Fino a dieci anni fa o giù di lì, per capire dove stava andando il capitalismo occorreva guardare a quel che avveniva negli Stati Uniti. Ora bisogna guardare a quel che avviene in Cina. Per lo meno per quel che riguarda l’evoluzione della produzione manifatturiera (altra cosa sono i mercati finanziari, saldamente incentrati sull’asse New York-Londra).
La Cina è diventata la manifattura del mondo grazie a un costo del lavoro (40 anni fa) ai minimi mondiali, per una forte concentrazione politica del potere (il sindacato è un’espressione del partito, quindi ha per baricentro la realizzazione degli obiettivi di piano, non la rappresentanza puntuale dei lavoratori), per l’apertura agli investimenti stranieri sia pur mediata dall’obbligo della condivisione del know how.
Centinaia di milioni di persone hanno così smesso di essere contadini in esubero per trasformarsi in operai industriali, assicurando un tasso di crescita del Pil superiore al 10% per oltre venti anni e facendo conquistare al paese il ruolo di seconda potenza industriale del pianeta.
Ogni favola ha una fine, anche e soprattutto quelle capitalistiche.
La notizia che dà il segno certo della svolta è questa: la Foxconn, azienda taiwanese che produce la metà delle componenti dei dispositivi elettronici di consumo venduti nel mondo, “ha ridotto la propria forza lavoro da 110 mila a 50 mila persone grazie all’introduzione dei robot e ha segnato un successo nella riduzione del costo del lavoro”.
La Foxconn era anche conosciuta per l’alto tasso di suicidi tra i suoi lavoratori, schiacciati da ritmi infernali. Quindi non si può davvero dire che non avesse di mira la massima “produttività”. Ma i robot fanno meglio, più velocemente, senza soste fisiologiche, 24 ore su 24. Non si lamentano, non pretendono adeguamenti salariali, non si ammalano, non scioperano mai e non rischiano di farlo in futuro. Al massimo si rompono e vanno aggiustati.
Inutile aggiungere che decine di altre aziende operanti in Cina stanno per fare lo stesso, magari su scala dimensionale anche superiore al 50% del personale (dipende dal tipo di processo produttivo e dai prodotti).
L’automazione della produzione sta del resto conquistando tutte le fabbriche del pianeta e i “futurologi” stanno già sfornando elenchi di mansioni lavorative a rischio scomparsa e percentuali da capogiro nella sostituzione di uomini e donne con macchine. Tutto ciò che è seriale può esser fatto meglio, con più precisione e senza soste da un robot. Sia a livello manuale che “cognitivo”. Non c’è impiegato “di concetto” che possa sentirsi al sicuro. Solo le professioni “creative” possono – entro certi limiti, comunque – essere risparmiate da questa corsa alla robotizzazione.
La “quarta rivoluzione industriale” ha per orizzonte la produzione senza lavoro umano o quasi (resteranno, seppur molto più limitate, solo le attività di installazione, manutenzione e programmazione dei robot), sia sulle linee che negli uffici. Miliardi di esseri umani non avranno più un’occupazione, né potranno riciclarsi in altre attività in espansione, perché non avranno le cognizioni di base per fare il salto da una all’altra.
Qualche esempio per capirsi? Un tecnico, per quanto bravissimo, non può diventare un ingegnere informatico o elettromeccanico. Se perde il lavoro, mettiamo, intorno a 40 anni, con famiglia e figli a carico, non può tornare all’università per i cinque sei anni necessari a fare l’upgrade delle sue conoscenze. In ogni caso, serviranno assai meno ingegneri di quanti tecnici si troveranno a spasso. Un impiegato di banca non può diventare un finanziere o un broker, ed in ogni caso ci sono molti più bancari di quanti saranno i broker in attività.
Non parliamo nemmeno delle mansioni meno qualificate, sostituibili a decine con click... Un esempio? I poliziotti “indispensabili” saranno solo quelli necessari per le scorte e il controllo delle manifestazioni di piazza, oltre a informatici e analisti video. Gli “investigatori”, dopo la commissione di un reato, si limitano già a controllare le registrazioni video del luogo, risalendo fino al punto in cui il colpevole apparirà con volto, nome e cognome. Si interviene a valle, senza problemi, o su “soffiata”...
La domanda, epocale, è persino disperatamente semplice. Che fine faranno quei miliardi di esseri umani senza possibilità di guadagnarsi da vivere vendendo la propria forza lavoro?
La risposta capitalistica è una presa in giro (“usciranno fuori altri lavori”).
Se la produzione può esser fatta ormai con un minimo apporto di lavoro umano, o si uccidono miliardi di uomini o si elimina la proprietà privata del mezzi industriali che servono a produrre.
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