RECENSIONE DEL LIBRO: “IL TRAMONTO DELLA RIVOLUZIONE”.
Socialismo2017 nasce dall’esigenza impellente di riproporre con forza la questione del socialismo e della rivoluzione. Senza questo obiettivo si brancola nel buio. Non abbiamo criteri per valutare cosa sia giusto e cosa sbagliato. Non c’è egemonia possibile. A rigor di teoria non potremmo nemmeno dirci comunisti.
Proprio a causa di questa esigenza ho incontrato il libro: “Il tramonto della rivoluzione” dello storico cattolico Paolo Prodi (sì, fratello di Romano).
Paolo Prodi non si riferisce alla rivoluzione proletaria. Pone il problema ad un livello più generale: la rivoluzione in quanto tale. Ed ancora: la rivoluzione come tratto originario dell’Europa.
Già dall’inizio viene chiarito che si intende la rivoluzione come progetto di società a prescindere da come questa si realizzi. La rivoluzione, dunque, non rivolta, colpo di stato, movimenti, visioni, transizioni. Ah potesse fare qualche lezioni ai tanti movimentisti e “conflittisti” che si pensano di sinistra o rivoluzionari!
Prodi afferma che l’origine della rivoluzione così intesa nasce da molto lontano, dalla profezia, la profezia come voce di Dio, storia della salvezza dell’umanità. Essa veniva evocata dagli outsider, dagli esclusi dal tempio. Era contrapposta al potere che dominava il mondo. In questo senso, dunque, la profezia non è conoscere il futuro, né parlare con l’aldilà.
Questo avviene fino a dopo Cristo quando la profezia si istituzionalizza nella Chiesa.
Ad un certo punto, tuttavia, la profezia istituzionalizzata nella Chiesa si sdoppia.
Da una parte c’è il millenarismo astorico che non si pone il problema della storia come salvezza e dall’altra la secolarizzazione che diventa utopia e progetto rivoluzionario.
Vari sono i nomi e paesi di queste rivoluzioni: Papa Gregorio, Lutero, inglese, americana, francese, russa.
Noto è lo scontro fra papato e imperatore. In questo processo si modifica anche l’investitura del potere: dall’unzione si passa al giuramento. Quest’ultimo dà vita al ruolo del basso e della rappresentanza. Ciò introduce anche il diritto di rivolta quando il giuramento non è rispettato. Era quanto una minoranza cattolica ha tentato di introdurre, invano, anche nella Costituzione del ’48. Come sarebbe utile oggi!
Il processo, accanto alla creazione degli stati prima e delle nazioni-patrie poi, porta alla laicizzazione politica, alle norme morali divise dalla legge, al peccato separato dal reato. Nasce anche una dialettica fra il diritto positivo e quello naturale. Nasce poi un altro potere, un potere de-territorializzato: quello economico. Prodi lo chiama: “la Repubblica internazionale del denaro”. C’è poi il capitale ed il proletariato.
In questa processo la storia cessa di essere circolare come il moto degli astri per puntare la freccia verso il futuro: salvezza e progresso.
Dalla profezia, dunque, si passa all’utopia. Si parte da Savonarola che concretizza la profezia nell’utopia del progetto di un “governo popolare” contro il moderno principe.
Ma ci sono anche le utopie sono senza luogo e senza tempo alla Thomas More.
Ma le utopie, ci avverte l’autore, si possono sacralizzare come è avvenuto per il comunismo. Questo avviene quando utopia e potere vengono a coincidere. In questo senso, afferma Prodi, non si coglie il problema del potere, del male e della violenza insita nel pensiero utopico.
Tuttavia la profezia, l’utopia, lo scontro fra sacro-politico-economico danno vita ad una rivoluzione permanente che sarebbe, appunto, il tratto originale dell’occidente.
Prodi analizza anche il presente più o meno prossimo. Il ’68, ad esempio, non sarebbe stato nè utopico nè rivoluzionario. L’utopia, infatti, è diventata debole invocazione di una società giusta, una visione. Infatti, dopo le guerre mondiali, la shoa, le atomiche, intere generazioni hanno decretato il tramonto dell’Occidente fuggendo in due direzioni: le rivoluzioni culturali e la fede nello sviluppo tecnologico. Vale a dire: nessuna progettazione di futuro. Oggi siamo al passaggio dal 2.0 al 2.1 ecc. ecc. della “rivoluzione tecnologica”.
Tutto ciò porta alla fine del mito della rivoluzione e della modernità.
Prodi afferma poi che se tutto è concorrenza, costi, mercato: abbiamo perso l’una e l’altra.
E per quanto riguarda l’Europa è critico perchè si parla di identità, radici culturali e non di interessi. La democrazia, al contrario, rappresenta il welfare e il lavoro. Spinelli, dunque, non basta più.
Ma tutto ciò è sintomo di qualcosa di più grave: i dualismi non ci sono più.
L’attualità sembra portare allo sviluppo di un monopolio del potere economico-politico che vaga sopra i confini. Mentre, nel mito della tecnica, lo strumento diviene fine. Così siamo alla rottura fra scienza e tecnologia. La tecnologia domina sull’uomo e la natura. Mentre ci si divide sulla lunghezza della vita, non si parla di temi etici. I poteri pubblici e privati, a loro volta, alimentano solo il progresso tecno/genetico. E, fatto grave, La storia diviene un peso. Se non capisco male, è quello che noi chiamiamo: “pensiero unico”.
Ad oriente la rinascita del confucianesimo esprime questa tendenza. La fine della contraddizione, direbbe Mao.
Mentre la forza attuale dell’Islam è dovuta alla crisi del dualismo occidentale sostituito dal monismo del consumo. Ma sull’islam il testo avanza altre riflessioni interessanti.
Si è dunque rotta la simbiosi fra progettazione razionale della libertà: alcuni valori (vedi rivoluzione francese) e la politica concreta.
In questo modo si aprono fratture enormi: l’individuo europeo non sarebbe assimilabile al nuovo corso. La rete, ad esempio, è basata sul gruppo e non sull’individuo occidentale.
Secondo l’autore bisogna prendere coscienza che l’era della tecnica rende desueta la nostra cultura politica e che controllarla con le nostre istituzioni è illusorio.
Per altro verso, i giovani cancellano il passato perché non intravedono il futuro. E qui si torna ad Orwell: chi controlla il passato controlla il futuro, ma chi controlla il presente controlla il passato. Per Prodi il futuro delle nuove generazioni dipende, dunque, dalla conservazione da parte dell’Europa e dell’occidente del potenziale rivoluzionario, contro l’annullamento dell’individuo e la non responsabilità della scelta fra bene e male.
Ed ermeticamente conclude che: ”Così la rivoluzione per sopravvivere avrà bisogno di altri obiettivi”. Non so se allude alle religioni abramitiche. Per l’autore, la frattura che si sta aprendo, sarebbe infatti fra le religioni di Abramo e il capitalismo finanziario.
Di questo testo si possono criticare molte cose. Una sostanziale è la sostituzione del rapporto fra forze produttive e rapporti sociali di produzione con la lotta della salvezza. Fino a qualche secolo fa, tuttavia, la religione è stata l’unico ambito in cui è stato possibile pensare il cambiamento. E sul loro ruolo anche oggi non si scherza. Ma è anche discutibile dimenticare il ruolo narcotico delle religioni. Discutibile anche che tutte le religioni abramitiche abbiano quella carica rivoluzionaria che vi si attribuisce. Tuttavia, lo stesso Woitjla, dopo il crollo dei paesi dell’est, rivolse lo sguardo verso il vero pericolo: il capitalismo. Oggi la palla è passata a papa Francesco.
Ad ogni modo la riproposizione del concetto di rivoluzione, della rivoluzione come progetto, del dualismo e della dialettica, della lotta fra poteri e interessi, ne fanno un testo interessante. Prodi infatti afferma che si tratta di cogliere il dualismo occidentale non come pensiero di filosofi ma come processo storico. Il dualismo porta alla modernità come movimento, mentre il postmoderno si e ci chiude nel qui ed ora, nell’eterno presente.
Riguardo alla sacralizzazione dell’utopia in campo marxista, in effetti, ci fu una discussione fra il comunismo come utopia ed il socialismo come realizzazione storica. Il fondo che ha dato avvio a Socialismo2017: “ritorno al futuro” si pone in qualche modo anche questo tema.
Ma il testo pone anche altre domande. L’idea della salvezza e del progresso come freccia verso il futuro e come accumulo sempre positivo non è stato un errore filosofico che ha comportato anche errori storici?
Comunque sia è un testo interessante. Chiunque ponga il problema della rivoluzione è benvenuto. Quello che fa incazzare (non vedo altro termine più appropriato) è che ciò non accada da parte di chi si pensa rivoluzionario, comunista. Ma forse non è così strano. Per questo chiudiamo con la citazione di una frase che vale il libro:”Niente ideologia, niente rivoluzione”.
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