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22/05/2016

Fine dell’era del petrolio?

L’oro nero tra caduta dei prezzi e guerre commerciali. In futuro solo un’economia globale meno dipendente dai consumi energetici potrà garantire pace e sostenibilità

Alla fine del 2015 il prezzo del petrolio era crollato ai valori di inizio secolo, dopo aver raggiunto un picco vicino ai 150 dollari al barile nel 2008. Le previsioni indicano che i prezzi continueranno a mantenersi bassi per tutto il 2016, cosa che sembra difficile da spiegare in un mondo nel quale è sempre più costoso produrre petrolio. Tuttavia questa situazione viene, paradossalmente, a confermare la fine dell’era del petrolio poco costoso. Vale la pena di provare a dare una risposta a quello che sta succedendo.

Crisi nei petroli convenzionali e non convenzionali

All’inizio di questo secolo la minaccia del “picco” del petrolio (massimo mondiale possibile di produzione) caratterizzava le analisi del mercato petrolifero. L’attesa di un’evidente restrizione dell’offerta di greggio portò gli investitori a orientare le loro risorse verso una nuova tecnologia: lo “shale oil” e il “tight oil” (petrolio di scisto o da formazioni compatte). L’aspettativa di prezzi alti provocò una “rivoluzione dello shale” negli Stati Uniti. La conseguenza fu che a partire dal 2010 la produzione di petrolio in questo paese passò da 0,5 a 4,5 milioni di barili al giorno nel 2014. Ma la macchina ha ucciso l’inventore e l’offerta nordamericana ha inondato il mercato, cosa che insieme alla decelerazione dell’economia ha provocato la caduta dei prezzi. Le compagnie petrolifere nordamericane hanno cominciato a tagliare le spese, hanno venduto titoli, hanno ridotto a meno della metà la quantità di pozzi, ma la maggioranza delle imprese è riuscita a sopravvivere. Tuttavia, già sotto i 50 dollari al barile, imprese perforatrici come la Samson Resources e la Magnum Hunter Resources hanno dichiarato fallimento e ci si attende che altre le seguano (come la Chesapeake, la Southwestern Energy e la Ultra Petroleum). Se i prezzi rimarranno sotto i 50 dollari al barile, la crisi dello shale negli Stati Uniti potrebbe far crollare le istituzioni bancarie e finanziarie che lo avevano reso possibile, così com’è stato segnalato da vari analisti. Ma la crisi non ha colpito solo le compagnie petrolifere nordamericane: la Bp ha annunciato la riduzione del suo personale del 15%, la Pemex ha comunicato che licenzierà 13.000 lavoratori, la Shell ha venduto parte dei suoi titoli, solo per fare alcuni esempi. L’Opec nel frattempo ha mantenuto alti i suoi volumi di produzione (con costi minori dei suoi avversari dello scisto) nel tentativo, secondo alcuni analisti, di demolire l’industria nordamericana. Tuttavia questa strategia risulta pericolosa perché danneggia le economie dei paesi arabi e di altri stati petroliferi. A tal punto che il governo saudita sta studiando la possibilità di privatizzare alcuni settori dell’impresa petrolifera nazionale, la Saudi Arabian Oil Co. (Saudi Aramco). Questa è l’unica impresa produttrice di petrolio saudita, possiede le seconde maggiori riserve di petrolio del mondo e controlla la produzione di più del 10% del petrolio mondiale.

In Arabia Saudita il deficit del 2015 ha raggiunto i 98 miliardi di dollari (il doppio del previsto) e i prezzi interni del petrolio sono saliti del 40%. Provvedimenti simili sono stati presi in altri paesi come gli Emirati Arabi e il Venezuela. Gli Stati arabi dell’Opec si trovano ad affrontare i gravi problemi politici che scaturiscono dalla riduzione della spesa sociale statale e l’aumento dei prezzi dei beni di consumo provocato dalla caduta delle entrate fiscali. Tutta la zona si è trasformata in una polveriera. Il ritorno sul mercato dell’offerta iraniana dopo l’eliminazione delle sanzioni commerciali non farà altro che rafforzare la tendenza ai prezzi bassi del petrolio. I primi messaggi lanciati da Teheran confermano i suoi piani di esportare tutto il greggio possibile, il che aumenterà l’eccesso di offerta. L’altra visuale sulla caduta dei prezzi è in relazione non tanto con l’“eccesso di offerta” di greggio, ma piuttosto con la “scarsità di domanda” che trae origine dalla decelerazione dell’economia, particolarmente di Cina, Brasile, Russia e Unione Europea. A questo si aggiunge un inverno mite che ha ridotto la domanda di riscaldamento in Giappone, Europa e Stati Uniti. Si deve rilevare che tutte le materie prime si sono svalutate e non solo il petrolio, manifestando una forte contrazione sui mercati. Attualmente si calcola che l’offerta quotidiana di greggio sia di uno o due milioni di barili al di sopra della domanda. Pertanto, sembra abbastanza verosimile supporre che il prezzo del petrolio sia sceso per la crisi economica più che per speculazioni del potere geopolitico.

Prezzi futuri

Fare pronostici sui prezzi futuri del petrolio è un’avventura. Ci sono troppi fattori che influiscono nel gioco e a dire il vero sono poche le proiezioni che si avverano. Inizialmente c’è da aspettarsi che i bassi prezzi finiscano per aumentare la domanda e vengano liquidate le eccedenze di petrolio, per cui i prezzi potrebbero tornare a salire. Ma questo non dovrebbe succedere quest’anno. D’altro canto ci sono troppi attori governativi interessati a mantenere bassi i prezzi. Abbiamo già citato l’Arabia Saudita e la sua battaglia contro lo scisto statunitense. Ma a differenza di quanto accade in Arabia Saudita dove la proprietà del petrolio e l’impresa sono statali, negli Stati Uniti la proprietà è privata. Bisogna vedere fino a che punto gli interessi interni pesano su quelli geopolitici e fino a dove sarà disposta ad arrivare l’amministrazione Obama per cercare di distruggere altre economie petrolifere come quella di Arabia Saudita, Russia o Venezuela. Peraltro bisogna far notare che l’opinione pubblica statunitense è felicissima per la diminuzione dei prezzi interni della benzina. La Russia da parte sua ha svalutato molto la sua moneta e pertanto le entrate in dollari convertiti in rubli si mantengono relativamente costanti nonostante la caduta del prezzo del petrolio. Qualcosa di simile accade in altri paesi esportatori come il Brasile o il Canada. L’equilibrio tra i costi della svalutazione della moneta e la diminuzione in dollari delle esportazioni ha risultati diversi secondo gli analisti e non si riesce ad avere una risposta unanime. Quel che è certo è che gli investimenti in esplorazioni e sfruttamento del petrolio sono diminuiti del 20% nel 2015 ed erano già scesi del 15% nel 2014. Le “teste perforatrici” (rigs) nel mondo si sono ridotte del 40% nell’ultimo anno e ci sono varie imprese in bancarotta. È possibile che per gli investitori ormai non sia tanto sicuro investire in petrolio come negli anni precedenti. I nuovi investimenti si sono concentrati negli ultimi tempi nel petrolio di scisto (ormai non ci sono quasi più riserve convenzionali da scoprire) e questi ultimi due anni hanno dimostrato la fragilità del settore di fronte alle fluttuazioni dei prezzi del greggio. Il fatto che le compagnie petrolifere stiano fallendo è la miglior prova che l’era del petrolio poco costoso è finita.

Fluttuazioni e meccanismi a catena

I prezzi del petrolio hanno sempre fluttuato. Quando i loro valori sono bassi, l’economia cresce, aumenta la domanda e comincia a salire il prezzo. Quando i prezzi sono sufficientemente alti da danneggiare l’economia, allora comincia la decelerazione e con questa la caduta della domanda, per cui tornano i prezzi bassi del greggio. Questo ciclo si è ripetuto periodicamente negli ultimi cinquant’anni. Tuttavia ora siamo di fronte a un cambiamento strutturale in questo ciclo: il petrolio convenzionale sta finendo (la maggioranza dei giacimenti sono già entrati in declino) e il non convenzionale non può essere estratto a meno di 100 dollari al barile. Questo vuol dire che il nuovo livello base del ciclo del petrolio futuro dovrebbe stare al di sopra di questo valore. Questo “eccesso di offerta” di greggio che oggi viviamo è il risultato di investimenti speculativi nello scisto statunitense che è sopravvissuto e ha prodotto ingenti quantità di volumi mentre il suo prezzo era al di sopra dei 100 dollari al barile. Sotto questa soglia le imprese non sopravvivono. Una volta che i depositi attualmente pieni si saranno svuotati e la domanda riprenderà a crescere, i prezzi torneranno a salire. Ma gli investitori ormai sono sull’avviso. Lo scisto non tollera le fluttuazioni dei prezzi e i saliscendi dell’economia che sopportava il petrolio convenzionale. Le banche sono allertate: non saranno più tanto convincenti le aspettative di profitti relativi ai greggi non convenzionali. Il petrolio inoltre deve affrontare due potenti concorrenti: il progresso delle tecnologie per l’uso di fonti rinnovabili e gli accordi internazionali per limitare il cambiamento climatico. L’attuale caduta dei prezzi è figlia dell’eccesso di offerta combinato con la scarsità di domanda. Una volta tornati in equilibrio i due termini dell’equazione, difficilmente il greggio tornerà ai prezzi bassi. Ma il petrolio non è una merce qualsiasi. È l’energia più versatile e utile per alimentare il motore dell’economia. Il petrolio poco costoso è ciò che ha favorito l’espansione economica globale negli ultimi sessant’anni. E ogni volta che il petrolio è salito o ha scarseggiato l’economia globale ne ha risentito. Non sembra che sarà facile sostenere la crescita economica globale con fonti energetiche meno versatili e più costose. Assicurare la pace e la sostenibilità futura dovrebbe andare di pari passo con un’economia globale meno dipendente dai consumi energetici e, probabilmente, più austera.

Gerardo Honty (Alai)

Fonte: Rebelión - Traduzione per Senza Soste di Nello Gradirà

Pubblicato sul numero 114 (aprile 2016) dell'edizione cartacea di Senza Soste


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