Nonostante la grave crisi politica interna, il premier iracheno Haidar al-‘Abadi ha annunciato ieri sera il via alle operazioni militari per la riconquista della città di Fallujah
da due anni sotto il controllo dell’autoproclamato Stato Islamico (Is).
Fallujah, città per lo più sunnita a 65 chilometri a ovest della
capitale Baghdad, è da diversi mesi circondata dalle forze irachene.
Tuttavia, disaccordi tra il governo iracheno e la coalizione
internazionale anti-Is su quali gruppi avrebbero dovuto partecipare
all’offensiva e su quando incominciarla hanno ritardato fino ad ora
l’inizio della campagna militare.
Secondo quanto hanno riferito fonti dell’esercito al portale Middle East Eye,
le truppe regolari irachene e le milizie sunnite anti-Is invaderanno la
città mentre altre unità – soprattutto quelle sciite – saranno
impiegate a protezione dell’area che circonda Fallujah. “Le
nostre forze sono pronte ad attaccare. E’ da qui che partono molte
azioni terroristiche [dell’Is]. La città deve essere liberata cosicché
anche la stessa Baghdad e le zone circostanti saranno più al sicuro” ha
dichiarato il portavoce dell’anti-terroristismo iracheno, Sabah Nuaman. La strategia è chiara: riprendere Falluja per poi attaccare Mosul, la “capitale” irachena dello Stato Islamico.
“Non possiamo farlo fintanto che Daesh [altro termine per Is, ndr]
controlla un’area vicino a Baghdad – ha spiegato Nuaman che poi ha
aggiunto – abbiamo ripreso il controllo della provincia dell’Anbar, ci
manca solo Fallujah”.
Colpisce, però, il silenzio statunitense sul via alle operazioni: al
momento, infatti, il dipartimento di stato Usa e il Pentagono hanno
preferito non rilasciare alcun commento. Eppure la scorsa settimana la
coalizione internazionale ha più volte colpito l’area intorno alla
città. Secondo il portavoce della coalizione internazionale, il
colonnello Steve Warren, “Fallujah è un rifugio per lo Stato Islamico
dove i suoi militanti possono costruire bombe e pianificare azioni in
zone relativamente vicine alla capitale”.
Non solo. Secondo analisti ed esperti militari, la città è un
vero e proprio fortino del “califfato” nella parte occidentale
dell’Iraq: qui, infatti, i radicalisti islamici arruolerebbero nuovi
combattenti e raccoglierebbero denaro. Su Middle East Eye
l’analista iracheno Wahab al-Taier è stato chiaro: “Fallujah è la testa
del serpente. Quando la testa sarà tolta, il serpente morirà”.
“Sconfiggere Da’esh qui vuol dire sconfiggerlo nell’intero Iraq. E’ solo
una questione di tempo”.
Più semplice a dirsi che a realizzare: la battaglia è estremamente complessa perché l’Is è ancora una forza minacciosa. Ma
a rendere ottimista il premier al-‘Abadi sono i recenti successi
militari compiuti dal suo governo nella lotta al “califfato”. La scorsa
settimana le forze governative hanno ripreso il controllo di Rutba,
una cittadina a 380 chilometri dalla capitale irachena. Lo scorso mese,
invece, ad essere “bonificata” dalla presenza dei jihadisti era stata
la valle dell’Eufrate. Senza dimenticare che a inizio anno la capitale
della provincia dell’Anbar, Ramadi, era stata “completamente liberata”
dall’esercito.
Il via all’offensiva giunge nel pieno di una grave crisi politica interna.
Venerdì due manifestanti sono stati uccisi nei violenti scontri con le
forze di sicurezza irachena nella Zona verde di Baghdad (l’area più
sicura della città dove hanno sede le ambasciate straniere e le
istituzioni governative). Ieri l’ufficio del premier al-‘Abadi ha
rilasciato i risultati di una inchiesta preliminare da cui è emerso che
la polizia e le guardie militari “non hanno sparato direttamente a chi
protestava”.
Nonostante la reazione durissima delle forze di sicurezza, i
manifestanti, per lo più sostenitori del religioso sciita Moqtada
as-Sadr, sono riusciti ad entrare nella Zona verde prendendo di mira
l’ufficio del primo ministro, accusato di debolezza e incapacità di
portare avanti le riforme anti-corruzione promesse da mesi. Da tempo
migliaia di iracheni guidati da as-Sadr chiedono, invano finora, un
nuovo governo tecnico. Il parlamento, però, continua a fare orecchie da
mercante non votandolo: alla base vi è il timore dei partiti politici di
perdere il controllo dei ministeri e di vedere indebolita la rete di
consenso basata su favori e clientelismo.
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