debito pubblico dei singoli paesi. Infatti, potrà tranquillamente decidere di diminuire i 727 miliardi di debito italiano per comprare, ad esempio, più titoli tedeschi, portoghesi e spagnoli. E proprio qui veniamo al nodo della questione, al punto politico di maggiore attualità, ossia come la stabilità finanziaria di un paese poi influenza la sua stabilità politica.

Infatti, quando discutiamo della composizione dei titoli di Stato detenuti dalla BCE stiamo discutendo del potere che quella montagna di titoli conferisce alla banca centrale nel determinare la stabilità o l’instabilità finanziaria di singoli Paesi dell’area euro. Non appena la banca centrale deciderà di modificare l’attuale composizione del suo patrimonio di titoli pubblici, potrà acquistare nuovi titoli pubblici di un Paese solo con i proventi derivanti dal disinvestimento dei titoli pubblici di un altro Paese. Abbiamo detto che l’acquisto di titoli pubblici da parte della banca centrale è una straordinaria arma di contenimento del costo del debito pubblico di un Paese; esattamente alla stessa maniera, la vendita di titoli pubblici detenuti dalla banca centrale è una straordinaria arma di aumento del costo del debito pubblico, e può innescare una spirale nei tassi di interesse capace di far saltare la stabilità finanziaria di qualsiasi Paese dell’area euro. È l’ormai nota dinamica degli spread, che fotografano esattamente la distanza che separa i tassi di interesse sui diversi debiti pubblici. Quando la BCE tira la coperta, lascia alcuni Paesi in balia dei mercati finanziari, e per questa ragione vedremo allargarsi i divari tra i tassi dei Paesi che restano al sicuro, sotto l’ombrello della banca centrale, e quelli scoperti e vulnerabili.

Per dare contenuto a questi ragionamenti proviamo, di nuovo, a guardare agli effetti sull’Italia di questa politica monetaria. Rispetto ad un anno fa, il rendimento dei BTP a 10 anni (i titoli maggiormente rappresentativi del debito pubblico italiano) è passato dallo 0,7% all’odierno 3,9%. Si potrebbe pensare che questo sia solo l’effetto sui mercati finanziari della prospettiva di aumento dei tassi di interesse annunciato dalla BCE. Basta volgere lo sguardo verso Berlino per capire che così non è, e che accanto alla tendenza generalizzata all’aumento dei tassi di interesse della BCE rilevano, nel contesto attuale, le scelte adottate dalla banca centrale in tema di acquisti diretti di titoli. Infatti, anche il rendimento dei bund decennali, gli omologhi tedeschi dei nostri BTP a 10 anni, è aumentato nell’ultimo anno, ma in misura sensibilmente minore, passando dal terreno negativo del -0,3% all’attuale 1,5%. Lo spread tra il tasso italiano e quello tedesco ci permette di cogliere all’istante il punto, perché vediamo che è passato, in un anno, da 100 punti base a 240 punti base, più che raddoppiando.

Insomma, i tassi di interesse sono aumentati per tutti, ma non per tutti i Paesi alla stessa maniera. Ci sono alcuni Paesi, tra cui la Germania, che soffrono meno l’aumento dei tassi mentre altri, tra cui l’Italia, risultano maggiormente esposti al rialzo. Questa maggiore o minore vulnerabilità ai capricci dei mercati finanziari dipende anche dal grado di protezione del debito pubblico garantito dall’autorità monetaria. Con la fine degli acquisti netti di titoli da parte della BCE, questa protezione finisce per dipendere esclusivamente dalla composizione del portafoglio di titoli pubblici detenuto dalla banca centrale: da oggi, qualsiasi decisione di disinvestimento dai titoli di Stato di un Paese dell’area euro da parte della BCE equivale alla fine della sua stabilità finanziaria. È proprio alla luce di questo scenario di elevatissima incertezza che assistiamo, già in queste settimane, ad un pronunciato allargamento degli spread: i mercati finanziari stanno semplicemente anticipando quello che è facile aspettarsi, e cioè il progressivo abbandono dei Paesi della periferia dell’area euro alla speculazione da parte della BCE, esattamente come accadde, più di dieci anni fa, con la Grecia. E come nel caso greco, i governi lasciati in balia dei mercati finanziari finiscono tra le braccia delle autorità europee, chiedendo un supporto finanziario che sarà condizionato alle solite riforme liberiste e alla solita rigida applicazione delle misure di austerità che servono a smantellare salari e stato sociale.

Non a caso, negli ultimi giorni si è iniziato a parlare – proprio come avvenne nel 2011 – della necessità di uno “scudo anti-spread” e il 15 giugno la BCE ha annunciato la prossima introduzione di un nuovo strumento. A breve, dunque, conosceremo i dettagli delle condizioni a cui la banca centrale subordinerà i suoi interventi in difesa dei debiti pubblici europei, secondo una dinamica sperimentata in Grecia e replicata in tutta la periferia europea negli anni a seguire. Dunque, la BCE deve decidere cosa chiedere in cambio della tutela della stabilità finanziaria, e la storia ci insegna che chiederà riforme, contenimento dei salari e riduzione della spesa pubblica, ovvero smantellamento dello stato sociale.

La BCE dal volto italiano di Mario Draghi presidiò, dalla torre di Francoforte e con l’arma dello spread, la lunga stagione di governi tecnici e di unità nazionale che hanno scandito la vita politica del nostro Paese negli ultimi due lustri, garantendo la piena compatibilità delle scelte governative con il perimetro politico ultraliberista imposto dalle istituzioni europee in un frangente storico di emersione delle spinte populiste incarnate dal successo elettorale del Movimento Cinque Stelle, che aveva fatto vacillare la stabilità politica del Paese dell’ultimo trentennio. Analogamente, la BCE dal volto francese di Christine Lagarde anticipa di poche ore con una stretta monetaria di portata storica lo smottamento della stabilità politica francese indotto dal successo elettorale di Nupes, la coalizione guidata da Jean-Luc Mélenchon, lanciando un messaggio chiarissimo ai mercati finanziari. Nell’istante in cui le scelte politiche di un Paese dovessero virare rispetto alla linea definita a Bruxelles, la sua stabilità finanziaria sarà compromessa, e con quella la sua tenuta economica e sociale da un lato e la stabilità politica dall’altro. È un ricatto che discende direttamente dall’uso sapiente delle principali leve della politica monetaria da parte di una classe dirigente che è pronta a tutto per difendere gli interessi di pochi dalla rivendicazione di maggiore giustizia sociale gridata nelle urne dal popolo francese e riecheggiata in ogni angolo d’Europa in cui la popolazione soffre precarietà, disoccupazione e fratture sociali che, dopo la pandemia e con la guerra in casa, continuano ad allargarsi.

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