Che le istituzioni collaterali all’Unione europea fossero
ontologicamente *dentro* i confini politici ed economici europeisti,
inserite in una visione del mondo precisa e distante da ogni possibile
“neutralità”, la vicenda della Corte europea dei diritti dell’uomo
dovrebbe ulteriormente confermarlo.
Brevemente, tale Corte, che dovrebbe
occuparsi, come dire, della “difesa dei diritti dell’uomo” (ca va sans
dire), ha sancito la legittimità delle aziende di licenziare i propri lavoratori
qualora questi fossero scoperti ad utilizzare mail aziendali per fini
privati. In pratica, il solo fatto di mandare mail private tramite il
proprio indirizzo di posta durante(?) l’orario di lavoro costituirebbe
motivo di licenziamento (non di multa o sanzione, di licenziamento,
punto e basta). E la Corte in questione ha pure sancito che la cosa va
bene, si può fare, non lede alcun diritto, e che anzi va integrata alla
normativa sulla privacy contenuta nel Jobs act renziano (questo lo
raccomanda la Ue, e come sappiamo una raccomandazione Ue è un offerta
che non si può rifiutare). Motivo in più
per augurarsi l’abolizione immediata di tutte queste propaggini
liberiste formalmente poste a difesa dei diritti civili ma in realtà
manifestamente contro ogni forma di diritto sociale dell’uomo.
Detto
questo, la vicenda è interessante per un altro motivo. Da decenni, e in
quest’ultimo decennio in particolare, il confine tra orario di lavoro e
orario di riposo è venuto meno, scardinato da nuove forme lavorative e
contrattuali che hanno di fatto abolito la separazione dei diversi
momenti (la mitologica produttività). Tale fatto è avvenuto espandendo
all’infinito la propensione al lavoro, il tempo lavorativamente attivo,
invadendo il campo del riposo e della riproduzione e consentendo,
tramite la rete, di portare il lavoro anche nelle ore formalmente libere
o comunque non retribuite. Tale tendenza è presente ovunque ma palese
nelle mansioni intellettuali o di scrivania. Rispondere a mail di lavoro
in orario di pausa o nel tempo libero; proseguire tramite la
connessione internet lavori iniziati durante l’orario di lavoro; la
reperibilità h24 consentita non solo dai cellulari, ma dalla connessione
perenne che consente al datore di lavoro di conoscere i propri
movimenti e la propria presenza su Whats App o tramite i social network;
e così via. In tal senso, la differenza tra momento lavorativo e
momento privato è venuta meno, e anzi viene anche considerata positiva
(dagli stessi lavoratori!) la possibilità di “portarsi il lavoro a
casa”.
Il “tempo libero” è venuto forzatamente meno, ed oggi il tempo di
lavoro può essere ogni momento, espandendo oltre al controllo sul
lavoratore i margini di profitto per aziende. Quando il lavoro invade la
sfera privata non c’è sentenza di qualche “corte dei diritti dell’uomo”
a sancirne i limiti, a difendere la propria privacy e a condannare
l’azienda privata per lo sfruttamento lavorativo ovviamente non
retribuito. Se invece è il lavoratore a valicare il confine tra momento
lavorativo e momento privato, ecco puntuale la sentenza in difesa delle
ragioni del profitto. Questo non ci meraviglia: gli “allegati” liberali
al dominio liberista (come appunto le corti dei diritti dell’uomo, i
tribunali internazionali, i diritti dei consumatori, eccetera) sono
costruiti proprio per legittimare il potere attraverso costruzioni
“valoriali” tali da veicolarlo culturalmente (solo in italiano esiste la
doppia definizione di liberismo e liberalismo, come se le due
articolazioni del sistema capitalistico non fossero compenetrate e
conseguenti). C’è solo da augurarsi che tale vicenda smascheri un
rapporto indissolubile che molte volte viene negato dai difensori del
dirittocivilismo.
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