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21/07/2015

USA 2016, i ricchi aprono il portafogli

di Michele Paris

I più recenti dati sullo stato dei finanziamenti delle campagne elettorali dei candidati alle presidenziali negli Stati Uniti per il 2016 hanno confermato il netto dominio dei grandi donatori assieme al ruolo decisivo svolto da organizzazioni che appoggiano “esternamente” i singoli aspiranti alla nomination dei due partiti. La competizione per succedere a Barack Obama sarà così con ogni probabilità la più costosa della storia americana, con un livello di spesa complessivo stimato dai media d’oltreoceano pari a non meno di dieci miliardi di dollari, ovvero circa il 40% in più rispetto al ciclo elettorale del 2012.

La candidata che, al secondo trimestre dell’anno, ha incassato la cifra maggiore in donazioni è stata Hillary Clinton con 45 milioni di dollari. Il primato dell’ex segretario di Stato è però limitato al denaro raccolto dalla sua organizzazione, mentre se si considerano sia i fondi raccolti direttamente dai candidati sia quelli che affluiscono alle cosiddette “Super PACs”, ovvero strutture nominalmente indipendenti ma che operano in favore di un determinato candidato, gli equilibri appaiono differenti.

In questo caso, a dominare la scena è il favorito repubblicano, Jeb Bush, il quale ha attualmente in dotazione più di 114 milioni di dollari, dei quali ben 103 raccolti dalla Super PAC che lo appoggia, “Right to Rise USA”. Nel caso di Hillary, la Super PAC affiliata alla sua candidatura - “Priorities USA Action” - ha finora raccolto “solo” 15,6 milioni, anche se, a detta del suo staff, la previsione è di mettere assieme una cifra tra i 200 e i 300 milioni di dollari.

Il predominio di Jeb Bush e Hillary Clinton nella raccolta fondi è dovuto principalmente ai legami familiari e politici delle due dinastie a cui i candidati appartengono con le élites economiche americane. I candidati in casa democratica e repubblicana che seguono i due “front-runner” risultano infatti molto lontani in termini di finanziamenti ottenuti. Nel primo caso, il senatore del Vermont, Bernie Sanders, ha in mano 15 milioni di dollari e il senatore repubblicano del Texas, Ted Cruz, poco più di 52 milioni.

Il divario tra il denaro raccolto direttamente dalle proprie organizzazioni e dalle rispettive Super PACs risulta cruciale per delineare il profilo dei candidati. Secondo le norme che regolano i finanziamenti elettorali negli Stati Uniti, durante il ciclo delle primarie ogni singolo donatore può versare un massimo di 2.700 dollari direttamente a un candidato, ma le Super PACs possono raccogliere donazioni virtualmente illimitate. Il vantaggio delle Super PACs nella raccolta fondi evidenzia dunque la prevalenza di finanziatori benestanti che possono staccare sostanziosi assegni praticamente senza limiti.

Ciò è il risultato della decisiva sentenza della Corte Suprema USA del 2010 nel caso “Citizens United contro Commissione Elettorale Federale” che ha cancellato ogni limite alle donazioni di privati e corporation alle Super PACs dei candidati a pubblici uffici. Questa decisione ha determinato un ulteriore aumento dell’influenza dei poteri forti sul processo politico negli Stati Uniti ed è stata seguita nell’aprile del 2014 da un’altra sentenza che va in questa direzione, poiché ha abolito il limite complessivo di 123 mila dollari che ogni donatore può destinare a candidati e partiti durante ogni ciclo elettorale.

Per quanto riguarda Jeb Bush, perciò, il suo successo nella raccolta fondi è dovuto in larga misura alla generosità di un numero relativamente ristretto di milionari e miliardari che hanno donato cifre enormi. La stessa Hillary Clinton, peraltro, nonostante la sua campagna prosegua la tendenza dei candidati democratici nel fare meno affidamento sulle Super PACs rispetto a quelli repubblicani, non sembra poter contare su una mobilitazione massiccia di piccoli donatori.

Del denaro finora elargito direttamente alla campagna della favorita democratica, solo il 17% è venuto da sostenitori che hanno donato un massimo di 200 dollari, mentre il 65% è giunto da potenziali elettori, evidentemente facoltosi, che hanno donato il massimo previsto per legge di 2.700 dollari.

Ancora più irrisoria è la quota di denaro ottenuta da Jeb Bush dai piccoli donatori che si possono permettere meno di 200 dollari, ovvero il 3%, contro oltre l’80% di sostenitori che hanno già raggiunto il limite federale.

Per Hillary Clinton e, soprattutto, per Jeb Bush, il profilo dei donatori appare tutt’altro che sorprendente. Entrambi appartengono a dinastie politiche ampiamente screditate, se non apertamente disprezzate, tra lavoratori e classe media negli Stati Uniti. Il loro status di favoriti e il successo nell’ambito della raccolta fondi a meno di sei mesi dall’inizio delle primarie è determinato perciò dalla possibilità di ottenere valanghe di denaro da pochi donatori con cui essi stessi o i loro familiari hanno stabilito proficui rapporti nel corso degli anni.

A fare affidamento su una manciata di ricchi finanziatori, quando non addirittura su un singolo benefattore, sono in ogni caso quasi tutti i numerosi candidati alla nomination, in particolare nel Partito Repubblicano.

Oscuri e spesso impopolari personaggi politici hanno così a disposizione decine di milioni di dollari per correre teoricamente per la Casa Bianca e ottenere ampio spazio sui media nazionali. Tra i repubblicani, dopo Jeb Bush, il candidato con il maggiore successo nel “fundraising” al 30 giugno scorso è Ted Cruz, con in mano un totale di 52,2 milioni, di cui 38 milioni (73%) raccolti dalla sua Super PAC.

A seguire c’è un altro senatore cubano-americano ma della Florida, Marco Rubio, il quale ha basato la sua corsa alla nomination, come praticamente tutta la sua carriera politica, sul sostegno dell’imprenditore miliardario Norman Braman. Rubio ha attualmente in mano quasi 44 milioni di dollari, 32 dei quali (73%) a disposizione della sua Super PAC e di una organizzazione “no-profit” che lo appoggia.

Ancora più eclatante è il modo in cui risultano determinanti i ricchi donatori per Rick Perry, l’ex governatore ultra-reazionario del Texas, già candidato alla Casa Bianca nel 2012, quando fu costretto ad abbandonare miseramente la corsa in seguito a una serie di gaffe e al sostegno praticamente nullo riscontrato anche tra le frange più estreme del Partito Repubblicano.

Perry ha raccolto direttamente per la sua campagna appena 1,1 milioni di dollari, ma tre Super PACs a lui affiliate hanno messo assieme quasi 17 milioni, cioè il 94% del totale dei contributi ottenuti finora.

Gli unici casi di candidati che hanno ottenuto almeno un limitato successo tra gli elettori comuni sono il democratico Bernie Sanders e, in misura minore, i repubblicani Rand Paul e Ben Carson. L’entusiasmo generato dal primo, veterano del Congresso nominalmente indipendente e talvolta auto-definitosi “democratico-socialista”, testimonia del desiderio tra la popolazione americana di un’alternativa realmente progressista all’attuale sistema politico dominato dai grandi interessi economico-finanziari.

Sanders, tuttavia, oltre ai suoi orientamenti non esattamente rivoluzionari, ha scelto di incanalare la voglia di cambiamento diffusa negli Stati Uniti verso il vicolo cieco del Partito Democratico. Ad ogni modo, l’unico vero rivale di Hillary non ha per il momento nessuna Super PAC che lo appoggia e i 15 milioni a sua disposizione sono giunti da piccole donazioni indirizzate direttamente all’organizzazione coordinata dal suo staff.

Il poco conosciuto Ben Carson ha un qualche seguito on-line tra i repubblicani, anche perché si presenta come una sorta di outsider, essendo un neurochirurgo e non un politico di professione. Nonostante ottenga attenzioni decisamente minori dai media nazionali, Carson ha raccolto in maniera diretta più di 10 milioni di dollari, praticamente la stessa cifra ottenuta senza l’aiuto delle Super PACs dal favorito Jeb Bush.

Il senatore del Kentucky di tendenze libertarie Rand Paul, infine, è attestato a 7 milioni di dollari dopo il secondo trimestre del 2015. Paul ha in realtà due Super PACs che lo sostengono ma non hanno ancora presentato i loro bilanci alla Commissione Elettorale Federale. A suo vantaggio ci sono soprattutto le campagne condotte negli ultimi anni contro l’invadenza dell’apparato di governo nella privacy degli americani, anche se gli attacchi al sistema portati da Paul vengono in gran parte da destra.

I numeri provvisori relativi ai finanziamenti elettorali negli Stati Uniti confermano dunque la realtà di un sistema politico totalmente bloccato, imperniato sullo strapotere dei ricchi americani, in grado di decidere successi e insuccessi dei candidati di entrambi gli schieramenti.

In questo scenario, è poco sorprendente che la metà o più degli americani non si rechi alle urne nemmeno in occasione di elezioni che attraggono un interesse smisurato da parte dei media, come le presidenziali. A determinare l’identità dei contendenti è infatti quasi sempre soltanto il denaro, mentre la scelta degli elettori, alla fine, si riduce a essere tra candidati virtualmente indistinguibili e al servizio dei poteri che hanno promosso e reso vincenti le loro costosissime campagne elettorali.

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