25/05/2016
La Palma d'Oro a Loach e l'ipocrisia neoliberista del Corriere
Non avendo visto il film con cui Ken Loach ha appena vinto la Palma d’Oro al festival di Cannes non sono in grado – né lo sarei anche se lo avessi visto, dal momento che non sono un critico cinematografico – di darne una valutazione estetica. Tuttavia ho avuto modo di vedere molti dei suoi film precedenti e di apprezzarne sia il valore formale – dal modesto punto di vista di uno spettatore – sia l’impegno politico e sociale che nel corso della sua lunga carriera non è mai venuto meno (la foto che lo ritrae sul palco di Cannes con la Palma d’Oro nella mano sinistra e il pugno destro alzato in un gesto dall’inequivocabile significato ideologico ne fa testimonianza). È dunque evidente che, date che le mie risapute idee “veteromarxiste”, e la mia simpatia per le sinistre “antagoniste”, il mio giudizio su quest’ultimo film (dopo che lo avrò visto) sarà a priori indiziato di tendenziosità.
Ciò detto, dubito che la valutazione del Corriere della Sera, affidata alla penna del critico “patentato” della testata, Paolo Mereghetti, sia altrettanto sospetta, ancorché per ragioni opposte. Il pollice verso è già implicito nel titolo sul verdetto della giuria di Cannes, definito “superficiale” e accusato di incoronare “un comizio scontato”. Poi arriva la stroncatura: “I, Daniel Blake è più un comizio politico che un film (lo ha confermato anche il regista col suo discorso di ringraziamento), un’intemerata ideologica che trasforma un carpentiere in un agnello sacrificale lasciato solo di fronte all’insensibilità sociale dello Stato. Non mettiamo in dubbio che sia così per la classe operaia inglese ostaggio di governi reazionari, ma in un film sentiamo il bisogno di un linguaggio meno schematico, di una messa in scena meno ricattatoria, di una recitazione meno convenzionale”.
In tutta questa tirata stizzita (a proposito di intemerate...) l’unica valutazione strettamente estetica, di fatto è quella relativa alla recitazione. Tutto il resto riguarda fondamentalmente il contenuto ideologico, del film, e non senza palesi contraddizioni. Per esempio: se Mereghetti “non mette in dubbio” (ma è davvero così?) che la classe operaia inglese sia ostaggio di governi reazionari, a che pro ironizzare sul carpentiere “trasformato” in agnello sacrificale dall’insensibilità sociale dello Stato? Vuol forse dire che quel carpentiere non è membro della classe operaia ridotta a ostaggio, e quindi non può essere un agnello scarificale, ma viene “spacciato” come tale dalla narrazione ideologica del regista?
Passiamo al linguaggio “schematico”: in generale (vedi il cinema di Eisenstein e il teatro di Brecht) la rappresentazione artistica del conflitto di classe è quasi di necessità “schematica”, nella misura in cui mette in scena, stilizzandola, una relazione antagonistica fra soggetti sociali. Certo, nessuno impedisce a Mereghetti di condividere il giudizio del ragionier Fantozzi su La corazzata Potemkin (“una boiata pazzesca”), così come è libero di pensare che l’attuale conflitto sociale non possa né debba essere ridotto a un rozzo schema duale, anche se il fatto che 64 super ricchi detengono oggi patrimoni pari a quelli posseduti da tre miliardi e mezzo di altri esseri umani tenderebbe a suggerire che questa scelta ha una qualche giustificazione...
Infine il capolavoro di ipocrisia racchiuso in quella rivendicazione di una messa in scena meno ricattatoria. Viene in mente la canzone di Fo e Jannacci in cui si dice che il povero non deve piangere perché il suo lamento fa male al re. Il re, in questo caso, è quel lettore medio del Corriere che, condividendo il pensiero unico neoliberista di cui questa testata è ormai l’indiscusso organo ufficiale, non vuole essere “ricattato” da vecchi arnesi filocomunisti come Loach, i quali si permettono di ricordargli che le sue idee producono vittime sacrificali...
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