Un’altra settimana di intensa mobilitazione contro la “loi travail et son monde” è appena trascorsa e il conflitto si inasprisce sempre di più.
Giovedì ha avuto luogo l’ottava giornata di mobilitazione nazionale,
con manifestazioni partecipate da alcune centinaia di migliaia di
persone in tutte le principali città della Francia. La partecipazione
popolare è addirittura aumentata rispetto alle settimane precedenti,
nonostante la repressione poliziesca e giudiziaria sia sempre più
brutale.
Tale giornata di mobilitazione si è innestata su una settimana che
aveva visto il blocco delle raffinerie del paese e dei principali snodi
portuali, facendo seriamente temere che le riserve di carburante
iniziassero a scarseggiare. La risposta del governo non si era fatta
attendere: il premier Valls, con i soliti toni marziali, ha annunciato
che contro i “bloqueurs”, nuovo bersaglio e capro espiatorio dopo i “casseurs”,
sarebbe stata utilizzata la massima fermezza. Alla fermezza si è poi
accompagnata la confusione quando, nel corso della medesima giornata,
primo ministro, ministro dell’economia e presidente della repubblica si
sono espressi in maniera differente circa la possibilità di modificare
l’articolo 2 della legge, ossia la norma che permette ai contratti di
lavoro a livello aziendale di derogare ai contratti collettivi
nazionali.
A prescindere dalla discussione concernente l’articolo 2, il governo
ha da tempo focalizzato il dibattito non tanto sul merito delle singole
disposizioni, ma sull’ideologia che sta alla base della riforma e sulla
sua necessità nel contesto della competizione infra-UE e globale. In
questo senso, la contrarietà sempre più diffusa alla loi travail
certifica l’insuccesso dei tentativi di produzione del consenso intorno
ad un nuovo modello di vita e di lavoro che invece in altri paesi, come
l’Italia, è riuscita in maniera molto più semplice.
Ci sembra opportuno rimarcare che, proprio al fine di produrre
consenso, il governo cerca costantemente di ribaltare l’ordine del
discorso, appropriandosi e strumentalizzando parole e tematiche che sono
stati elementi centrali per il movimento contro la loi travail.
Esempi di questa tendenza sono le affermazioni secondo cui l’utilizzo
dell’art. 49.3 per far approvare la legge sarebbe democratico, mentre i
blocchi delle fabbriche e gli scioperi sarebbero invece antidemocratici e
attenterebbero alla libertà dei francesi. Occorre sottolineare, specie
in un momento storico in cui gli organi di informazioni sono sempre più
necessari alla costruzione ed alla legittimazione del discorso
dominante, che le pratiche discorsive di un potere in difficoltà non
riescono a colpire nel segno, né a sviluppare consenso intorno ad una
riforma alla quale sono contrari, secondo i sondaggi, circa il 70% dei
francesi.
Un ulteriore elemento problematico per l’esecutivo attiene alle
modalità secondo cui si è venuto ad impostare il conflitto. Abbandonati
gli iniziali toni parzialmente comprensivi verso i manifestanti, si è in
seguito cercato di individuare capri espiatori, così da dividere il
movimento e generare riprovazione verso coloro che partecipassero alle
azioni più violente. Tuttavia, anche tale strategia è fallita: non vi è
stata un’ondata di sconcerto e di sdegno per le azioni dei “casseurs”;
al contrario, sin dall’inizio delle contestazioni un numero sempre
maggiore di persone, molte delle quali non provenienti da precedenti
esperienze di militanza, prende la testa del corteo e agisce in maniera
spontanea ed incontrollata attaccando i simboli del capitalismo
contemporaneo.
Inoltre, il delinearsi del conflitto con le opposizioni come rapporto
di forza, ha portato l’esecutivo a concedere grande importanza
all’aspetto più propriamente militare della gestione delle
contestazioni. Tuttavia, anche in questo caso, l’operazione è
parzialmente fallita, poiché nonostante la straordinaria brutalità
dell’azione repressiva e le vere e proprie persecuzioni giudiziarie
verso militanti delle realtà più attive (facilitate dalla vigenza dello
stato d’emergenza), la contestazione non si è sedata, né la
partecipazione è diminuita. Al contrario, tali pratiche repressive hanno
generalizzato un odio profondo verso le forze dell’ordine ed il potere
che esse difendono.
A nostro avviso, pare rilevante sottolineare come il conflitto che si è scatenato in Francia a partire dalla loi travail non
sia ricomponibile. Esso non è ricomponibile proprio perché verte sulla
visione del mondo delle due forze che si contrappongono, senza che vi
possano essere possibili mediazioni che non siano solo un palliativo per
una delle due parti in gioco. Tale conclusione, peraltro, non è minata
dalla possibilità (per ora improbabile) di un accordo, in base al quale
il testo attuale della legge sarebbe emendato e quindi accettato da
alcuni dei sindacati che vi si oppongono: il conflitto è infatti andato
molto oltre le singole disposizioni del testo normativo, e si è legato
alla prospettiva ideologica che vi sta dietro. Esso si associa,
soprattutto per quanto riguarda la composizione giovanile (protagonista
così come in Grecia al momento del referendum del 5 luglio 2015), ad un
rifiuto dell’esistente e ad un’opposizione radicale alle prospettive
propagandate dai dominanti, ai loro miti fondativi ed all’universo
desiderante proposto.
Infine, da tale opposizione alla loi travail non può non
cogliersi un profilo di rifiuto rispetto alle politiche dell’Unione
Europea. Come affermato dai membri dell’esecutivo e dal commissario UE
francese Moscovici, la loi travail realizza quelli che sono i
valori e le direttive dell’Unione Europea sul lavoro. Da questo punto di
vista, quindi, una prospettiva rivoluzionaria rispetto al mondo della loi travail non può non far propria anche una prospettiva di rottura dell’Unione Europea.
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