di Chiara Cruciati
Sulla “capitale” del
sedicente califfato, la città siriana di Raqqa, marceranno le forze
kurde: l’operazione per la sua liberazione è stata lanciata ieri dalle
Sdf, le Forze Democratiche Siriane, coalizione nata pochi mesi fa e
formata dalle Ypg kurde di Rojava e da gruppi armati turkmeni, arabi e
assiri.
“Con la partecipazione di tutte le forze delle Sdf, iniziamo
questa operazione per liberare Raqqa”, ha annunciato Rojda Felat,
comandante militare, in un video girato online. “La campagna –
ha aggiunto – intende repellere gli attacchi terroristi a Shaddadi, Tal
Abyad e Kobane e garantire la sicurezza alla nostra gente”. L’obiettivo
dei 30mila combattenti che parteciperanno è far partire l’attacco allo
Stato Islamico in un’area a 50 km a nord di Raqqa (occupata da due anni) così da tagliare le vie di rifornimento usate dagli islamisti spingendoli verso sud.
I primi scontri si sono già registrati ieri nei pressi della comunità
di Ain Issa. E se è vero che l’Isis ha dalla sua una capacità militare
più strutturata di quella delle Sdf, da parte loro le Forze
Democratiche hanno una composizione etnica e religiosa che aiuterà al
momento dell’avanzata: formata anche da arabi, garantirà un maggiore
sostegno da parte delle comunità arabe occupate dall’Isis e che
potrebbero temere rappresaglie o sfollamenti da parti di altri gruppi,
come quelli kurdi.
L’operazione è così centrale che le superpotenze provano già a
metterci il cappello: sia Mosca che Washington hanno annunciato di
volersi coordinare con le Sdf per coprirne l’avanzata con raid aerei. In
particolare la Russia ha reiterato la proposta già mossa nei giorni
scorsi: operazioni coordinate con l’aviazione statunitense, opzione
rigettata dagli Stati Uniti.
Se la controffensiva guidata dai kurdi dovesse produrre risultati
militari gli effetti sia sul campo che nelle stanze della diplomazia
mondiale saranno immediati: Raqqa è stata eletta dall’Isis
propria capitale e, a livello simbolico, ha un’importanza strategica
perché mostrato come modello di amministrazione statuale dal “califfo”.
Per questo renderebbe la guerra lanciata dalla Turchia di Erdogan a
Rojava più difficilmente sostenibile dall’Occidente e potrebbe
mettere in pericolo il piano di zona cuscinetto che dopo mesi di
pressioni Ankara è riuscita a far digerire a Usa e Ue.
Ma soprattutto sarà sempre più difficile per l’Occidente escludere i kurdi di Rojava dal tavolo del negoziato di Ginevra,
da cui sono stati tagliati fuori dal diktat turco ufficializzato poche
settimane fa dal Consiglio di Sicurezza Onu, che ha messo il veto alla
proposta russa di inclusione del partito Pyd.
Dall’altra parte del confine, in Iraq, prosegue intanto l’operazione per la ripresa di Fallujah. Seconda
città della provincia di Anbar, simbolo della resistenza sunnita
all’occupazione statunitense, Fallujah ha – come Raqqa – un valore
simbolico consistente. Il governo di Baghdad guarda alla
controffensiva come al possibile strumento per spegnere le proteste
contro l’esecutivo di al-Abadi.
Ma non mancano gli ostacoli: in primo luogo, le conseguenze per la popolazione civile. Dentro
Fallujah ci sono ancora 60-100mila persone (dei 300mila presenti prima
dell’occupazione islamista), intrappolate dall’Isis. Sopravvivono
all’occupazione bevendo acqua del fiume e mangiando datteri secchi,
raccontano residenti fuggiti da poco. Con loro l’esercito iracheno dovrà
operare con estrema delicatezza per evitare che ulteriori
settarismi interni esplodano: le truppe di Baghdad circondano Fallujah
da mesi e questo impedisce l’ingresso di cibo e medicine. Per questo
Baghdad ha annunciato l’apertura di corridoi umanitari per sostenere la
fuga dei civili a ovest, sud-ovest e sud-est, e la costruzione di campi
che li possano accogliere.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento