Vi piacerebbe avere più soldi in busta paga? La notizia arriverebbe graditissima in ogni tempo, figuriamoci in tempi di crisi, con le retribuzioni “stabili” ferme da anni e quelle dei precari in calo costante (al di sotto del voucher c’è solo il “farlo gratis”).
A Palazzo Chigi stanno meditando l’ennesima rapina fatta passare per un “vi rimettiamo soldi in tasca”. Problema da prestigiatori, certamente, ma tra Renzi e Padoan qualcosa può sempre venir fuori.
Come riferiscono ormai tutti i media specializzati con un orecchio nel governo, l’esecutivo starebbe meditando un “taglio strutturale del cuneo fiscale sulle imprese e anche sui lavoratori”. Il gioco è complesso perché comunque si vogliano toccare le aliquote fiscali e contributive, si apre un buco nei conti pubblici (soprattutto in quelli dell’Inps, che con i contributi deve pagarci le pensioni).
Le possibilità teoriche non sono molte, dunque, ma si sta lavorando sulla “riduzione del costo del lavoro sui contratti a tempo indeterminato” mentre ci si ingegna di propagare la decontribuzione sui neoassunti (scesa da gennaio dal 100% al 60%, con un blocco istantaneo delle trasformazioni di contratti precari in “stabilmente licenziabili”).
Niente da fare, invece, su una riduzione dell’Irpef in busta paga, perché la Ue vigila e ha già fatto sapere che non se ne deve neanche parlare. Il governo, dunque, si presenta stamattina all’incontro con i sindacati senza molto in mano. Il solo taglio del costo del lavoro (taglio che va totalmente a beneficio delle imprese), per essere “avvertibile”, dovrebbe avere la dimensione perlomeno di 4-6 punti percentuali. Il prezzo per le casse pubbliche è di 250 milioni per ogni punto, quindi 1-1,5 miliardi complessivi solo nel primo anno.
In sede di chiacchiere con la stampa è stato detto che il taglio poteva essere spartito al 50% tra imprese e dipendenti, ma in sede ufficiosa – dunque più credibile – circola un’ipotesi assai più favorevole alle imprese (due terzi) che non ai lavoratori (un solo terzo).
Beh, direbbe un ingenuo, dov’è il problema? In fondo si tratta pur sempre di qualche soldo in più disponibile subito...
La fregatura sta nei tempi e nelle quantità. Ridurre il costo del lavoro – tenendo fermo il prelievo fiscale per non far incazzare la Commissione Ue – significa tagliare solo i contributi previdenziali. Quei soldini – pochi, comunque – non finiranno più all’Inps e avrai il bel risultato di avere, alla fine dell’età lavorativa, una base di calcolo più bassa su cui ti verrà erogata sia la pensione che la liquidazione.
La manovra sarebbe dunque fallimentare sul piano dei conti pubblici (un solo punto di taglio per tutti i dipendenti, sia vecchi che nuovi assunti peserebbe, 2,5 miliardi di minori entrate) e impoverente per i futuri pensionati (che già così se la passeranno malissimo). Ma consentirebbe al governo (se ci sarà ancora, dopo il referenedum sulla “riforma contro-costituzionale”) di farsi bello perché fa apparire qualche spicciolo in più sul netto mensile in busta paga.
In ogni caso, la via che alla fine sarà praticabile resta quella della proroga “light” della decontribuzione solo per i nuovi assunti. Ma se già al livello attuale – 60% – ha gelato la dinamica di trasformazione dei contratti, è molto dubbio che una percentuale inferiore (25-40%) possa sortire effetti migliori.
La sfida è «rendere il contratto a tempo indeterminato più conveniente dei rapporti a termine, anche quando finiranno gli incentivi», ripete Marco Leonardi, consigliere economico di palazzo Chigi. Omette di dire che questa “convenienza” sarà pesantemente sbilanciata a favore delle imprese e mortale per Inps e conti pubblici. Per rimediare, a quel punto, non ci saranno alternative ai tagli alla spesa sociale oppure all’aumento (fortemente voluto dalla Troika) dell’Iva.
Insomma: se ti faranno comparire un euro in più in busta paga sarà perché te ne stanno togliendo tre in pensioni, servizi e sanità.
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