Stime della Fao, della Banca mondiale e della National Geographic Society fotografano uan grande malattia. Da alcune settimane al centro delle discussioni di scienziati, ex Capi di Stato ed ex ministri, economisti, giuristi e organizzazioni non governative, riunite in un nuovo organismo indipendente, la Global Ocean Commission.
L’80 per cento delle riserve di pesce sfruttate fino a raggiungere o superare il loro livello massimo di sostenibilità, con il rischio estinzione per
molte specie. Più di 400 zone morte, che coprono una superficie pari a
250mila chilometri quadrati, dove la maggior parte degli organismi
marini non riesce più a sopravvivere. Il 35 per cento delle foreste di mangrovie e il 20 per cento delle barriere coralline distrutte
a causa dell’urbanizzazione delle coste. Sono le cifre che raccontano
di un malato grave: l’oceano. Stime della Fao, della Banca mondiale e
della National Geographic Society (schematizzate in questo grafico),
da alcune settimane al centro delle discussioni di scienziati, ex Capi
di Stato ed ex ministri, economisti, giuristi e organizzazioni non
governative, riunite in un nuovo organismo indipendente, la Global Ocean Commission. Un gruppo di studio che nei prossimi mesi dovrà formulare delle proposte, da sottoporre nel 2014 all’attenzione dell’Assemblea generale dell’Onu,
per invertire lo stato di degrado in cui versano gli oceani e fermare
la corsa allo sfruttamento indiscriminato delle loro risorse naturali.
Insediatasi lo scorso 12 febbraio sotto la guida di José María Figueres, ex presidente del Costa Rica, Trevor Manuel, dello staff della Presidenza del Sudafrica e David Miliband, ex
ministro degli Esteri britannico, la commissione si è data appuntamento
in questi giorni a Cape Town, in Sudafrica, per il suo meeting
inaugurale. “In questo primo incontro di lavoro abbiamo ascoltato il
parere di molti esperti e discusso dei principali problemi degli oceani –
afferma Trevor Manuel, a fare gli onori di casa -. Nessuno di noi è
stupido abbastanza da pensare che sarà semplice delineare un futuro per
la salute e la salvaguardia dei nostri oceani. Ma al punto in cui ci
troviamo non è azzardato affermare che la situazione può solo
migliorare”. Gli fa eco David Miliband: “La commissione produrrà solo
proposte capaci di tradursi in azioni concrete. Ho fatto parte di
numerose commissioni e ho, pertanto, imparato a mie spese – precisa l’ex
responsabile della politica estera inglese – che quando i gruppi di
studio producono troppe raccomandazioni vuol dire che hanno fallito nel
compito per cui erano stati creati”.
Molte sono le questioni aperte, a partire dall’inquinamento degli
ecosistemi marini. Come dimostra la cosiddetta “Isola dei rifiuti”, una
discarica nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico, formatasi negli anni
grazie alle correnti, la cui estensione non è nota con precisione – si
stima che le sue dimensioni oscillino tra quelle della penisola Iberica e
l’intera superficie degli Stati Uniti -. Eppure solo il due per cento
della superficie degli oceani costituisce un area marina protetta,
contro il dodici per cento delle corrispondenti regioni terrestri.
Non si tratta solo di rivendicazioni ambientaliste. La salvaguardia degli oceani e della loro biodiversità ha profonde ricadute economiche e sociali. “Noi tutti dipendiamo dagli oceani – sottolinea José María Figueres -. Che ci danno cibo, ossigeno e catturano l’anidride carbonica responsabile
del surriscaldamento del pianeta”. Basta scorrere alcuni dati della Fao
o della Banca Mondiale. Gli oceani, che coprono il 71 per cento della
superficie della Terra, hanno, infatti, un ruolo fondamentale nella regolazione globale del clima. Assorbono calore, catturano un quarto dell’anidride carbonica
emessa dalle attività dell’uomo – una quantità cinque volte superiore a
quella delle foreste tropicali – e liberano quasi la metà dell’ossigeno
che respiriamo. Per un miliardo di persone che vivono nei paesi in via
di sviluppo, inoltre, la pesca rappresenta la fonte primaria di proteine. Il ricavato del commercio di pesce per i paesi in via di sviluppo è pari a circa 25 miliardi di dollari l’anno,
due volte quello del caffè. Solo dalla pesca e commercializzazione del
tonno derivano, ad esempio, dieci miliardi d’introiti e nove
dall’ecoturismo subacqueo. Sono 85 le nazioni coinvolte nel commercio
internazionale di pesce, stimato complessivamente in 102 miliardi di
dollari l’anno e 350 milioni i posti di lavoro legati alla salute degli
oceani.
“Sfortunatamente, però, molte evidenze scientifiche
dimostrano che la pressione dell’uomo sugli oceani è in continua
crescita. Basti pensare alla pesca illegale o all’incremento delle
emissioni di anidride carbonica che rende le acque più acide – denuncia
José María Figueres -. La salute degli oceani rappresenta sia un
imperativo etico che un’opportunità economica. Si tratta di una
questione di cui è assolutamente necessario interessarci, se vogliamo
che i nostri figli e i nostri nipoti ottengano da essi gli stessi
benefici di cui ha goduto la nostra generazione”.
La commissione si occuperà delle acque internazionali,
il 45 per cento circa della superficie del pianeta, che non rientrano
nella giurisdizione dei Governi, ma sono soggette alla cosiddetta “Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare”
nata trent’anni fa allo scopo di definire i diritti e le responsabilità
degli Stati nell’utilizzo dei mari e degli oceani. Un trattato che,
secondo gli esperti, però, a causa dello sviluppo tecnologico non sempre
ha frenato lo sfruttamento delle risorse naturali. Ne è un esempio la
corsa che si è aperta negli ultimi anni tra i Paesi che si affacciano
sul Circolo polare artico, Usa e Russia su
tutti, per il controllo e l’estrazione delle riserve energetiche rese
accessibili dal progressivo scioglimento dei ghiacciai a causa dei
mutamenti climatici. “Il trattato delle Nazioni Unite è stato un grande
successo – spiega Miliband -, ma adesso abbiamo bisogno di una nuova
governance, che guidi gli obiettivi indicati trent’anni fa adattandoli
agli scenari attuali”.
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