Da qualche mese è in libreria un testo, l’ultimo lavoro di Losurdo,
capace sin dal titolo di chiarire un concetto ed esprimere una
posizione. Di fronte agli sconvolgimenti internazionali in atto dalla
caduta del muro di Berlino in avanti, il multiforme campo della politica
ha visto il dileguarsi della sinistra, di una sinistra capace di
rappresentare un’alternativa politica contendendo all’immaginario
capitalista l’orizzonte dello sviluppo. Si potrebbe obiettare che la
fine dello schema bipolare partorito dal secondo dopoguerra abbia
complicato il quadro dei riferimenti internazionali, lasciando analisti e
opzioni politiche in mezzo ad un mare in tempesta e senza porti sicuri.
Il ventennio appena trascorso smentisce però questa presunta
“multiformità”, questa apparente incomprensibilità di fondo dei
principali eventi internazionali. Dalla prima guerra in Iraq in avanti,
lo schema dell’ingerenza Nato nelle più differenti zone calde del mondo
si è ripetuto pedissequamente senza soluzione di continuità e seguendo
nei più piccoli particolari sempre lo stesso canovaccio. E’ avvenuto
allora un cambio soggettivo interno al campo della sinistra, non uno
oggettivo rispetto alla dinamica imperialista. Non si contano più le
ingerenze internazionali dell’area Nato nei diversi contesti
geopolitici: Iraq, Iran, Jugoslavia, Siria, Libia, Serbia, Ucraina,
Afghanistan, Venezuela, Somalia, Georgia, Honduras, Mali e molti altri
eccetera. A volte si è ricorso al vecchio
metodo del golpe provocato o favorito; altre si è proceduto direttamente
con bombardamenti a tappetto e sostituzione del leader o partito
problematico; il più delle volte si è articolato un intervento
apparentemente indiretto e di soft power volto alla
demonizzazione del nemico politico contingente. E’ quest’ultima
situazione che ha prodotto contraddizioni a prima vista insanabili nel
discorso politico della sinistra. Se le prime due opzioni, quella
poliziesca o quella militare, hanno dalla loro una certa efficacia
immediata, portano però con sé il problema di compattare un fronte
politico avverso. L’opzione militare è efficace quanto drastica e non
sempre garantisce quel grado di consenso interno necessario a gestire
l’intervento stesso. Meglio, a volte, costruire il consenso adatto al regime change. E tale consenso lo si raggiunge solo coprendosi a sinistra, cioè
trasformando l’aggressione in questione umanitaria. E’ qui che si
chiarisce il ruolo di quella che Losurdo definisce “sinistra imperiale”,
quella sinistra speculare al cristianesimo imperiale dal ‘500 all’800
capace di veicolare le giuste motivazioni dell’espansione colonialista.
Tale cristianesimo missionario costruiva quel supporto ideologico
necessario a far passare la dinamica colonialista come fattore di
progresso. Anche i crimini più efferati commessi nella vicenda
coloniale, questa la motivazione di fondo, rappresentavano comunque una
tappa del progresso per le popolazioni subalterne, l’avvento di una
modernità, traumatica quanto necessaria. Fosse solo la conversione alla
chiesa di Roma. Mutatis mutandis, la questione oggi è ancora
questa. Per meglio dire, dopo circa un secolo di rottura ideologica
verso tale impostazione giustificazionista, siamo tornati alla copertura
politica e culturale delle politiche imperialiste. Oggi i missionari
cristiani hanno perso il ruolo di cemento ideale tra necessità
economiche e logiche spirituali, ma questo ruolo sta venendo ricoperto
da una certa sinistra, quella delle Ong, dei diritti umani,
dell’antiautoritarismo astratto: la sinistra complice.
Il problema di questa sinistra, e della cultura politica ufficiale
nel suo complesso, è l’aver introiettato il modello democratico-liberale
quale migliore strumento possibile per la rappresentanza dei diversi
interessi politici. Questioni come il “pluralismo”, i “diritti civili”,
le “libere elezioni”, il “rispetto delle minoranze”, una “libera
informazione”, e via dicendo, sono elevati a indice di democratizzazione
di un paese, di un partito o di un leader politico. Scollegata da ogni
riferimento socio-economico, la formalità borghese liberale si è imposta
come unico metro di giudizio della progressività o meno di una linea
politica. Questo è un dato di fatto che crediamo non occorra di
spiegazioni esaustive data la sua triste evidenza. Per gli esponenti di
questa sinistra democratico-liberale, una definizione che calza non solo
al Vendola di turno ma anche a parti importanti dei movimenti radicali,
sarà sempre meglio l’Italia della Siria, la Francia rispetto all’Iran,
gli Stati Uniti alla Russia. Pur combattendo il sistema politico vigente
nel cd “primo mondo”, questo rappresenta un gradino dell’evoluzione in
ogni caso più avanzato e democratico dei paesi ancora non modernizzati,
quali ad esempio quelli citati. Questa la chiave di volta per la
costruzione del consenso imperiale, la giustificazione massima delle
guerre umanitarie, delle ingerenze internazionali, delle politiche
neo-imperialiste.
L’ingerenza internazionale da qualche tempo assume sempre il medesimo
schema, come abbiamo detto, cioè si fa precedere da un convergente
movimento massmediatico culturale mainstream volto a dipingere il nemico
della Nato come nemico dell’umanità, male assoluto a-politico (non è
una questione di destra o sinistra) e anti-umano (contrario allo
sviluppo dell’umanità). Attraverso l’attacco concentrico del sistema
culturale massificato, il male assoluto è tale perché non rispetterebbe i
principi basilari del vivere sociale, cioè non sarebbe conseguente con
la formalità liberale delle libere elezioni e della pluralità
d’espressione politica. Tanto per dire, anche Chavez, ancora a metà anni
Duemila osteggiato da gran parte di questa sinistra imperiale, è
divenuto poi un modello accettabile all’ennesima elezione regolare
stravinta dal suo partito e dal processo bolivariano. La legittimazione
unica e definitiva per questa sinistra non erano ovviamente le politiche
sociali portate avanti dal socialismo del XXI secolo o la sua
caratterizzazione chiaramente antimperialista, quanto il suo passaggio
elettorale che certificava l’ingresso del leader bolivariano nell’alveo
della compatibilità democratica.
Se dunque il valore di fondo di questa sinistra diventa il rispetto
dei diritti civili e delle formalità istituzionali, risulta facile
comprendere il vicolo cieco in cui questa viene spinta sotto la valanga
informativa massmediatica volta a dipingere il paese vittima come
repressivo di tali diritti. Nonostante le contorsioni ideologiche, alla
fine non può che esserci un allineamento, una convergenza. La Nato non
sarà il migliore dei mondi possibili, ma certo meglio i paesi atlantici
di qualche autocrazia oscurantista. Se poi il paese sottoposto a stress test vede
anche la presenza di movimenti di piazza reclamanti più democrazia
liberale, ecco che il cortocircuito politico-mentale è completato e
l’adesione alla causa ideale dei manifestanti completa.
In questa versione però scompaiono completamente i ruoli storici, le
cause e gli effetti, i dominatori e i subalterni, i colonizzati e i
colonizzatori, gli schiavi e gli schiavisti. Si assume lo sviluppo
storico a partire dal presente, dallo status quo. La povertà di
alcuni paesi viene assunta come colpa e non come processo storico
determinato da altri paesi, guarda caso proprio da quei paesi che di
volta in volta vogliono “ri-ammodernare” un determinato “regime”
procedendo a operazioni neo-coloniali. L’assenza di determinati
caratteri liberali viene anche qui utilizzata per incolpare il paese in
questione, e non derivata dal carattere subalterno che tale paese ha nel
sistema dei rapporti internazionali di potere. Per dire, facile
lamentarsi contro il monopartitismo cubano se non si ha chiaro in mente
che, un minuto dopo l’innesto di una dinamica formalmente “pluralista”,
questa vedrebbe la scena politica monopolizzata da soggetti organizzati e
finanziati dagli Usa, determinando una sproporzione di accessibilità
alla politica tale da produrre quel “cambio di regime” in linea con la
formalità liberale.
Questo cerca di dirci Domenica Losurdo. Che anche il peggiore e più
retrivo degli Stati eternamente colonizzati non può che trovare da sé la
via dell’emancipazione, non tramite l’ingerenza delle strutture
poliziesco-militari occidentali. Sembrerebbe un’ovvietà, messa in questi
termini, ma così in questi anni non è stato. La richiesta di
bombardamenti umanitari in Libia venne in Europa dall’opinione pubblica
“di sinistra”, non da quella di destra. E quando parliamo di “sinistra”
non ci riferiamo al Pd et similia, ma da chi dissodò il terreno
della giustificazione ideologica manifestando contro Gheddafi quando
questi era sotto attacco Nato, innalzando la bandiera monarchica di re
Idris sotto l’ambasciata libica. O come, in questi tre anni, continua a
legittimare da sinistra la caduta di Assad che invece sta avvenendo da destra. Certo
per questa sinistra non è importante la direzione del movimento
anti-Assad, visto che il mantra della formalità liberale lo pone in ogni
caso quale nemico del genere umano, peggiore di qualsiasi peggiore
alternativa. Si potrebbe continuare a lungo. Tutti, tutti, i cambi di regime di questi due decenni sono avvenuti da destra, sotto
la spinta atlantica e introducendo modelli neoliberisti in territori a
diverso grado di capitalismo. Non importa più, perché la storia è sempre
al punto zero del presente. Inutile chiedersi cosa ne sia della Croazia
e della Serbia, dell’Iraq o della Libia, della Somalia o
dell’Afghanistan. L’importante è legittimare la protesta democratica,
liberale, antiautoritaria. Se poi oggi sono Stati falliti, esperimenti
ordo-liberisti, Stati-mafia, teocrazie filo-atlantiche, importa il
giusto: capitalisti erano, capitalisti rimangono, in un gioco a somma
zero dove ogni espressione del capitalismo è uguale a se stessa.
Veniamo però ai limiti di un lavoro come questo. La prima cosa, è che
la chiave interpretativa adottata riduce il capitalismo a
rapporto/scontro tra entità statuali. Non va minimizzato questo fatto ma
non va neanche assolutizzato. In primo luogo, il capitalismo è un
rapporto sociale, in quanto tale presente nei contesti produttivi, nei
rapporti di produzione. Non basta autodefinirsi socialisti, come nel
caso cinese, per garantire la trasformazione di quel rapporto e della
proprietà dei mezzi di produzione. Proprio seguendo la lezione politica
del presidente Mao, non possiamo disconoscere che anche in uno Stato
socialista può annidarsi la persistenza dei rapporti capitalistici. Per
di più, sempre seguendo Mao, anche all’interno del Partito comunista,
cioè in quella che dovrebbe essere l’avanguardia politica del
proletariato, possono reintrodursi elementi borghesi. Disconoscere
questo fatto porta l’autore a giustificare acriticamente lo sviluppo
cinese che, palesemente, ha reintrodotto un rapporto capitalista di
estrazione di profitto. Mediato, è vero, da processi redistributivi
generali importanti, ma che c’entrano poco col socialismo e semmai molto
con forme di keynesismo autoritario.
Altra questione importante non rilevata da Losurdo: per l’autore
continua ad esserci un unico ed esclusivo imperialismo targato Usa. E’
vero, l’imperialismo statunitense permane quello egemone e non verrà mai
sottolineato abbastanza, soprattutto in tempi di pensiero debole e
accomodamento politico al mainstream, ma è impossibile non
notare la presenza di altri attori geopolitici capitalistici in lotta
fra loro. Il primo dei quali, dispiace rilevarlo, è proprio la Cina, che
ancora non ha una chiara politica imperialista (non esporta guerre, non
ha capitali privati sostanziali, conserva il monopolio delle principali
risorse produttive, eccetera), ma si sta apprestando rapidamente nel
predisporla (la moltiplicazione delle spese militari, la crescita del
capitale privato, la finanziarizzazione della propria economia, la
formazione di bolle speculative in tutto simili a quelle occidentali,
eccetera). E non vale la giustificazione del processo di espansione
capitalista cinese (che pure paradossalmente l’autore riconosce!) quale
gigantesca “Nep” simil-sovietica con cui il partito cinese starebbe
fregando il capitale anglosassone. Una Nep quarantennale non è una fase
tattica di tenuta del sistema produttivo in fase di assestamento, è una
scelta strategica di prospettiva. E se per “l’espansione delle forze
produttive” è necessario reintrodurre elementi di capitalismo così
invasivi, si sta dichiarando la resa a quel sistema, non il suo
controllo in forma paracula. Si sta ammettendo che per sviluppare le
forze produttive il capitalismo è ancora il sistema migliore, mentre
compito del socialismo dovrebbe essere smentire l’assunto dimostrando il
contrario.
In terzo luogo, la pratica dimostrativa per cui alle nefandezze del
socialismo c’è sempre un contraltare capitalistico “peggiore”, non
convince. Se lottiamo per un sistema produttivo ed evolutivo migliore,
non è per seguire le orme capitalistiche in una triste lotta al meno
peggio. Le tragedie, che pure ci sono state, prodotte nella costruzione
del socialismo vanno articolate, chiarendo dove si situano gli errori
politici o individuali e dove invece sono il prodotto di una situazione
inevitabile perché determinate da un contesto di guerra civile
permanente diretta o per procura (e poi dobbiamo intenderci cosa
definiamo tragedia, ma questo è un altro discorso). Smascherare le
nefandezze del capitalismo non basta. Bisogna tornare a convincere della
necessità della rivoluzione socialista come fattore di progresso, di
pace, di eguaglianza, di libertà. E’ questa la sfida oggi, non facile da
raccogliere. Libri come questo rimangono però mattoni sui quali
costruire questa consapevolezza, semi con cui far germogliare il fiore
della Rivoluzione.
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