Già da qualche settimana è possibile trovare sugli scaffali Roma disfatta,
un libro scritto a quattro mani da Vezio De Lucia e Francesco Erbani
per i tipi della Castelvecchi, e di cui consigliamo caldamente la
lettura. Il testo, sviluppato sotto forma di dialogo tra l’urbanista ed
il giornalista, ci restituisce infatti una fotografia della città che è
impossibile ignorare, soprattutto per chi ha l’ambizione di provare a
ricostruire un insediamento sociale nelle periferie.
Ma procediamo con
ordine. Uno dei punti cardine su cui molto insistono gli autori è quello
della forma, o meglio, della perdita di forma, che ha caratterizzato la
crescita della città in questi ultimi decenni. E delle conseguenze
sociali e politiche che questo ha avuto sull’intero organismo urbano. Se
infatti diventa difficile e perfino inutile provare a ragionare di Roma
per pezzi separati, è altrettanto improponibile provare a farlo senza
riferirsi alla sua realtà fisica. Come ci
ricordano gli autori, dal dopoguerra in poi la città si è distesa sul
suo vasto territorio (129mila ettari) distribuendo i nuovi insediamenti
in tutte le direzioni intorno alla città consolidata e oggi appare
orientata a concentrarsi in corone sempre più esterne rispetto al centro
storico. Alla Roma ufficiale, piccola cosa in termini di estensione e
popolazione, si oppone dunque la Roma delle tante e tra loro diverse
periferie. Un centro storico sempre meno abitato (120mila residenti, la
metà di quanti erano nel 1961) che continua a rappresentare il vero e
caotico centro direzionale della città, ma che ignora, ricambiato, cosa
ci sia al di fuori del Grande Raccordo Anulare. Pezzi di città fra loro
estranei e molto spesso ostili.
A partire da questo quadro i due autori
si concentrano sui guasti provocati nell’ultimo ventennio dall’urbanistica liberista asservita
alla rendita fondiaria che ha imposto, a fronte di un trend demografico
ormai stabilizzato, un continuo aumento del consumo di suolo. Si è
passati così dai 12500 ettari di suolo urbanizzato del 1961 agli oltre
50 mila attuali, cosa che ha fatto di Roma una delle città europee con
la più alta quantità di suolo urbanizzato (230 mq) per abitante. La
conseguenza inevitabile di queste due tendenze è stata la progressiva
diminuzione della densità abitativa che, se le previsioni edificatorie
dell’ultimo piano regolatore dovessero essere confermate, scenderebbe
sotto i 50 abitanti per ettaro impedendo il funzionamento accettabile
dei servizi pubblici e condannando milioni di romani a vivere in una
“non-città”. Ed è questo un altro elemento forte che emerge dall’analisi
di De Lucia ed Erbani: la struttura pulviscolare che è stata imposta a
Roma dalla rendita fondiaria, non solo produce una bassa qualità della
vita e uno scarso livello di accessibilità della città, ma determina
costi sociali ed economici insopportabili. Il mastodontico debito
comunale, la sofferenza economica delle municipalizzate così come il
traffico ingestibile e la sporcizia endemica delle strade sono il frutto
della perdita di forma di Roma. Inseguire la “città speculativa” e la
“città abusiva”, portando servizi, asfaltando strade, prolungando la
rete idrica e fognaria, garantendo l’illuminazione ha significato
socializzare i costi a fronte della privatizzazione dei profitti. Ed è
in questa idea di città e nella deregulation che ne è conseguita che va
ricercata la genesi degli oltre 22 miliardi di debito accumulati dal
Comune di Roma e del degrado cittadino. Stando a quanto riporta Erbani
in un suo precedente lavoro nella capitale nei primi anni Duemila sono
state costruite una media di 10mila nuove case ogni anno, il valore
dello stock immobiliare non è mai cresciuto tanto come in questi ultimi
vent’anni, eppure la città si ritrova povera di infrastrutture e con il
bilancio disastrato. Dov’è andata a finire tutta questa ricchezza? Come
si spiega questo scarto tra ricchezza immobiliare e povertà urbana?
Quesiti a cui il lavoro di De Lucia ed Erbani prova a dare una risposta
indicando nella rendita urbana la forza indisturbata dello sviluppo
territoriale capitolino.
Un altro aspetto che emerge con chiarezza dall’analisi dei due Autori, e che ci riguarda direttamente per il come e il dove
fare politica, è poi il modo con cui la bolla immobiliare ha
ridisegnato la geografia sociale di Roma. Se fino al 1998 solo il 12%
dei romani abitava fuori dal GRA oggi questa percentuale è salita al 26%
ed è destinata a toccare il 30% nei prossimi anni. Si è passati così da
500mila a 900mila residenti nel giro di circa vent’anni, a cui vanno
aggiunti tutti quei romani che vivono appena dentro il Raccordo e le 163
mila persone che tra il 2001 e il 2010 hanno lasciato Roma per
spostarsi nei comuni limitrofi di quella che viene definita la
“periferia regionale”. A ridosso del raccordo si sviluppano dunque la
“citta speculativa” degli immobiliaristi, la “città abusiva” dei condoni
edilizi e la “città pubblica” dell’edilizia popolare, una “periferia
anulare” in cui vivono oltre un milione di romani marginalizzati dal
funzionamento infame del trasporto pubblico, costretti all’uso dell’auto
privata e a sopportare quotidianamente ore e ore di traffico per
raggiungere il posto di lavoro. Un elemento caratteristico di questo
modello di città è infatti la concentrazione del lavoro nelle zone
centrali, un fenomeno amplificato dall’espansione del turismo e
dall’ulteriore terziarizzazione dell’economia romana.
Questa
concomitanza di “lavoro dentro e abitazione fuori” ha così aumento il
pendolarismo e l’alienazione di chi spende quotidianamente nel traffico
ore e ore di vita sottratte alle relazioni sociali e all’arricchimento
culturale. Abbiamo già scritto sui riflessi politici di questa
cartografia sociale (leggi)
per cui evitiamo di tornarci, è interessante però l’analisi che gli
autori fanno della parabola politica dell’abusivismo per il ruolo che
questo ha svolto nella storia della città. L’abusivismo romano è infatti
un fenomeno complesso, la cui natura varia a seconda del periodo
storico e del luogo. Dopo la Liberazione rappresentò un passaggio
obbligato per migliaia di immigrati provenienti soprattutto dal sud che
si insediarono intorno alle borgate storiche. Come ricordano gli Autori
sotto la guida del Pci la lotta di resistenza si trasformò in lotta di
“residenza” per ottenere l’abrogazione della legge fascista del 1939 che
vietava l’iscrizione anagrafica ai lavoratori provenienti da altri
comuni negando loro la possibilità di godere di alcuni diritti sociali
(assistenza sanitaria, sussidio di disoccupazione, scolarizzazione) e
politici. Con la vittoria delle sinistre negli anni Settanta le borgate
assunsero una centralità inedita nella politica dell’amministrazione
comunale e furono oggetto di una consistente opera di urbanizzazione
primaria. Alcuni autori osservarono però come già da allora l’abusivismo
di necessità contenesse in nuce “elementi di scelta
ideologica” verso la casa familiare e di proprietà. Aspetti che verranno
fuori una volta che, esaurita la stagione “collettivista” del
risanamento e del solidarismo urbano, con le politiche di condono, si
aprirà la stagione del privatismo e della proprietà. Una trasformazione
strutturale che cambiò il segno politico a quella che qualcuno aveva
definito un processo democratico di redistribuzione della rendita
fondiaria e che a partire dalla metà degli anni ’80 portò quel mondo a
guardare prima alla Dc sbardelliana e poi alla destra sociale, fino
all’irruzione del M5S nel 2013.
Oggi la “città abusiva” si estende per
oltre 15mila ettari del territorio comunale, brandelli di “non-città” in
cui vivono oltre 640mila romani, che rappresentano quasi 1/3 della Roma
costruita, e che sono caratterizzati da una bassissima densità
abitativa (43 persone per ettaro), dalla cronica mancanza di spazi
pubblici, di aree verdi e urbanizzazione secondaria. Per avere un ordine
di grandezza e di confronto la “città pubblica”, in cui vivono 320 mila
romani, non supera i 3500 ettari, a dimostrazione che la grande assente
della scena urbanistica romana è l’edilizia pubblica. Come emerge dalla
lettura del testo le città non sono altro che il prodotto del sistema
economico dominante e delle sue classi dirigenti. L’urbanistica
neoliberista sperimentata con il “Modello Roma” di Rutelli e Veltroni ha
prodotto enormi periferie e l’accumulazione di un debito mostruoso che
pesa come un’ipoteca sul futuro della città. Bisogna avere quindi la
consapevolezza che ogni possibilità di inversione di tendenza passa
attraverso la ricostruzione della città pubblica, e che sarebbe
velleitario ed illusorio pensare di riuscirci esclusivamente attraverso
l’onesta, la generosità e la competenza senza mettere al primo posto la
rottura dell’ordine liberista. Per concludere il libro ci è piaciuto, e
pure molto, tanto che come Carovana delle periferie lo
presenteremo e lo discuteremo il prossimo 9 giugno alle 18 al Corto
Circuito. Insieme agli autori, insieme ad Antonello Sotgia e insieme ai
militanti che in questi anni stanno lavorando per riconquistare alla
sinistra di classe delle casematte sociali.
Roma disfatta/Vezio De Lucia e Francesco Erbani/Castelvecchi/16,50 euro
Fonte
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