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31/05/2016

Loi travail: la mediazione impossibile

Un’altra settimana di intensa mobilitazione contro la “loi travail et son monde” è appena trascorsa e il conflitto si inasprisce sempre di più.

Giovedì ha avuto luogo l’ottava giornata di mobilitazione nazionale, con manifestazioni partecipate da alcune centinaia di migliaia di persone in tutte le principali città della Francia. La partecipazione popolare è addirittura aumentata rispetto alle settimane precedenti, nonostante la repressione poliziesca e giudiziaria sia sempre più brutale.

Tale giornata di mobilitazione si è innestata su una settimana che aveva visto il blocco delle raffinerie del paese e dei principali snodi portuali, facendo seriamente temere che le riserve di carburante iniziassero a scarseggiare. La risposta del governo non si era fatta attendere: il premier Valls, con i soliti toni marziali, ha annunciato che contro i “bloqueurs”, nuovo bersaglio e capro espiatorio dopo i “casseurs”, sarebbe stata utilizzata la massima fermezza. Alla fermezza si è poi accompagnata la confusione quando, nel corso della medesima giornata, primo ministro, ministro dell’economia e presidente della repubblica si sono espressi in maniera differente circa la possibilità di modificare l’articolo 2 della legge, ossia la norma che permette ai contratti di lavoro a livello aziendale di derogare ai contratti collettivi nazionali.

A prescindere dalla discussione concernente l’articolo 2, il governo ha da tempo focalizzato il dibattito non tanto sul merito delle singole disposizioni, ma sull’ideologia che sta alla base della riforma e sulla sua necessità nel contesto della competizione infra-UE e globale. In questo senso, la contrarietà sempre più diffusa alla loi travail certifica l’insuccesso dei tentativi di produzione del consenso intorno ad un nuovo modello di vita e di lavoro che invece in altri paesi, come l’Italia, è riuscita in maniera molto più semplice.

Ci sembra opportuno rimarcare che, proprio al fine di produrre consenso, il governo cerca costantemente di ribaltare l’ordine del discorso, appropriandosi e strumentalizzando parole e tematiche che sono stati elementi centrali per il movimento contro la loi travail. Esempi di questa tendenza sono le affermazioni secondo cui l’utilizzo dell’art. 49.3 per far approvare la legge sarebbe democratico, mentre i blocchi delle fabbriche e gli scioperi sarebbero invece antidemocratici e attenterebbero alla libertà dei francesi. Occorre sottolineare, specie in un momento storico in cui gli organi di informazioni sono sempre più necessari alla costruzione ed alla legittimazione del discorso dominante, che le pratiche discorsive di un potere in difficoltà non riescono a colpire nel segno, né a sviluppare consenso intorno ad una riforma alla quale sono contrari, secondo i sondaggi, circa il 70% dei francesi.

Un ulteriore elemento problematico per l’esecutivo attiene alle modalità secondo cui si è venuto ad impostare il conflitto. Abbandonati gli iniziali toni parzialmente comprensivi verso i manifestanti, si è in seguito cercato di individuare capri espiatori, così da dividere il movimento e generare riprovazione verso coloro che partecipassero alle azioni più violente. Tuttavia, anche tale strategia è fallita: non vi è stata un’ondata di sconcerto e di sdegno per le azioni dei “casseurs”; al contrario, sin dall’inizio delle contestazioni un numero sempre maggiore di persone, molte delle quali non provenienti da precedenti esperienze di militanza, prende la testa del corteo e agisce in maniera spontanea ed incontrollata attaccando i simboli del capitalismo contemporaneo.

Inoltre, il delinearsi del conflitto con le opposizioni come rapporto di forza, ha portato l’esecutivo a concedere grande importanza all’aspetto più propriamente militare della gestione delle contestazioni. Tuttavia, anche in questo caso, l’operazione è parzialmente fallita, poiché nonostante la straordinaria brutalità dell’azione repressiva e le vere e proprie persecuzioni giudiziarie verso militanti delle realtà più attive (facilitate dalla vigenza dello stato d’emergenza), la contestazione non si è sedata, né la partecipazione è diminuita. Al contrario, tali pratiche repressive hanno generalizzato un odio profondo verso le forze dell’ordine ed il potere che esse difendono.

A nostro avviso, pare rilevante sottolineare come il conflitto che si è scatenato in Francia a partire dalla loi travail non sia ricomponibile. Esso non è ricomponibile proprio perché verte sulla visione del mondo delle due forze che si contrappongono, senza che vi possano essere possibili mediazioni che non siano solo un palliativo per una delle due parti in gioco. Tale conclusione, peraltro, non è minata dalla possibilità (per ora improbabile) di un accordo, in base al quale il testo attuale della legge sarebbe emendato e quindi accettato da alcuni dei sindacati che vi si oppongono: il conflitto è infatti andato molto oltre le singole disposizioni del testo normativo, e si è legato alla prospettiva ideologica che vi sta dietro. Esso si associa, soprattutto per quanto riguarda la composizione giovanile (protagonista così come in Grecia al momento del referendum del 5 luglio 2015), ad un rifiuto dell’esistente e ad un’opposizione radicale alle prospettive propagandate dai dominanti, ai loro miti fondativi ed all’universo desiderante proposto.

Infine, da tale opposizione alla loi travail non può non cogliersi un profilo di rifiuto rispetto alle politiche dell’Unione Europea. Come affermato dai membri dell’esecutivo e dal commissario UE francese Moscovici, la loi travail realizza quelli che sono i valori e le direttive dell’Unione Europea sul lavoro. Da questo punto di vista, quindi, una prospettiva rivoluzionaria rispetto al mondo della loi travail non può non far propria anche una prospettiva di rottura dell’Unione Europea.

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