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18/07/2015

Consigli (o sconsigli) per gli acquisti: La sinistra assente di Domenico Losurdo

Da qualche mese è in libreria un testo, l’ultimo lavoro di Losurdo, capace sin dal titolo di chiarire un concetto ed esprimere una posizione. Di fronte agli sconvolgimenti internazionali in atto dalla caduta del muro di Berlino in avanti, il multiforme campo della politica ha visto il dileguarsi della sinistra, di una sinistra capace di rappresentare un’alternativa politica contendendo all’immaginario capitalista l’orizzonte dello sviluppo. Si potrebbe obiettare che la fine dello schema bipolare partorito dal secondo dopoguerra abbia complicato il quadro dei riferimenti internazionali, lasciando analisti e opzioni politiche in mezzo ad un mare in tempesta e senza porti sicuri. Il ventennio appena trascorso smentisce però questa presunta “multiformità”, questa apparente incomprensibilità di fondo dei principali eventi internazionali. Dalla prima guerra in Iraq in avanti, lo schema dell’ingerenza Nato nelle più differenti zone calde del mondo si è ripetuto pedissequamente senza soluzione di continuità e seguendo nei più piccoli particolari sempre lo stesso canovaccio. E’ avvenuto allora un cambio soggettivo interno al campo della sinistra, non uno oggettivo rispetto alla dinamica imperialista. Non si contano più le ingerenze internazionali dell’area Nato nei diversi contesti geopolitici: Iraq, Iran, Jugoslavia, Siria, Libia, Serbia, Ucraina, Afghanistan, Venezuela, Somalia, Georgia, Honduras, Mali e molti altri eccetera. A volte si è ricorso al vecchio metodo del golpe provocato o favorito; altre si è proceduto direttamente con bombardamenti a tappetto e sostituzione del leader o partito problematico; il più delle volte si è articolato un intervento apparentemente indiretto e di soft power volto alla demonizzazione del nemico politico contingente. E’ quest’ultima situazione che ha prodotto contraddizioni a prima vista insanabili nel discorso politico della sinistra. Se le prime due opzioni, quella poliziesca o quella militare, hanno dalla loro una certa efficacia immediata, portano però con sé il problema di compattare un fronte politico avverso. L’opzione militare è efficace quanto drastica e non sempre garantisce quel grado di consenso interno necessario a gestire l’intervento stesso. Meglio, a volte, costruire il consenso adatto al regime change. E tale consenso lo si raggiunge solo coprendosi a sinistra, cioè trasformando l’aggressione in questione umanitaria. E’ qui che si chiarisce il ruolo di quella che Losurdo definisce “sinistra imperiale”, quella sinistra speculare al cristianesimo imperiale dal ‘500 all’800 capace di veicolare le giuste motivazioni dell’espansione colonialista. Tale cristianesimo missionario costruiva quel supporto ideologico necessario a far passare la dinamica colonialista come fattore di progresso. Anche i crimini più efferati commessi nella vicenda coloniale, questa la motivazione di fondo, rappresentavano comunque una tappa del progresso per le popolazioni subalterne, l’avvento di una modernità, traumatica quanto necessaria. Fosse solo la conversione alla chiesa di Roma. Mutatis mutandis, la questione oggi è ancora questa. Per meglio dire, dopo circa un secolo di rottura ideologica verso tale impostazione giustificazionista, siamo tornati alla copertura politica e culturale delle politiche imperialiste. Oggi i missionari cristiani hanno perso il ruolo di cemento ideale tra necessità economiche e logiche spirituali, ma questo ruolo sta venendo ricoperto da una certa sinistra, quella delle Ong, dei diritti umani, dell’antiautoritarismo astratto: la sinistra complice.

Il problema di questa sinistra, e della cultura politica ufficiale nel suo complesso, è l’aver introiettato il modello democratico-liberale quale migliore strumento possibile per la rappresentanza dei diversi interessi politici. Questioni come il “pluralismo”, i “diritti civili”, le “libere elezioni”, il “rispetto delle minoranze”, una “libera informazione”, e via dicendo, sono elevati a indice di democratizzazione di un paese, di un partito o di un leader politico. Scollegata da ogni riferimento socio-economico, la formalità borghese liberale si è imposta come unico metro di giudizio della progressività o meno di una linea politica. Questo è un dato di fatto che crediamo non occorra di spiegazioni esaustive data la sua triste evidenza. Per gli esponenti di questa sinistra democratico-liberale, una definizione che calza non solo al Vendola di turno ma anche a parti importanti dei movimenti radicali, sarà sempre meglio l’Italia della Siria, la Francia rispetto all’Iran, gli Stati Uniti alla Russia. Pur combattendo il sistema politico vigente nel cd “primo mondo”, questo rappresenta un gradino dell’evoluzione in ogni caso più avanzato e democratico dei paesi ancora non modernizzati, quali ad esempio quelli citati. Questa la chiave di volta per la costruzione del consenso imperiale, la giustificazione massima delle guerre umanitarie, delle ingerenze internazionali, delle politiche neo-imperialiste.

L’ingerenza internazionale da qualche tempo assume sempre il medesimo schema, come abbiamo detto, cioè si fa precedere da un convergente movimento massmediatico culturale mainstream volto a dipingere il nemico della Nato come nemico dell’umanità, male assoluto a-politico (non è una questione di destra o sinistra) e anti-umano (contrario allo sviluppo dell’umanità). Attraverso l’attacco concentrico del sistema culturale massificato, il male assoluto è tale perché non rispetterebbe i principi basilari del vivere sociale, cioè non sarebbe conseguente con la formalità liberale delle libere elezioni e della pluralità d’espressione politica. Tanto per dire, anche Chavez, ancora a metà anni Duemila osteggiato da gran parte di questa sinistra imperiale, è divenuto poi un modello accettabile all’ennesima elezione regolare stravinta dal suo partito e dal processo bolivariano. La legittimazione unica e definitiva per questa sinistra non erano ovviamente le politiche sociali portate avanti dal socialismo del XXI secolo o la sua caratterizzazione chiaramente antimperialista, quanto il suo passaggio elettorale che certificava l’ingresso del leader bolivariano nell’alveo della compatibilità democratica.

Se dunque il valore di fondo di questa sinistra diventa il rispetto dei diritti civili e delle formalità istituzionali, risulta facile comprendere il vicolo cieco in cui questa viene spinta sotto la valanga informativa massmediatica volta a dipingere il paese vittima come repressivo di tali diritti. Nonostante le contorsioni ideologiche, alla fine non può che esserci un allineamento, una convergenza. La Nato non sarà il migliore dei mondi possibili, ma certo meglio i paesi atlantici di qualche autocrazia oscurantista. Se poi il paese sottoposto a stress test vede anche la presenza di movimenti di piazza reclamanti più democrazia liberale, ecco che il cortocircuito politico-mentale è completato e l’adesione alla causa ideale dei manifestanti completa.

In questa versione però scompaiono completamente i ruoli storici, le cause e gli effetti, i dominatori e i subalterni, i colonizzati e i colonizzatori, gli schiavi e gli schiavisti. Si assume lo sviluppo storico a partire dal presente, dallo status quo. La povertà di alcuni paesi viene assunta come colpa e non come processo storico determinato da altri paesi, guarda caso proprio da quei paesi che di volta in volta vogliono “ri-ammodernare” un determinato “regime” procedendo a operazioni neo-coloniali. L’assenza di determinati caratteri liberali viene anche qui utilizzata per incolpare il paese in questione, e non derivata dal carattere subalterno che tale paese ha nel sistema dei rapporti internazionali di potere. Per dire, facile lamentarsi contro il monopartitismo cubano se non si ha chiaro in mente che, un minuto dopo l’innesto di una dinamica formalmente “pluralista”, questa vedrebbe la scena politica monopolizzata da soggetti organizzati e finanziati dagli Usa, determinando una sproporzione di accessibilità alla politica tale da produrre quel “cambio di regime” in linea con la formalità liberale.

Questo cerca di dirci Domenica Losurdo. Che anche il peggiore e più retrivo degli Stati eternamente colonizzati non può che trovare da sé la via dell’emancipazione, non tramite l’ingerenza delle strutture poliziesco-militari occidentali. Sembrerebbe un’ovvietà, messa in questi termini, ma così in questi anni non è stato. La richiesta di bombardamenti umanitari in Libia venne in Europa dall’opinione pubblica “di sinistra”, non da quella di destra. E quando parliamo di “sinistra” non ci riferiamo al Pd et similia, ma da chi dissodò il terreno della giustificazione ideologica manifestando contro Gheddafi quando questi era sotto attacco Nato, innalzando la bandiera monarchica di re Idris sotto l’ambasciata libica. O come, in questi tre anni, continua a legittimare da sinistra la caduta di Assad che invece sta avvenendo da destra. Certo per questa sinistra non è importante la direzione del movimento anti-Assad, visto che il mantra della formalità liberale lo pone in ogni caso quale nemico del genere umano, peggiore di qualsiasi peggiore alternativa. Si potrebbe continuare a lungo. Tutti, tutti, i cambi di regime di questi due decenni sono avvenuti da destra, sotto la spinta atlantica e introducendo modelli neoliberisti in territori a diverso grado di capitalismo. Non importa più, perché la storia è sempre al punto zero del presente. Inutile chiedersi cosa ne sia della Croazia e della Serbia, dell’Iraq o della Libia, della Somalia o dell’Afghanistan. L’importante è legittimare la protesta democratica, liberale, antiautoritaria. Se poi oggi sono Stati falliti, esperimenti ordo-liberisti, Stati-mafia, teocrazie filo-atlantiche, importa il giusto: capitalisti erano, capitalisti rimangono, in un gioco a somma zero dove ogni espressione del capitalismo è uguale a se stessa.

Veniamo però ai limiti di un lavoro come questo. La prima cosa, è che la chiave interpretativa adottata riduce il capitalismo a rapporto/scontro tra entità statuali. Non va minimizzato questo fatto ma non va neanche assolutizzato. In primo luogo, il capitalismo è un rapporto sociale, in quanto tale presente nei contesti produttivi, nei rapporti di produzione. Non basta autodefinirsi socialisti, come nel caso cinese, per garantire la trasformazione di quel rapporto e della proprietà dei mezzi di produzione. Proprio seguendo la lezione politica del presidente Mao, non possiamo disconoscere che anche in uno Stato socialista può annidarsi la persistenza dei rapporti capitalistici. Per di più, sempre seguendo Mao, anche all’interno del Partito comunista, cioè in quella che dovrebbe essere l’avanguardia politica del proletariato, possono reintrodursi elementi borghesi. Disconoscere questo fatto porta l’autore a giustificare acriticamente lo sviluppo cinese che, palesemente, ha reintrodotto un rapporto capitalista di estrazione di profitto. Mediato, è vero, da processi redistributivi generali importanti, ma che c’entrano poco col socialismo e semmai molto con forme di keynesismo autoritario.

Altra questione importante non rilevata da Losurdo: per l’autore continua ad esserci un unico ed esclusivo imperialismo targato Usa. E’ vero, l’imperialismo statunitense permane quello egemone e non verrà mai sottolineato abbastanza, soprattutto in tempi di pensiero debole e accomodamento politico al mainstream, ma è impossibile non notare la presenza di altri attori geopolitici capitalistici in lotta fra loro. Il primo dei quali, dispiace rilevarlo, è proprio la Cina, che ancora non ha una chiara politica imperialista (non esporta guerre, non ha capitali privati sostanziali, conserva il monopolio delle principali risorse produttive, eccetera), ma si sta apprestando rapidamente nel predisporla (la moltiplicazione delle spese militari, la crescita del capitale privato, la finanziarizzazione della propria economia, la formazione di bolle speculative in tutto simili a quelle occidentali, eccetera). E non vale la giustificazione del processo di espansione capitalista cinese (che pure paradossalmente l’autore riconosce!) quale gigantesca “Nep” simil-sovietica con cui il partito cinese starebbe fregando il capitale anglosassone. Una Nep quarantennale non è una fase tattica di tenuta del sistema produttivo in fase di assestamento, è una scelta strategica di prospettiva. E se per “l’espansione delle forze produttive” è necessario reintrodurre elementi di capitalismo così invasivi, si sta dichiarando la resa a quel sistema, non il suo controllo in forma paracula. Si sta ammettendo che per sviluppare le forze produttive il capitalismo è ancora il sistema migliore, mentre compito del socialismo dovrebbe essere smentire l’assunto dimostrando il contrario.

In terzo luogo, la pratica dimostrativa per cui alle nefandezze del socialismo c’è sempre un contraltare capitalistico “peggiore”, non convince. Se lottiamo per un sistema produttivo ed evolutivo migliore, non è per seguire le orme capitalistiche in una triste lotta al meno peggio. Le tragedie, che pure ci sono state, prodotte nella costruzione del socialismo vanno articolate, chiarendo dove si situano gli errori politici o individuali e dove invece sono il prodotto di una situazione inevitabile perché determinate da un contesto di guerra civile permanente diretta o per procura (e poi dobbiamo intenderci cosa definiamo tragedia, ma questo è un altro discorso). Smascherare le nefandezze del capitalismo non basta. Bisogna tornare a convincere della necessità della rivoluzione socialista come fattore di progresso, di pace, di eguaglianza, di libertà. E’ questa la sfida oggi, non facile da raccogliere. Libri come questo rimangono però mattoni sui quali costruire questa consapevolezza, semi con cui far germogliare il fiore della Rivoluzione.

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