Donald Trump non è più solo un sospetto. Adesso anche l’aritmetica è dalla parte sua: superata quota 1237 candidati, il magnate newyorkese ha ufficialmente la maggioranza assoluta dei delegati repubblicani. Il candidato è lui, il vertice del partito non potrà che farsene una ragione.
Più complesso il discorso tra i democratici: Hillary Clinton è avanti e – in base al meccanismo che attribuisce delegati in maniera proporzionale – nemmeno un miracolo potrebbe consentire a Bernie Sanders di rimontare lo svantaggio.
Il senatore "socialista" del Vermont, però, non ha alcuna intenzione di ritirarsi: storicamente fuori dall’establishment, addirittura senza la tessera del partito in tasca fino a non troppo tempo fa, Bernie andrà avanti ancora, forse addirittura fino alla fine. D’altra parte i sondaggi sono molto più dalla sua parte rispetto a Hillary: lui in media viene dato 15 punti percentuali avanti a Trump (un distacco praticamente incolmabile), mentre lei nella migliore delle ipotesi ha tre punti di vantaggio (e il 3% è il margine di errore statistico, quindi siamo punto e a capo), mentre nella peggiore (rilevazione Abc/Wp) sarebbe addirittura sotto del due percento. Insomma Sanders vuole giocarsi le sue carte fino all’ultima disponibile, consapevole del fatto di poter essere decisivo. Non succederà niente del genere, ma c’è un precedente che fa alzare quattro dita di pelle d’oca all’establishment democratico: elezioni del 2000, il candidato verde Ralph Nader con il suo 0.4% affossò fatalmente la corsa di Al Gore contro George W. Bush (insieme, va detto, ai riconosciti brogli e alla Corte Suprema).
Secondo una rilevazione della Cnn, un terzo degli elettori di Sanders starebbe valutando l’ipotesi di votare Donald Trump. La cosa ha fatto storcere il naso a molti, ma una spiegazione c’è, ed è un po’ la stessa lezione che si va replicando in mezza Europa: in assenza di una sinistra di governo che possa risultare credibile (o che non venga ammazzata in corsa, come appunto Bernie e come si sta cercando di fare con Corbyn in Gran Bretagna), lo scontro è tutto tra l’establishment e i suoi più demagogici oppositori. Perché se è vero che Trump è il tipico esempio di populista razzistoide che accarezza gli umori più turpi di un elettorato stanco e vessato, è vero pure che Hillary Clinton appare nei modi e nella sua storia personale come l’establishment fatto candidato: già moglie di un presidente, Segretario di Stato, ammanicatissima con ogni tipo di potere forte (Wall Street è schierata compatta con lei, tanto per dire), esponente di un giro che più antipopolare è difficile anche solo da immaginare.
Non è un caso dunque che Trump – che di tutto questo, in un modo o nell’altro, è un oppositore – riscuota un certo consenso anche tra i ceti più popolari, nei famosi «quartieri difficili», nelle periferie, in quello che una volta si chiamava sottoproletariato urbano. Da quest’altra parte dell’Atantico il copione l’abbiamo già visto in scena più volte: quando Marine LePen costringe il centrodestra e il centrosinistra francese a unirsi per batterla sul filo di lana, quando in Austria l’argine all’estrema destra è stato trovato in un anziano politico ecologista, quando Matteo Salvini in Italia miete successi elettorali da non sottovalutare, quando Alba Dorata cresce in Grecia, quando Orbàn stravince in Ungheria e via fascisteggiando.
Va detto che tutto questo è sempre accompagnato da una disaffezione al voto incredibile, con affluenze al minimo storico, generica disillusione e triste disimpegno: un’altra cosa che stanno dicendo i sondaggi sulle presidenziali è che quello tra Trump e Clinton sarà il duello tra i due politici più impopolari della politica statunitense. Con buona pace di tutti quelli che (oggi) si vergognano di aver votato gente come Nixon e Jimmy Carter.
Al netto di un’immagine pubblica che rimane intatta nel suo essere fieramente contro ogni potere fin’ora dominante, Donald Trump sta già cominciando a strizzare l’occhio ai moderati, quelli che non parlano quasi mai ma che si rivelano sempre decisivi nel segreto dell’urna. Appena ottenuta la nomination, infatti, Donald ha già fatto presente che il suo vice sarà una donna o un esponente delle minoranze. Un modo come un altro per strizzare l’occhio a un elettorato a lui tendenzialmente ostile, come dire: «sono un essere umano anche io. O almeno sono uno votabile». Si vedrà come andrà a finire, ma ogni movimento più o meno estremista quando arriva alle soglie del potere (del potere vero) comincia a moderarsi. Non potrebbe fare altrimenti in un’epoca in cui la politica conta meno dei gruppi di potere economici che nessuno vota, che nessuno sceglie, che tutti dicono di odiare, ma che alla fine riescono sempre a imporre la propria agenda.
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