di Michele Giorgio
La “rassicurazione” il segretario alla difesa Ashton Carter l’aveva data in anticipo, prima di atterrare domenica sera a Tel Aviv, mettendo
in chiaro che l’accordo sul nucleare iraniano, approvato ieri anche dal
Consiglio di Sicurezza dell’Onu, non pone alcun limite agli Usa o ai
suoi alleati. «Una delle ragioni per cui questo è un buon
accordo è che non fa nulla per evitare l’opzione militare, che noi
preserviamo – aveva detto Carter – l’obiettivo però dell’intesa
di Vienna è che l’Iran non abbia nessuna arma nucleare senza che sia
necessario effettuare un attacco militare». In poche parole,
gli Usa non negheranno a Israele la possibilità di colpire l’Iran, anche
se non sono chiari i margini entro i quali gli israeliani avranno campo
libero per lanciare un attacco. Amaro il commento giunto dal ministro degli esteri iraniano Javad Zarif, protagonista dell’accordo sul nucleare. «In
un momento in cui il mondo considera quell’accordo la vittoria della
diplomazia sulla guerra e la violenza, sfortunatamente ci sono ancora
persone che parlano di un illegittimo uso della forza per raggiungere i
loro illusori obiettivi», ha detto.
Il governo israeliano ha riservato ad Ashton Carter grandi accoglienze.
Il segretario alla difesa non è uno dei tanti amici di Israele
nell’Amministrazione. Ai vertici dell’esecutivo statunitense è il più
accanito sostenitore delle politiche del governo Netanyahu.
Ieri il suo omologo israeliano, Moshe Yaalon, lo ha portato al confine
nord che Tel Aviv considera controllato, sul versante libanese,
dall’Iran attraverso l’alleato movimento sciita Hezbollah. Yaalon ha
ribadito che sull’accordo di Vienna restano con gli Stati Uniti profonde
divergenze ma ha aggiunto di considerare Carter un «grande amico», che
di preferenza «agisce dietro le quinte». Da parte sua il segretario alla
difesa, sorridente e rilassato, ha assicurato che «i rapporti
fra Stati Uniti ed Israele non sono mai stati migliori… Continueremo a
vedere in Israele un alleato stretto e a fornirgli quanto necessita per
difendersi». Infine il regalo annunciato. «Israele sarà l’unico fra i nostri alleati (in Medio Oriente) a ricevere gli aerei F35».
Gli Usa, ha aggiunto, continueranno a sostenere il progetto delle
batterie antirazzi Iron Dome e forniranno ad Israele missili balistici.
Ma non finisce qui. Nei prossimi giorni, riferisce
Israel HaYom, il quotidiano più vicino a Netanyahu, partirà per gli
Stati Uniti il direttore generale del ministero della difesa Dan Harel, incaricato di ridiscutere il
pacchetto di aiuti annuali Usa a Israele da 3 miliardi di dollari (in
buona parte per l’acquisto di armi di ultima generazione) che scadrà nel
2017 e delle centinaia di milioni di dollari che Washington investe
nella ricerca militare di Tel Aviv, specie nel campo della difesa
antimissile. Fondi destinati, con ogni probabilità, a lievitare ulteriormente. Ingenti
forniture di armi, ma meno avanzate di quelle garantite a Israele,
saranno promesse da Carter anche ad Arabia Saudita e Giordania, gli
altri due alleati scontenti (ma in modi diversi) dall’accordo con
Tehran.
Le promesse e le assicurazioni di Carter a Israele non fermano Netanyahu
che, secondo la stampa locale, vorrebbe dare la precedenza, almeno per
il momento, non a maggiori forniture di armi ma a una lotta politica
serrata proprio negli Stati Uniti per bloccare quegli accordi.
In sostanza vorrebbe discutere più in avanti del “pacchetto di aiuti”
annunciato dal segretario alla difesa – i due si vedranno oggi –, per
evitare che la campagna al Congresso perda quota. Un azzardo secondo i
vertici della difesa perché se Israele perderà, come è probabile, il
confronto nel parlamento americano, i nuovi aiuti militari potrebbero
essere meno sostanziosi. Per Netanyahu però è anche una questione
personale, ha un conto aperto con Barack Obama, ormai da anni, e
l’accordo di Vienna per lui è una “linea rossa” oltrepassata. Le associazioni pro Israele negli States, a cominciare dalla potente Aipac, perciò sono scese in campo a pieno ritmo. Domani a New York è previsto il raduno “Stop Iran”. Migliaia di persone, anche straniere, mobilitate da più di 100 organizzazioni, chiederanno che il Congresso voti contro le intese. Interverranno tra gli altri l’ex direttore della Cia James Woolsey, il professore universitario di destra Alan Dershowitz, il leader di Cristiani Uniti per Israele David Brog e, immancabile in queste occasioni, il colonnello Richard Kemp, ex comandante delle forze britanniche in Afghanistan.
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