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31/05/2016

Consigli (o sconsigli) per gli acquisti: Roma disfatta, di Vezio De Lucia e Francesco Erbani

Già da qualche settimana è possibile trovare sugli scaffali Roma disfatta, un libro scritto a quattro mani da Vezio De Lucia e Francesco Erbani per i tipi della Castelvecchi, e di cui consigliamo caldamente la lettura. Il testo, sviluppato sotto forma di dialogo tra l’urbanista ed il giornalista, ci restituisce infatti una fotografia della città che è impossibile ignorare, soprattutto per chi ha l’ambizione di provare a ricostruire un insediamento sociale nelle periferie.

Ma procediamo con ordine. Uno dei punti cardine su cui molto insistono gli autori è quello della forma, o meglio, della perdita di forma, che ha caratterizzato la crescita della città in questi ultimi decenni. E delle conseguenze sociali e politiche che questo ha avuto sull’intero organismo urbano. Se infatti diventa difficile e perfino inutile provare a ragionare di Roma per pezzi separati, è altrettanto improponibile provare a farlo senza riferirsi alla sua realtà fisica. Come ci ricordano gli autori, dal dopoguerra in poi la città si è distesa sul suo vasto territorio (129mila ettari) distribuendo i nuovi insediamenti in tutte le direzioni intorno alla città consolidata e oggi appare orientata a concentrarsi in corone sempre più esterne rispetto al centro storico. Alla Roma ufficiale, piccola cosa in termini di estensione e popolazione, si oppone dunque la Roma delle tante e tra loro diverse periferie. Un centro storico sempre meno abitato (120mila residenti, la metà di quanti erano nel 1961) che continua a rappresentare il vero e caotico centro direzionale della città, ma che ignora, ricambiato, cosa ci sia al di fuori del Grande Raccordo Anulare. Pezzi di città fra loro estranei e molto spesso ostili.

A partire da questo quadro i due autori si concentrano sui guasti provocati nell’ultimo ventennio dall’urbanistica liberista asservita alla rendita fondiaria che ha imposto, a fronte di un trend demografico ormai stabilizzato, un continuo aumento del consumo di suolo. Si è passati così dai 12500 ettari di suolo urbanizzato del 1961 agli oltre 50 mila attuali, cosa che ha fatto di Roma una delle città europee con la più alta quantità di suolo urbanizzato (230 mq) per abitante. La conseguenza inevitabile di queste due tendenze è stata la progressiva diminuzione della densità abitativa che, se le previsioni edificatorie dell’ultimo piano regolatore dovessero essere confermate, scenderebbe sotto i 50 abitanti per ettaro impedendo il funzionamento accettabile dei servizi pubblici e condannando milioni di romani a vivere in una “non-città”. Ed è questo un altro elemento forte che emerge dall’analisi di De Lucia ed Erbani: la struttura pulviscolare che è stata imposta a Roma dalla rendita fondiaria, non solo produce una bassa qualità della vita e uno scarso livello di accessibilità della città, ma determina costi sociali ed economici insopportabili. Il mastodontico debito comunale, la sofferenza economica delle municipalizzate così come il traffico ingestibile e la sporcizia endemica delle strade sono il frutto della perdita di forma di Roma. Inseguire la “città speculativa” e la “città abusiva”, portando servizi, asfaltando strade, prolungando la rete idrica e fognaria, garantendo l’illuminazione ha significato socializzare i costi a fronte della privatizzazione dei profitti. Ed è in questa idea di città e nella deregulation che ne è conseguita che va ricercata la genesi degli oltre 22 miliardi di debito accumulati dal Comune di Roma e del degrado cittadino. Stando a quanto riporta Erbani in un suo precedente lavoro nella capitale nei primi anni Duemila sono state costruite una media di 10mila nuove case ogni anno, il valore dello stock immobiliare non è mai cresciuto tanto come in questi ultimi vent’anni, eppure la città si ritrova povera di infrastrutture e con il bilancio disastrato. Dov’è andata a finire tutta questa ricchezza? Come si spiega questo scarto tra ricchezza immobiliare e povertà urbana? Quesiti a cui il lavoro di De Lucia ed Erbani prova a dare una risposta indicando nella rendita urbana la forza indisturbata dello sviluppo territoriale capitolino.

Un altro aspetto che emerge con chiarezza dall’analisi dei due Autori, e che ci riguarda direttamente per il come e il dove fare politica, è poi il modo con cui la bolla immobiliare ha ridisegnato la geografia sociale di Roma. Se fino al 1998 solo il 12% dei romani abitava fuori dal GRA oggi questa percentuale è salita al 26% ed è destinata a toccare il 30% nei prossimi anni. Si è passati così da 500mila a 900mila residenti nel giro di circa vent’anni, a cui vanno aggiunti tutti quei romani che vivono appena dentro il Raccordo e le 163 mila persone che tra il 2001 e il 2010 hanno lasciato Roma per spostarsi nei comuni limitrofi di quella che viene definita la “periferia regionale”. A ridosso del raccordo si sviluppano dunque la “citta speculativa” degli immobiliaristi, la “città abusiva” dei condoni edilizi e la “città pubblica” dell’edilizia popolare, una “periferia anulare” in cui vivono oltre un milione di romani marginalizzati dal funzionamento infame del trasporto pubblico, costretti all’uso dell’auto privata e a sopportare quotidianamente ore e ore di traffico per raggiungere il posto di lavoro. Un elemento caratteristico di questo modello di città è infatti la concentrazione del lavoro nelle zone centrali, un fenomeno amplificato dall’espansione del turismo e dall’ulteriore terziarizzazione dell’economia romana.

Questa concomitanza di “lavoro dentro e abitazione fuori” ha così aumento il pendolarismo e l’alienazione di chi spende quotidianamente nel traffico ore e ore di vita sottratte alle relazioni sociali e all’arricchimento culturale. Abbiamo già scritto sui riflessi politici di questa cartografia sociale (leggi) per cui evitiamo di tornarci, è interessante però l’analisi che gli autori fanno della parabola politica dell’abusivismo per il ruolo che questo ha svolto nella storia della città. L’abusivismo romano è infatti un fenomeno complesso, la cui natura varia a seconda del periodo storico e del luogo. Dopo la Liberazione rappresentò un passaggio obbligato per migliaia di immigrati provenienti soprattutto dal sud che si insediarono intorno alle borgate storiche. Come ricordano gli Autori sotto la guida del Pci la lotta di resistenza si trasformò in lotta di “residenza” per ottenere l’abrogazione della legge fascista del 1939 che vietava l’iscrizione anagrafica ai lavoratori provenienti da altri comuni negando loro la possibilità di godere di alcuni diritti sociali (assistenza sanitaria, sussidio di disoccupazione, scolarizzazione) e politici. Con la vittoria delle sinistre negli anni Settanta le borgate assunsero una centralità inedita nella politica dell’amministrazione comunale e furono oggetto di una consistente opera di urbanizzazione primaria. Alcuni autori osservarono però come già da allora l’abusivismo di necessità contenesse in nuce “elementi di scelta ideologica” verso la casa familiare e di proprietà. Aspetti che verranno fuori una volta che, esaurita la stagione “collettivista” del risanamento e del solidarismo urbano, con le politiche di condono, si aprirà la stagione del privatismo e della proprietà. Una trasformazione strutturale che cambiò il segno politico a quella che qualcuno aveva definito un processo democratico di redistribuzione della rendita fondiaria e che a partire dalla metà degli anni ’80 portò quel mondo a guardare prima alla Dc sbardelliana e poi alla destra sociale, fino all’irruzione del M5S nel 2013.

Oggi la “città abusiva” si estende per oltre 15mila ettari del territorio comunale, brandelli di “non-città” in cui vivono oltre 640mila romani, che rappresentano quasi 1/3 della Roma costruita, e che sono caratterizzati da una bassissima densità abitativa (43 persone per ettaro), dalla cronica mancanza di spazi pubblici, di aree verdi e urbanizzazione secondaria. Per avere un ordine di grandezza e di confronto la “città pubblica”, in cui vivono 320 mila romani, non supera i 3500 ettari, a dimostrazione che la grande assente della scena urbanistica romana è l’edilizia pubblica. Come emerge dalla lettura del testo le città non sono altro che il prodotto del sistema economico dominante e delle sue classi dirigenti. L’urbanistica neoliberista sperimentata con il “Modello Roma” di Rutelli e Veltroni ha prodotto enormi periferie e l’accumulazione di un debito mostruoso che pesa come un’ipoteca sul futuro della città. Bisogna avere quindi la consapevolezza che ogni possibilità di inversione di tendenza passa attraverso la ricostruzione della città pubblica, e che sarebbe velleitario ed illusorio pensare di riuscirci esclusivamente attraverso l’onesta, la generosità e la competenza senza mettere al primo posto la rottura dell’ordine liberista. Per concludere il libro ci è piaciuto, e pure molto, tanto che come Carovana delle periferie lo presenteremo e lo discuteremo il prossimo 9 giugno alle 18 al Corto Circuito. Insieme agli autori, insieme ad Antonello Sotgia e insieme ai militanti che in questi anni stanno lavorando per riconquistare alla sinistra di classe delle casematte sociali.

Roma disfatta/Vezio De Lucia e Francesco Erbani/Castelvecchi/16,50 euro

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