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06/04/2016

Leader ‘bosniaco’ provoca: “caschi blu in Serbia”

Sulejman Ugljanin, leader del Consiglio nazionale bosniaco, il partito che rappresenta una parte della minoranza ‘bosniaca’ del Sangiaccato – territorio nel sudovest della Serbia abitato da popolazioni musulmane – ha proposto al consiglio di sicurezza dell’Onu e ad altre organizzazioni internazionali di intervenire con l’invio di truppe allo scopo “di prevenire conflitti e proteggere la popolazione bosniaca di quella regione della Serbia”, sottoposta a suo avviso a discriminazioni. Come riferiscono i media a Belgrado, Ugljanin – che in passato e’ stato ministro senza portafoglio nel governo serbo – ha sollecitato l’intera comunità internazionale a mobilitarsi per “fermare la campagna di intimidazioni e minacce contro la minoranza bosniaca, e porre fine al tempo stesso all’ondata di terrorismo di stato, crimini e pulizia etnica in Sangiaccato”.

Numerosi i leader politici serbi che hanno reagito duramente alla provocazione di Ugljanin. Per il ministro degli esteri Ivica Dacic la richiesta di invio di caschi blu in Sangiaccato è “insensata”, e ad essa “nessuno al mondo reagirà”. “La pace e la stabilità in Serbia non sono minacciate. Si tratta di un'evidente enorme provocazione diretta a destabilizzare il Paese”, ha detto Dacic. Dure critiche anche da Rasim Ljajic, ministro del commercio estero e turismo, anch’egli proveniente dal Sangiaccato e leader del Partito socialdemocratico serbo, secondo il quale le affermazioni di Ugljanin vanno completamente ignorate.

Una provocazione che si basa sul nulla – la situazione nel territorio serbo a maggioranza musulmana è la più tranquilla da parecchi anni – e che secondo vari osservatori deve essere vista in chiave elettorale, in vista del voto anticipato in Serbia del 24 aprile prossimo. Un modo insomma, per Ugljanin, per farsi pubblicità, contribuendo però a rendere il clima più torbido in una regione dove il fuoco continua, dopo le guerre etniche dei decenni scorsi, a covare sotto la cenere. E in una regione dove negli ultimi anni è aumentato il radicamento di organizzazioni jihadiste che hanno mandato numerosi volontari a combattere insieme ad al Nusra e allo Stato Islamico in Siria e Iraq e che potrebbero pensare di riprodurre la stessa dinamica nei Balcani, sostenute da una rete fondamentalista che fa capo all’Arabia Saudita e alla Turchia.

Proprio in queste settimane la Procura di Sarajevo ha cominciato a indagare su alcune decine di cittadini bosniaci che combattono in Siria e in Iraq nelle milizie del Califfato: 33 inchieste in corso si riferiscono a 70 persone sospettate di organizzazione di gruppi terroristici, incitamento e reclutamento per le attività terroristiche e partecipazione a conflitti all’estero. Secondo il procuratore capo Goran Salihovic, fino ad oggi sono stati incriminati 20 foreign fighters bosniaci al rientro in patria e nei prossimi giorni verranno formalizzati altri due atti d’accusa. Secondo le cifre ufficiali della polizia bosniaca, in questo momento combattono in Siria e Iraq, a fianco dell’Isis, 70 bosniaci e finora sono morti in combattimento da 40 a 50 jihadisti provenienti dalla Bosnia. Ma il fenomeno è assai più consistente. Secondo i dati diffusi nel corso di una conferenza regionale a Sarajevo dedicata alla radicalizzazione e al reclutamento dei jihadisti nei Balcani, nel 2012 e 2013 sono andati in Medio Oriente, per unirsi a vari gruppi terroristici, 877 foreign fighters balcanici. Il maggior numero, 300 combattenti, sono partiti dal Kosovo, 207 dalla Macedonia, 200 dalla Bosnia, 107 dall’Albania, 50 dalla Serbia e 13 dal Montenegro. Nel 2014 e 2015 il numero delle partenze è diminuito anche perché i paesi balcanici hanno approvato leggi secondo cui la partecipazione a conflitti all’estero costituisce un reato penale. Nello stesso periodo sono tornati nei Balcani 299 jihadisti che hanno combattuto nelle file dell’Isis e che, a piede libero, sono sotto la stretta sorveglianza delle agenzie di sicurezza. Almeno così affermano i servizi di intelligence dei vari paesi.

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