di Michele Paris
I più recenti
dati sullo stato dei finanziamenti delle campagne elettorali dei
candidati alle presidenziali negli Stati Uniti per il 2016 hanno
confermato il netto dominio dei grandi donatori assieme al ruolo
decisivo svolto da organizzazioni che appoggiano “esternamente” i
singoli aspiranti alla nomination dei due partiti. La competizione per
succedere a Barack Obama sarà così con ogni probabilità la più costosa
della storia americana, con un livello di spesa complessivo stimato dai
media d’oltreoceano pari a non meno di dieci miliardi di dollari, ovvero
circa il 40% in più rispetto al ciclo elettorale del 2012.
La
candidata che, al secondo trimestre dell’anno, ha incassato la cifra
maggiore in donazioni è stata Hillary Clinton con 45 milioni di dollari.
Il primato dell’ex segretario di Stato è però limitato al denaro
raccolto dalla sua organizzazione, mentre se si considerano sia i fondi
raccolti direttamente dai candidati sia quelli che affluiscono alle
cosiddette “Super PACs”, ovvero strutture nominalmente indipendenti ma
che operano in favore di un determinato candidato, gli equilibri
appaiono differenti.
In questo caso, a dominare la scena è il
favorito repubblicano, Jeb Bush, il quale ha attualmente in dotazione
più di 114 milioni di dollari, dei quali ben 103 raccolti dalla Super
PAC che lo appoggia, “Right to Rise USA”. Nel caso di Hillary, la Super
PAC affiliata alla sua candidatura - “Priorities USA Action” - ha finora
raccolto “solo” 15,6 milioni, anche se, a detta del suo staff, la
previsione è di mettere assieme una cifra tra i 200 e i 300 milioni di
dollari.
Il predominio di Jeb Bush e Hillary Clinton nella
raccolta fondi è dovuto principalmente ai legami familiari e politici
delle due dinastie a cui i candidati appartengono con le élites
economiche americane. I candidati in casa democratica e repubblicana che
seguono i due “front-runner” risultano infatti molto lontani in termini
di finanziamenti ottenuti. Nel primo caso, il senatore del Vermont,
Bernie Sanders, ha in mano 15 milioni di dollari e il senatore
repubblicano del Texas, Ted Cruz, poco più di 52 milioni.
Il
divario tra il denaro raccolto direttamente dalle proprie organizzazioni
e dalle rispettive Super PACs risulta cruciale per delineare il profilo
dei candidati. Secondo le norme che regolano i finanziamenti elettorali
negli Stati Uniti, durante il ciclo delle primarie ogni singolo
donatore può versare un massimo di 2.700 dollari direttamente a un
candidato, ma le Super PACs possono raccogliere donazioni virtualmente
illimitate. Il vantaggio delle Super PACs nella raccolta fondi evidenzia
dunque la prevalenza di finanziatori benestanti che possono staccare
sostanziosi assegni praticamente senza limiti.
Ciò è il risultato
della decisiva sentenza della Corte Suprema USA del 2010 nel caso
“Citizens United contro Commissione Elettorale Federale” che ha
cancellato ogni limite alle donazioni di privati e corporation alle
Super PACs dei candidati a pubblici uffici. Questa decisione ha
determinato un ulteriore aumento dell’influenza dei poteri forti sul
processo politico negli Stati Uniti ed è stata seguita nell’aprile del
2014 da un’altra sentenza che va in questa direzione, poiché ha abolito
il limite complessivo di 123 mila dollari che ogni donatore può
destinare a candidati e partiti durante ogni ciclo elettorale.
Per
quanto riguarda Jeb Bush, perciò, il suo successo nella raccolta fondi è
dovuto in larga misura alla generosità di un numero relativamente
ristretto di milionari e miliardari che hanno donato cifre enormi. La
stessa Hillary Clinton, peraltro, nonostante la sua campagna prosegua la
tendenza dei candidati democratici nel fare meno affidamento sulle
Super PACs rispetto a quelli repubblicani, non sembra poter contare su
una mobilitazione massiccia di piccoli donatori.
Del denaro
finora elargito direttamente alla campagna della favorita democratica,
solo il 17% è venuto da sostenitori che hanno donato un massimo di 200
dollari, mentre il 65% è giunto da potenziali elettori, evidentemente
facoltosi, che hanno donato il massimo previsto per legge di 2.700
dollari.
Ancora più irrisoria è la quota di denaro ottenuta da
Jeb Bush dai piccoli donatori che si possono permettere meno di 200
dollari, ovvero il 3%, contro oltre l’80% di sostenitori che hanno già
raggiunto il limite federale.
Per
Hillary Clinton e, soprattutto, per Jeb Bush, il profilo dei donatori
appare tutt’altro che sorprendente. Entrambi appartengono a dinastie
politiche ampiamente screditate, se non apertamente disprezzate, tra
lavoratori e classe media negli Stati Uniti. Il loro status di favoriti e
il successo nell’ambito della raccolta fondi a meno di sei mesi
dall’inizio delle primarie è determinato perciò dalla possibilità di
ottenere valanghe di denaro da pochi donatori con cui essi stessi o i
loro familiari hanno stabilito proficui rapporti nel corso degli anni.
A
fare affidamento su una manciata di ricchi finanziatori, quando non
addirittura su un singolo benefattore, sono in ogni caso quasi tutti i
numerosi candidati alla nomination, in particolare nel Partito
Repubblicano.
Oscuri e spesso impopolari personaggi politici
hanno così a disposizione decine di milioni di dollari per correre
teoricamente per la Casa Bianca e ottenere ampio spazio sui media
nazionali. Tra i repubblicani, dopo Jeb Bush, il candidato con il
maggiore successo nel “fundraising” al 30 giugno scorso è Ted Cruz, con
in mano un totale di 52,2 milioni, di cui 38 milioni (73%) raccolti
dalla sua Super PAC.
A seguire c’è un altro senatore
cubano-americano ma della Florida, Marco Rubio, il quale ha basato la
sua corsa alla nomination, come praticamente tutta la sua carriera
politica, sul sostegno dell’imprenditore miliardario Norman Braman.
Rubio ha attualmente in mano quasi 44 milioni di dollari, 32 dei quali
(73%) a disposizione della sua Super PAC e di una organizzazione
“no-profit” che lo appoggia.
Ancora più eclatante è il modo in
cui risultano determinanti i ricchi donatori per Rick Perry, l’ex
governatore ultra-reazionario del Texas, già candidato alla Casa Bianca
nel 2012, quando fu costretto ad abbandonare miseramente la corsa in
seguito a una serie di gaffe e al sostegno praticamente nullo
riscontrato anche tra le frange più estreme del Partito Repubblicano.
Perry
ha raccolto direttamente per la sua campagna appena 1,1 milioni di
dollari, ma tre Super PACs a lui affiliate hanno messo assieme quasi 17
milioni, cioè il 94% del totale dei contributi ottenuti finora.
Gli
unici casi di candidati che hanno ottenuto almeno un limitato successo
tra gli elettori comuni sono il democratico Bernie Sanders e, in misura
minore, i repubblicani Rand Paul e Ben Carson. L’entusiasmo generato dal
primo, veterano del Congresso nominalmente indipendente e talvolta
auto-definitosi “democratico-socialista”, testimonia del desiderio tra
la popolazione americana di un’alternativa realmente progressista
all’attuale sistema politico dominato dai grandi interessi
economico-finanziari.
Sanders, tuttavia, oltre ai suoi
orientamenti non esattamente rivoluzionari, ha scelto di incanalare la
voglia di cambiamento diffusa negli Stati Uniti verso il vicolo cieco
del Partito Democratico. Ad ogni modo, l’unico vero rivale di Hillary
non ha per il momento nessuna Super PAC che lo appoggia e i 15 milioni a
sua disposizione sono giunti da piccole donazioni indirizzate
direttamente all’organizzazione coordinata dal suo staff.
Il
poco conosciuto Ben Carson ha un qualche seguito on-line tra i
repubblicani, anche perché si presenta come una sorta di outsider,
essendo un neurochirurgo e non un politico di professione. Nonostante
ottenga attenzioni decisamente minori dai media nazionali, Carson ha
raccolto in maniera diretta più di 10 milioni di dollari, praticamente
la stessa cifra ottenuta senza l’aiuto delle Super PACs dal favorito Jeb
Bush.
Il senatore del Kentucky di tendenze libertarie Rand Paul,
infine, è attestato a 7 milioni di dollari dopo il secondo trimestre
del 2015. Paul ha in realtà due Super PACs che lo sostengono ma non
hanno ancora presentato i loro bilanci alla Commissione Elettorale
Federale. A suo vantaggio ci sono soprattutto le campagne condotte negli
ultimi anni contro l’invadenza dell’apparato di governo nella privacy
degli americani, anche se gli attacchi al sistema portati da Paul
vengono in gran parte da destra.
I numeri provvisori relativi ai
finanziamenti elettorali negli Stati Uniti confermano dunque la realtà
di un sistema politico totalmente bloccato, imperniato sullo strapotere
dei ricchi americani, in grado di decidere successi e insuccessi dei
candidati di entrambi gli schieramenti.
In questo scenario, è
poco sorprendente che la metà o più degli americani non si rechi alle
urne nemmeno in occasione di elezioni che attraggono un interesse
smisurato da parte dei media, come le presidenziali. A determinare
l’identità dei contendenti è infatti quasi sempre soltanto il denaro,
mentre la scelta degli elettori, alla fine, si riduce a essere tra
candidati virtualmente indistinguibili e al servizio dei poteri che
hanno promosso e reso vincenti le loro costosissime campagne elettorali.
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