Spesso si analizzano i conflitti geostrategici e le dinamiche della crisi come “tendenza alla guerra”. Si intende, con questa espressione, un procedere non lineare né voluto, ma inarrestabile, verso una recisione traumatica dei mille nodi ingarbugliati del presente. Una tendenza frenata, fin qui, solo dal numero elevato di paesi dotati di arsenale nucleare e missili balistici intercontinentali, che rende qualsiasi possibile conflitto tra alcuni di essi un gioco a somma zero per l’umanità intera.
Su questa tendenza, e i suoi rischi, convergono ormai anche numerosi osservatori mainstream, a dimostrazione della forza con cui il processo storico si fa riconoscere anche da chi vorrebbe esorcizzare gli sbocchi pericolosi senza metterne in discussione le cause motrici.
Stranamente, però, questo livello di analisi non si intreccia mai con le tendenze politiche che si vanno sviluppando all’interno delle principali aree del capitalismo contemporaneo. Come se il montare della cosiddetta “antipolitica”, negli Stati Uniti come in Europa, e lo sbocciare di populismi di segno decisamente opposto – ce ne sono di destra, e si vedono, ma ne esistono da anni anche di rivoluzionari (Venezuela, Bolivia, ecc.) – fossero dipendenti da dinamiche diverse, solo “culturali”, slegate dalle concrete condizioni di vita delle popolazioni.
Il cortocircuito delle spiegazioni ad hoc sta diventando evidente, in queste settimane, in chi si misura con i due cicloni che stanno cambiando il quadro della politica Usa – Trump tra i repubblicani e Sanders tra i democratici – abbarbicandosi con disperazione crescente all’ultima rappresentante del vecchio establishment, Hillary Clinton. Con stupore leggono i sondaggi che danno sia Trump che Hillary ai vertici dell’impopolarità: il 60% degli intervistati, di fatto, non vorrebbe mai vederli alla Casa Bianca, ovviamente per ragioni opposte (“cane pazzo” il tycoon dell’immobiliare, “serva di Wall Street” l’ex first lady poi ministro degli esteri nel primo mandato di Obama). “Cambiamento reazionario” contro “stanca conservazione”, dando per scontato che Sanders non conquisterà la nomination soprattutto per l’opposizione granitica del “grandi elettori” (assai poco) democratici.
Non ci interessa qui fare previsioni sull’esito del voto, ma illuminare un non detto.
La crisi dell’America ad egemonia bianca e anglosassone, fatta di ceto medio che in un quarto di secolo ha visto ridursi drasticamente il proprio reddito, si va polarizzando tra le due soluzioni radicali (reazione e “socialismo”). Non è assolutamente importante quanto entrambi i candidati rappresentino fedelmente o no la soluzione (si può e si deve, per esempio, eccepire molto su quanto Sanders sia effettivamente un “socialista”). Il dato rilevante è che nella società i vari blocchi sociali si vanno orientando verso una drastica cesura con i compromessi che hanno tenuto banco nel dopoguerra e che oggi, all’evidenza, non garantiscono più un equilibrio sociale accettato.
Soluzioni alternative che sono sintomo di un malessere davanti a un presente complesso, imperscrutabile nelle sue dinamiche, ma certamente negativo nei suoi effetti sociali. Soluzioni immaginate – magari anche immaginarie – per semplificare questa complessità che esclude nel momento stesso in cui, secondo i riti della democrazia liberale, promette stancamente di includere. Un giorno, forse; abbiate intanto fede nella ripresa, nell’uscita dalla crisi, nella luce in fondo al tunnel...
L’esigenza di “semplificare”, di ritrovare un senso comprensibile dentro il caos e la crescente certezza dell’impotenza (individuale e collettiva), è a sua volta una manifestazione della “tendenza alla guerra”. Lo è dal punto di vista di vastissimi settori sociali che non riescono più a vivere o sopravvivere come prima, anche se palesemente non sanno in quale altro modo si possa vivere. Lo è al punto da far preferire i rischi dell’ignoto davanti all’impossibilità – verificata – di correggere gli squilibri per via “normale”.
Questo è un processo oggettivo, sia pur riflesso nella coscienza incosciente di masse sterminate di esseri umani. I “populismi” europei non sono infatti molto diversi e segnalano una reazione – spesso puramente reazionaria – a una gestione della crisi che accentua drammaticamente le diseguaglianze.
Le cose si disfano, il centro non tiene più. Qualsiasi cambiamento, in qualsiasi direzione, non sarà “riformista”...
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