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22/05/2016

Il Livorno, Livorno e le retrocessioni

Paragonare lo stato della città a quello della squadra di calcio è una abitudine lontana. Abitudine non del solo nostro paese e non è neanche questione che riguarda il solo calcio. A Pittsburgh, nonostante che le acciaierie abbiano fatto da tempo posto ad una nuova economia, la squadra di football americano si chiama ancora Steelers, operai dell’acciaio, come se la città fosse ancora il nido di ciminiere fordiste che è stata nel passato. Anche perché, e anche qui non è una novità, ci sono classi, ceti sociali che fanno parte di un mito fondativo che spesso è difficile quanto stupido rimuovere. È quindi automatico che l’identità sportiva di una città guardi a quella sociale ed economica. Tanto più nel calcio dove il campanilismo è una tensione identitaria che coinvolge, anche se sempre meno, entrambi gli aspetti.

Così questa volta il Tirreno ha provato a leggere la retrocessione in serie C del Livorno Calcio come parte di un processo, più vasto, di retrocessione della città. Siccome di retrocessioni economiche, e calcistiche, della città ne abbiamo viste, suggeriamo qualche riflessione. La prima è che, per quello che riguarda Livorno, i cicli di crescita, o di crisi, della squadra di calcio sono sempre stati sganciati da quelli della città. Almeno dal dopoguerra, il resto è altra storia. Per esempio nel 1972 il Livorno sarà la prima squadra di calcio a fallire, poi ne seguiranno tante, in tutto il panorama del pallone italiano. Eppure Livorno si stava avviando ad uno dei migliori cicli economici, ed occupazionali, di sempre, che la porterà ad essere ai vertici dei livelli di reddito nazionali nella seconda metà dagli anni ’70. La risalita sportiva del Livorno, prima con Achilli e poi con Spinelli, è sganciata dal lungo ciclo di declino economico e sociale di Livorno che comincia con l’inizio degli anni ’90. Semmai è vera un’altra storia: l’establishment di centro-sinistra non ha saputo agganciarsi, e creare occasioni di sviluppo economico, dal periodo dell’ascesa del Livorno fino alla serie A. E sì che in una città, di fatto, postindustriale, il turismo e i servizi possono trovare un bel volano economico col calcio.

Ma qui basta raccontare una storia vera che è esemplare per catalogare tutta una classe dirigente ormai alle nostre spalle. Ovvero quando un assessore, allora in carica su questioni legate allo sport, fu mandato in missione in nord Europa, dall’allora sindaco, per vedere se fosse davvero possibile trovare una azienda che costruisse un nuovo stadio. L’assessore tornò a Livorno, il responso fu positivo, la cosa economicamente era fattibile, ma non se ne fece di nulla. Perché l’allora sindaco si era incartato nel consueto gioco di relazioni, e di veti incrociati tra ceti di potere locale, che rendeva impossibile, come al solito, realizzare un’opera funzionale ai bisogni della città. E fu, come si direbbe oggi, missione all’estero a vuoto a spese del contribuiente. E se il Livorno non retrocesse, all’epoca nemmeno dalla serie A, Livorno, in questo modo di incartarsi, era già retrocessa. Anzi lo è da un punto imprecisato degli anni ’80, ancor prima delle leggi Prandini e della Bolognina, quello in cui si mostrava con chiarezza che il modello fordista del boom economico locale ormai andava verso un serio ridimensionamento. Modello al quale la Livorno di centrosinistra non ha mai saputo trovare una alternativa, in lustri di convegni tra big incravattati e ammiragli. Da allora di retrocessioni ce ne sono state, anche un fallimento (di un presidente, Carlo Mantovani, all’inizio sostenuto dal Tirreno come se fosse stato l’Abramovich di allora, scusate se qualcuno di noi ha robusta memoria), ma non ci ricordiamo che la stampa locale abbia mai osato paragonare i fallimenti del calcio a quelli della città. E tantomeno che la stessa operazione sia stata fatta con il basket – un tempio gioiello sportivo della città che oggi sopravvive grazie alla passione dei dirigenti di base – sport nel quale l’amministrazione comunale si è impegnata direttamente (e malamente, per non dire altro, nella vicenda fallimento della Basket Livorno).

La vera novità oggi è che una parte di classe che si sente, o si autoproclama, dirigente della città non riesce ad elaborare il lutto. Quello che vuole che il cerchio magico del declino del potere livornese – quello che teneva assieme da decenni istituzioni, professioni, cariche e stampa secondo criteri da paese rurale di inizio ‘900 – si sia rotto con le elezioni del 2014. Ed ogni occasione, compreso ovviamente il calcio, è buona per rielaborare questo dolore gettandosi contro un potere politico che è riconosciuto come estraneo. In questo senso la rielaborazione del dolore compulsivo di certa stampa, e di certi lettori, dall’assenza del potere di centrosinistra la si vede nel numero del Tirreno dedicato alla “doppia” retrocessione: calcistica ed economica. Lo si vede nell’assist, e il protagonismo, che il giornalista dedica ad un prete (Don Razzauti) assolutamente confuso su come funziona l’economia oggi quanto assolutamente attento a ricostruire relazioni di potere da notabili distrutte negli ultimi anni. Il dolore che elabora il Tirreno, usando come pretesto il calcio, è quello di una città di notabili priva della copertura del potere politico per fare quel che ha sempre fatto. Oggi il prete, ieri il revisore dei conti, l’altro ieri qualche protagonista della concertazione che fu, sperso, disorientato, arrabbiato. Tutti uniti nel desiderio di sorta di Termidoro aglio, olio e peperoncino assolutamente non in grado, in futuro, di governare Livorno. Nemmeno arruolando qualche giovane prestanome come attore di facciata.

Ora, noi i limiti della giunta a 5 stelle li abbiamo evidenziati. Non avendo certo necessità identitaria, o di obbedienza a relazioni di potere, nel farlo li abbiamo evidenziati meglio di chi soffre di assenza compulsiva del governo Pd. Anzi siamo in grado di percepire le difficoltà reali della giunta con ricostruzioni oggettive, e approfondite, non come elemento ancillare di propaganda al personaggio di giornata. Per questo una cosa la possiamo dire: Livorno non sarà mai più, in futuro, come la pensano il Tirreno e i Don Razzauti. Perché siamo entrati in processi di ristrutturazione che spazzano la base materiale su cui vivono i notabili locali, perchè la globalizzazione agisce sui territori, e su una città di mare, in modo diverso da come pensa il centrosinistra. E l’economia e il mondo del lavoro sono sideralmente diversi da come li immagina il vescovo fermo, in queste cose, agli anni della formazione in seminario. Nel bene e nel male, nel dramma (e ce ne saranno) e nelle innovazioni. Quanto al Livorno, nella partita che contava davvero il pubblico ha risposto. E’ una cosa positiva. Il domani si vedrà. Alla fine della guerra lo stadio, come tale, era stato requisito dall’esercito americano. Dello stadio precedente sembrava ci fosse rimasto poco. Alla fine, la squadra ripartì. Anche la città può farlo, basta solo non guardi ad un passato, recente e remoto, che non tornerà. Come è accaduto a Pittsburgh dove l’identità è preservata dalla squadra di football e dove il modello di sviluppo oggi è molto diverso, e maggiormente innovativo, rispetto ai tempi della fabbrica fordista.

Redazione, 22 maggio 2016

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