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15/01/2016

Lo strano caso della Corte dei diritti dell’uomo che protegge le aziende e condanna i lavoratori

Che le istituzioni collaterali all’Unione europea fossero ontologicamente *dentro* i confini politici ed economici europeisti, inserite in una visione del mondo precisa e distante da ogni possibile “neutralità”, la vicenda della Corte europea dei diritti dell’uomo dovrebbe ulteriormente confermarlo.

Brevemente, tale Corte, che dovrebbe occuparsi, come dire, della “difesa dei diritti dell’uomo” (ca va sans dire), ha sancito la legittimità delle aziende di licenziare i propri lavoratori qualora questi fossero scoperti ad utilizzare mail aziendali per fini privati. In pratica, il solo fatto di mandare mail private tramite il proprio indirizzo di posta durante(?) l’orario di lavoro costituirebbe motivo di licenziamento (non di multa o sanzione, di licenziamento, punto e basta). E la Corte in questione ha pure sancito che la cosa va bene, si può fare, non lede alcun diritto, e che anzi va integrata alla normativa sulla privacy contenuta nel Jobs act renziano (questo lo raccomanda la Ue, e come sappiamo una raccomandazione Ue è un offerta che non si può rifiutare). Motivo in più per augurarsi l’abolizione immediata di tutte queste propaggini liberiste formalmente poste a difesa dei diritti civili ma in realtà manifestamente contro ogni forma di diritto sociale dell’uomo.

Detto questo, la vicenda è interessante per un altro motivo. Da decenni, e in quest’ultimo decennio in particolare, il confine tra orario di lavoro e orario di riposo è venuto meno, scardinato da nuove forme lavorative e contrattuali che hanno di fatto abolito la separazione dei diversi momenti (la mitologica produttività). Tale fatto è avvenuto espandendo all’infinito la propensione al lavoro, il tempo lavorativamente attivo, invadendo il campo del riposo e della riproduzione e consentendo, tramite la rete, di portare il lavoro anche nelle ore formalmente libere o comunque non retribuite. Tale tendenza è presente ovunque ma palese nelle mansioni intellettuali o di scrivania. Rispondere a mail di lavoro in orario di pausa o nel tempo libero; proseguire tramite la connessione internet lavori iniziati durante l’orario di lavoro; la reperibilità h24 consentita non solo dai cellulari, ma dalla connessione perenne che consente al datore di lavoro di conoscere i propri movimenti e la propria presenza su Whats App o tramite i social network; e così via. In tal senso, la differenza tra momento lavorativo e momento privato è venuta meno, e anzi viene anche considerata positiva (dagli stessi lavoratori!) la possibilità di “portarsi il lavoro a casa”.

Il “tempo libero” è venuto forzatamente meno, ed oggi il tempo di lavoro può essere ogni momento, espandendo oltre al controllo sul lavoratore i margini di profitto per aziende. Quando il lavoro invade la sfera privata non c’è sentenza di qualche “corte dei diritti dell’uomo” a sancirne i limiti, a difendere la propria privacy e a condannare l’azienda privata per lo sfruttamento lavorativo ovviamente non retribuito. Se invece è il lavoratore a valicare il confine tra momento lavorativo e momento privato, ecco puntuale la sentenza in difesa delle ragioni del profitto. Questo non ci meraviglia: gli “allegati” liberali al dominio liberista (come appunto le corti dei diritti dell’uomo, i tribunali internazionali, i diritti dei consumatori, eccetera) sono costruiti proprio per legittimare il potere attraverso costruzioni “valoriali” tali da veicolarlo culturalmente (solo in italiano esiste la doppia definizione di liberismo e liberalismo, come se le due articolazioni del sistema capitalistico non fossero compenetrate e conseguenti). C’è solo da augurarsi che tale vicenda smascheri un rapporto indissolubile che molte volte viene negato dai difensori del dirittocivilismo.

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