Il neopresidente della Confindustria, Boccia, si è presentato ai suoi iscritti – imprenditori e prenditori di varia natura – con il primo discorso di investitura dopo la sua risicatissima vittoria alla guida dell’organizzazione padronale nel nostro paese. Due i passaggi che chiariscono il cambio di passo in corso: l’epoca della piccola impresa è finita (dunque addio per sempre a “il piccolo è bello”) e piede sull’acceleratore per le riforme controcostituzionali volute dal governo perché a pag. 17 della sua relazione Boccia sottolinea che sono sei anni – dal 2010 – che la Confindustria chiede la modifica del titolo 5 della Costituzione e la fine del bicameralismo.
Il cambio di passo conferma la visione politica generale della Confindustria. Per le piccole imprese italiane, nel processo di concentrazione/gerarchizzazione produttiva in Europa non c’è più posto. Quindi devono crescere e concentrarsi o morire, devono trovare il loro posto nelle filiere internazionali guidate dalle multinazionali (subendone tutte i ricatti) o chiudere, devono dare sufficienti garanzie alle banche o resteranno senza accesso al credito. Le banche appunto. L’unica critica è un invito a “visitare i capannoni e a non stare solo negli uffici”. Si realizza così davanti agli occhi dei Brambilla o degli eredi del made in Italy, lo scenario peggiore, da pochi intuito e da molti temuto. In un sistema industriale composto quasi al 90% da piccole imprese nate per aggirare lo Statuto dei Lavoratori o come proiezione naturale di migliaia di operai licenziati dalle grandi fabbriche e diventati “imprenditori di se stessi”, è come se il cielo fosse caduto sulla testa. Del resto sono i numeri a dire che dal 2007 a oggi migliaia di piccole e medie imprese industriali o dei servizi hanno dovuto chiudere i battenti, sia per la recessione sia per l’atteggiamento delle banche che, nonostante la liquidità a disposizione, hanno sistematicamente negato qualsiasi contributo alla tenuta o allo sviluppo del sistema industriale italiano. Non solo. Le uniche banche che in qualche modo – inclusi quelli truffaldini – avevano mantenuto un rapporto con il territorio (le cosiddette banche popolari), sono state messe alle strette. Liquidate, costrette a cercarsi una banca più grande alla quale aggregarsi.
In tutto questo, sia Boccia che l’ex di Confindustria diventato ministro – Calenda – hanno trovato la faccia tosta di riaffermare la necessità delle riforme istituzionali come urgenza per la ripresa. Quanto l’abolizione del Senato o la sua trasformazione in un baraccone di nominati possa incidere sul Pil resta ancora un mistero sul piano economico. Diventa più chiaro sul piano politico. La Confindustria vuole le mani libere su tutto, non solo sui licenziamenti, la riduzione dei salari, l’aumento dei ritmi di lavoro ma anche sulle procedure su cui si costruiscono i percorsi legislativi e i poteri decisionali. I padroni pensano ormai che è tempo di un cambiamento di paradigma sulle forze fondanti di questo paese e della Costituzione che si erano dati per ricostruirlo dopo le devastazioni della Seconda Guerra Mondiale. Boccia e i suoi non hanno più in mente il “patto tra produttori” in cui sia lavoro che capitale contribuivano – scontrandosi o accordandosi – alla crescita del paese, ma hanno in mente un “patto tra proprietari” simile a quello statunitense, in cui sono i rapporti e le condizioni di proprietà a diventare prioritari e decisivi, sia sul piano economico che su quello ideologico, incluso l’accesso alla rappresentanza elettorale. Un ritorno all’indietro di almeno un secolo che manda in soffitta anche il suffragio universale.
Infine, ma non per importanza, è decisivo mettere a fuoco il presupposto di questo processo. Molti giornali oggi dicono che “la Confindustria si schiera con Renzi”. E’ un errore di visione clamoroso. I termini vanno rovesciati. E’ Renzi che ha fatto e sta facendo quello che vuole la Confindustria, la European Round Table of Industrialists e le multinazionali. Del resto era stato Marchionne (uscito da una Confindustria diversa da quella di Boccia) a confermare che: “Renzi ce lo abbiamo messo noi”. Più chiaro di così! Per non suscitare inquietudini tutto lo chiamano “governance”, in pratica è un regime fondato su interessi ben definiti e organizzati: quelli dei ricchi.
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