Diga di Ramadi - Iraq |
di Francesca La Bella
L’etimologia stessa della parola Mesopotamia (dal greco mésos, medio, e potamós,
fiume) ci dovrebbe far riflettere sulla centralità delle acque dolci e
del loro controllo nei territori appartenenti, a grandi linee, agli
attuali Stati di Iraq, Siria e Turchia. La questione della
gestione dell’acqua dei fiumi Tigri ed Eufrate e dei loro affluenti è,
infatti, uno strumento di potere e di pressione sia nei
confronti della popolazione sia nel rapporto tra i tre Stati nazionali
oltre ad essere oggetto di dispute con attori para-statali come il
Governo Regionale Curdo (KRG), le comunità curde in Turchia e lo Stato
Islamico (IS). In questo senso diventa particolarmente interessante
analizzare la dislocazione delle dighe e degli impianti idroelettrici,
la rete di distribuzione di acqua potabile e capire a chi afferisce la
gestione delle singole strutture.
Seguendo lo scorrere dei due corsi
d’acqua si attraversa in primo luogo il territorio turco. Una
precisazione in questo caso è, però, necessaria: per quanto si tratti
formalmente di zone sotto il controllo del Governo di Ankara, la
popolazione di queste aree è per buona parte curda e la regione è quella
che viene indicata genericamente come Kurdistan del Nord. La
costruzione di dighe e centrali energetiche ha avuto ricadute
significative sulla popolazione in termini di accesso all’acqua potabile
e alle risorse per l’irrigazione. In un territorio per lo più
agricolo questo ha indotto un grave danno per la piccola economia locale
e, parallelamente, la privatizzazione delle acque ha, da un lato,
modificato (in alcuni casi in maniera evidente) la geomorfologia del
territorio e, dall’altro, ha concentrato nelle mani di pochi il
controllo e la distribuzione dell’acqua.
Se a questo si aggiunge che, per
la costruzione delle dighe, sono state allagate vaste aree di rilevanza
archeologica e che la sicurezza degli impianti viene garantita
attraverso lo stanziamento di contingenti militari, diventa semplice
capire, se non comprendere, la diffidenza e la contrarietà della
popolazione curda alla costruzione di ulteriori impianti. A
questo proposito si ricordi che a fine 2016 dovrebbero concludersi le
operazioni per la costruzione di dighe ed impianti idroelettrici sul fiume Tigri a Ilisu e Cizre
che dovrebbero consentire ad Ankara di sfruttare la portata del fiume
più orientale in maniera altrettanto proficua rispetto alla gestione
delle acque dell’Eufrate amministrate attraverso la diga Ataturk, nel
Governatorato di Sanliurfa. Le tre dighe non sono, però, progetti a sé
stanti, rientrando nel più ampio Southeastern Anatolia Project, un
programma del governo turco che ha portato alla costruzione di 22 dighe e
19 centrali idroelettriche e che avrebbe dovuto, nelle intenzioni dei
suoi ideatori, indurre lo sviluppo economico della regione e garantirne
stabilità sociale attraverso la penetrazione delle strutture dello Stato
in un territorio considerato ostile come quello abitato dalla
popolazione curda.
Gli effetti della gestione turca
delle acque non si riverberano, però, solo sul territorio sotto il
controllo di Ankara. Il sistema di impianti turchi avrebbe, infatti,
ridotto di un terzo la portata del fiume Eufrate e i nuovi progetti per
il Tigri potrebbero portare un risultato molto simile. Per
quanto nel 1987 sia stato firmato un accordo per la ripartizione delle
acque tra Turchia e Siria, non esistono accordi simili tra Ankara e
Baghdad e la mancanza di un accordo internazionale trilaterale rischia
di lasciare mano libera alla Turchia e di incidere negativamente sulla
già difficile situazione siriana ed irachena.
Per quanto riguarda l’Iraq le
problematiche legate alla scarsità di acqua e all’elevata salinità delle
stesse sono molto gravi e non esclusivamente dipendenti dalle politiche
del governo turco. Nei due fiumi il tasso di salinità è naturalmente
più alto rispetto ad altri corsi d’acqua a causa di una forte erosione,
ma la diminuzione della portata fa sì che questo indice aumenti in
maniera esponenziale, rendendo l’acqua non potabile e creando danni
incalcolabili per l’agricoltura. L’azione di altri due attori
contribuisce, però, ad acuire la crisi idrica che, già nel breve
periodo, potrebbe portare problematiche di desertificazione del
territorio e di carestia.
Nel nord del Paese la questione della
gestione delle risorse idriche è una delle principali problematiche
irrisolte nel rapporto tra Governo Regionale Curdo e Governo iracheno.
Se da un lato la riconquista della diga di Mosul da parte dei peshmerga
curdo-iracheni ha impedito che il controllo del più grande bacino del
Paese fosse nelle mani dello Stato Islamico, dall’altro consente al KRG
di avere un potere contrattuale significativo nel confronti del Governo
nazionale. Molte delle città irachene dipendono, infatti,
dall’acqua di Mosul e, per quanto in questa fase di guerra contro un
nemico comune, gli approvvigionamenti siano garantiti, nel futuro
assetto del Paese conterà molto chi sarà riuscito a mantenere il
controllo delle risorse idriche.
Le problematiche maggiori per
l’Iraq e la sua popolazione dipendono, però, dall’azione dell’ultimo
attore in campo: lo Stato Islamico. Attraverso il controllo di
centri nevralgici per la distribuzione dell’acqua nel paese come la diga
di Tabqa, nella provincia di Raqqa in Siria o quelle di Haditha, Ramadi
e Falluja in Iraq, l’Isis è riuscito a bloccare i rifornimenti idrici a
città strategicamente significative ancora sotto il controllo iracheno
come Karbala, Najaf e Diwaniyah, a numerose piccole comunità locali ed
ad ampie distese di terreno agricolo. Allo stesso tempo, il blocco della
distribuzione d’acqua a seguito della chiusura della diga di Ramadi a
giugno ha considerevolmente aggravato le condizioni di vita già precarie
della popolazione del governatorato dell’al-Anbar ed ha portato al
prosciugamento delle aree paludose nel sud-est del paese con il
conseguente danno per le coltivazioni e le popolazioni autoctone.
A fronte di questo il primo ministro
iracheno ha annunciato la messa in funzione della riserva idrica ad
Al-Jadiriya che, insieme a quella nell’area di Kasra Wa Attash, dovrebbe
permettere lo stoccaggio di 150000 metri cubi d’acqua. Di fronte alla
mancanza di un aiuto da parte turca, all’impossibilità di trattare con
lo Stato Islamico ed alla paura di rendersi dipendenti dal KRG con le
conseguenti ricadute sul piano delle trattative, Al Abadi cerca
di trovare una soluzione di breve periodo che, però, difficilmente
sortirà effetti apprezzabili se la la situazione dovesse ulteriormente
degenerare.
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