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15/07/2015

Mesopotamia - Il controllo dell'acqua come strumento di potere

Diga di Ramadi - Iraq
di Francesca La Bella

L’etimologia stessa della parola Mesopotamia (dal greco mésos, medio, e potamós, fiume) ci dovrebbe far riflettere sulla centralità delle acque dolci e del loro controllo nei territori appartenenti, a grandi linee, agli attuali Stati di Iraq, Siria e Turchia. La questione della gestione dell’acqua dei fiumi Tigri ed Eufrate e dei loro affluenti è, infatti, uno strumento di potere e di pressione sia nei confronti della popolazione sia nel rapporto tra i tre Stati nazionali oltre ad essere oggetto di dispute con attori para-statali come il Governo Regionale Curdo (KRG), le comunità curde in Turchia e lo Stato Islamico (IS). In questo senso diventa particolarmente interessante analizzare la dislocazione delle dighe e degli impianti idroelettrici, la rete di distribuzione di acqua potabile e capire a chi afferisce la gestione delle singole strutture.

Seguendo lo scorrere dei due corsi d’acqua si attraversa in primo luogo il territorio turco. Una precisazione in questo caso è, però, necessaria: per quanto si tratti formalmente di zone sotto il controllo del Governo di Ankara, la popolazione di queste aree è per buona parte curda e la regione è quella che viene indicata genericamente come Kurdistan del Nord. La costruzione di dighe e centrali energetiche ha avuto ricadute significative sulla popolazione in termini di accesso all’acqua potabile e alle risorse per l’irrigazione. In un territorio per lo più agricolo questo ha indotto un grave danno per la piccola economia locale e, parallelamente, la privatizzazione delle acque ha, da un lato, modificato (in alcuni casi in maniera evidente) la geomorfologia del territorio e, dall’altro, ha concentrato nelle mani di pochi il controllo e la distribuzione dell’acqua.

Se a questo si aggiunge che, per la costruzione delle dighe, sono state allagate vaste aree di rilevanza archeologica e che la sicurezza degli impianti viene garantita attraverso lo stanziamento di contingenti militari, diventa semplice capire, se non comprendere, la diffidenza e la contrarietà della popolazione curda alla costruzione di ulteriori impianti. A questo proposito si ricordi che a fine 2016 dovrebbero concludersi le operazioni per la costruzione di dighe ed impianti idroelettrici sul fiume Tigri a Ilisu e Cizre che dovrebbero consentire ad Ankara di sfruttare la portata del fiume più orientale in maniera altrettanto proficua rispetto alla gestione delle acque dell’Eufrate amministrate attraverso la diga Ataturk, nel Governatorato di Sanliurfa. Le tre dighe non sono, però, progetti a sé stanti, rientrando nel più ampio Southeastern Anatolia Project, un programma del governo turco che ha portato alla costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche e che avrebbe dovuto, nelle intenzioni dei suoi ideatori, indurre lo sviluppo economico della regione e garantirne stabilità sociale attraverso la penetrazione delle strutture dello Stato in un territorio considerato ostile come quello abitato dalla popolazione curda.

Gli effetti della gestione turca delle acque non si riverberano, però, solo sul territorio sotto il controllo di Ankara. Il sistema di impianti turchi avrebbe, infatti, ridotto di un terzo la portata del fiume Eufrate e i nuovi progetti per il Tigri potrebbero portare un risultato molto simile. Per quanto nel 1987 sia stato firmato un accordo per la ripartizione delle acque tra Turchia e Siria, non esistono accordi simili tra Ankara e Baghdad e la mancanza di un accordo internazionale trilaterale rischia di lasciare mano libera alla Turchia e di incidere negativamente sulla già difficile situazione siriana ed irachena.

Per quanto riguarda l’Iraq le problematiche legate alla scarsità di acqua e all’elevata salinità delle stesse sono molto gravi e non esclusivamente dipendenti dalle politiche del governo turco. Nei due fiumi il tasso di salinità è naturalmente più alto rispetto ad altri corsi d’acqua a causa di una forte erosione, ma la diminuzione della portata fa sì che questo indice aumenti in maniera esponenziale, rendendo l’acqua non potabile e creando danni incalcolabili per l’agricoltura. L’azione di altri due attori contribuisce, però, ad acuire la crisi idrica che, già nel breve periodo, potrebbe portare problematiche di desertificazione del territorio e di carestia.

Nel nord del Paese la questione della gestione delle risorse idriche è una delle principali problematiche irrisolte nel rapporto tra Governo Regionale Curdo e Governo iracheno. Se da un lato la riconquista della diga di Mosul da parte dei peshmerga curdo-iracheni ha impedito che il controllo del più grande bacino del Paese fosse nelle mani dello Stato Islamico, dall’altro consente al KRG di avere un potere contrattuale significativo nel confronti del Governo nazionale. Molte delle città irachene dipendono, infatti, dall’acqua di Mosul e, per quanto in questa fase di guerra contro un nemico comune, gli approvvigionamenti siano garantiti, nel futuro assetto del Paese conterà molto chi sarà riuscito a mantenere il controllo delle risorse idriche.

Le problematiche maggiori per l’Iraq e la sua popolazione dipendono, però, dall’azione dell’ultimo attore in campo: lo Stato Islamico. Attraverso il controllo di centri nevralgici per la distribuzione dell’acqua nel paese come la diga di Tabqa, nella provincia di Raqqa in Siria o quelle di Haditha, Ramadi e Falluja in Iraq, l’Isis è riuscito a bloccare i rifornimenti idrici a città strategicamente significative ancora sotto il controllo iracheno come Karbala, Najaf e Diwaniyah, a numerose piccole comunità locali ed ad ampie distese di terreno agricolo. Allo stesso tempo, il blocco della distribuzione d’acqua a seguito della chiusura della diga di Ramadi a giugno ha considerevolmente aggravato le condizioni di vita già precarie della popolazione del governatorato dell’al-Anbar ed ha portato al prosciugamento delle aree paludose nel sud-est del paese con il conseguente danno per le coltivazioni e le popolazioni autoctone.

A fronte di questo il primo ministro iracheno ha annunciato la messa in funzione della riserva idrica ad Al-Jadiriya che, insieme a quella nell’area di Kasra Wa Attash, dovrebbe permettere lo stoccaggio di 150000 metri cubi d’acqua. Di fronte alla mancanza di un aiuto da parte turca, all’impossibilità di trattare con lo Stato Islamico ed alla paura di rendersi dipendenti dal KRG con le conseguenti ricadute sul piano delle trattative, Al Abadi cerca di trovare una soluzione di breve periodo che, però, difficilmente sortirà effetti apprezzabili se la la situazione dovesse ulteriormente degenerare.

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