Prendo spunto per questo intervento dalla drammatica situazione della Provincia di Savona dove, probabilmente giungendo al “the end” di un lungo processo di deindustrializzazione, sono andate contemporaneamente in crisi tre delle più importanti strutture industriali, residualmente ancora presenti sul territorio: la Bombardier (trazione ferroviaria) a Vado Ligure, la Piaggio (aerei) appena trasferita da Finale a Villanova d’Albenga, la centrale elettrica Tirreno Power, ancora a Vado Ligure, cittadina un tempo definita la “Manchester” del triangolo industriale, con una concentrazione operaia pari a quella – mitica – di Sesto San Giovanni (Sesto era la “Stalingrado d’Italia).
Non si entra qui nel merito delle ragioni della vicenda riguardante il progressivo distacco della presenza industriale dal territorio, il crollo occupazionale, la crisi profonda di un intero tessuto sociale.
Nella provincia di Savona (come da altre parti, del resto) si è accumulato negli anni il peggio del peggio: il non affrontamento del rapporto tra industria e ambiente (ACNA, centrale di Vado), l’inopinata dismissione di know-how in settori strategici (Magrini, Ferrania), lo scambio perverso tra dismissione industriale e speculazione edilizia (Italsider, ancora Magrini, importanti aziende nella Valle di Vado: ma l’elenco sarebbe lungo), esito distruttivo del processo di privatizzazione delle PPSS.
In realtà ciò che è accaduto in provincia di Savona è il riflesso di una crisi profonda nella politica industriale dell’intero Paese, in un ambito europeo nel quale nazioni “forti” hanno mantenuto un’importante struttura industriale e altre hanno offerto spazio a una politica di delocalizzazione selvaggia: in questo senso l’Europa ha giocato ancora una volta a favore dei più forti.
Beninteso, sempre riferendoci all’Europa: in un quadro di totale accettazione del processo di finanziarizzazione dell’economia che sta alla base della bolla speculativa emersa a livello globale fin dal 2007 e i cui effetti si stanno oggettivamente protraendo nel tempo.
Come sempre accade da Savona al mondo: il battito d’ala di una farfalla in periferia che fa crollare il muro di Wall Street e viceversa, il crollo del muro di Wall Street uccide la farfalla in periferia.
Si tratta della storia eterna dell’interdipendenza delle economie che oggi va di moda chiamare globalizzazione, la cui crisi ha aperto pericolosi scenari di guerra in zone strategiche nell’equilibrio geopolitico a livello mondiale.
Torniamo però al merito.
La crisi della provincia di Savona è frutto dell’assenza, da molti anni, di una politica industriale degna di tal nome: una crisi quindi da analizzare in un quadro molto più ampio di quello, assolutamente provinciale, all’interno del quale si muovono i soggetti istituzionali locali.
Non emerge, ad esempio, una sola parola nel merito (al di là delle frasi di circostanza) nel corso della campagna elettorale per le elezioni comunali di Savona previste per il prossimo 5 Giugno. I candidati delle forze più importanti (PD, centrodestra, M5S) cianciano e blaterano assolutamente omologati, di impossibile turismo, di “bellezza” della Città e di altre amenità del genere.
Una crisi della politica industriale, quella italiana inserita nel quadro europeo, fortemente accentuatasi in Italia dall’entrata in carica del governo Renzi (basta citare i dati della produzione industriale negli ultimi mesi).
L’analisi deve essere sviluppata a partire dal vero e proprio “mutamento di pelle” verificatosi, nel corso di questi mesi, all’interno del capitalismo italiano nella direzione di un ulteriore salto di qualità nel processo di finanziarizzazione a dimensione internazionale che spiega meglio perché il governo Renzi, che è espressione proprio dei settori maggiormente interessati e orientati a questo processo di ulteriore sostituzione della produzione con la finanza, si stia muovendo su temi – al riguardo appunto dell’economia – tutto sommato marginali e si stia concentrando – sotto l’aspetto politico- istituzionale – sulla costruzione di un vero e proprio “regime” a partito pressoché “unico”. L’obiettivo, infatti, è quello di un’ulteriore stretta: altro che “direzione giusta” ma ripresa debole come cianciano a Bruxelles e a Francoforte. Si preparano tempi ancor più cupi per lavoratori e disoccupati.
La ragione di questo giudizio risiede proprio nell’analisi del mutamento strutturale nella composizione del capitalismo italiano, sulla via di un’ulteriore stretta finanziaria.
E’ cominciata, infatti, la fase degli acquisti da parte degli investitori finanziari esteri.
Il capofila è Blackrock che in pochi mesi ha investito 18 miliardi in Piazza Affari.
Questi investitori non vogliono comandare nelle aziende ma sono attentissimi alla governance (e quindi al comportamento degli azionisti di maggioranza e del management) e al ruolo che riveste la politica rispetto alla finanza.
Sono capitali mobili, che si fermano solo finché non trovano opportunità d’investimento ancora più convenienti.
Il punto più delicato della trasformazione del capitalismo italiano è questo.
Un capitalismo senza capitali (o meglio con i capitali all’estero) e con un credito contingentato, per andare avanti ha bisogno di danari che arrivano da fuori.
Ora stanno arrivando perché costiamo poco e il governo Renzi è nato in continuità con questo obiettivo: sorgendo proprio, come molti ricorderanno, da incontri riservati nei luoghi dell’alta finanza londinese, quella che fa riferimento alle Isole Cayman.
In questo modo si comprendono alla perfezione almeno quattro cose:
1) l’assoluta assenza, in qualsiasi atto o annuncio compiuto dal governo Renzi, di riferimenti a una politica industriale rivolta a investimenti interni riguardanti i settori strategici dalla siderurgia, all’elettromeccanica, alla chimica, all’agroalimentare. L’Italia non può permettersi una struttura industriale che porterebbe inevitabilmente con sé un ritorno a concentrazioni operaie giudicate, nell’ambiente dell’alta finanza, “socialmente pericolose”(si pensi alla recente lezione tenuta alla LUISS di Roma dall’a.d di Enel, Starace (in nomen omini?);
2) l’insistenza su vecchi arnesi del neo-liberismo come la flessibilità e la precarietà del lavoro, ben contenuti nei disgraziatissimi provvedimenti definiti “job act”. La flessibilità è da intendersi come fattore che “accompagni” la mobilità dei capitali e, di conseguenza, ulteriori fenomeni di delocalizzazione e di esternalizzazione di tipo privatistico, in particolare al riguardo della Pubblica Amministrazione, sottoposta a un vero e proprio “bombardamento liquidatorio”. Naturalmente si ravvedono sirene neo-corporative ma si tratta di andare al nocciolo della questione: una pubblica amministrazione eccessivamente concentrata rappresenta anch’essa un ostacolo per questa presuntamente necessaria mobilità di capitali;
3) è in funzione della possibile nuova ondata di finanziarizzazione dell’economia che il governo Renzi si muove sul terreno europeo con proposte di apparente richiesta di diminuzione del peso dell’austerità. E’ cambiato il quadro. Monti e Letta erano sorti per svolgere il ruolo di “guardiani dello spread”, Renzi per garantire l’assalto alle residue potenzialità dell’industria italiana e ridurla alle ragioni della finanza. E’ su questo punto che occorrerebbe il massimo della decodificazione e della demistificazione delle falsità correnti, ma vige ormai un regime di “mediatizzazione” degli stessi comportamenti politici che impedisce di analizzare questi dati di fatto, non fermandoci allo zero virgola del PIL o di altri fallaci indicatori;
4) tutto questo quadro va garantito con il massimo possibile della “stabilità” politica anche e proprio sotto l’aspetto degli interpreti del potere dal punto di vista soggettivo. E’ questa la ragione del tentativo di costruzione di un vero e proprio “regime” tagliando organismi istituzionali, varando leggi elettorali che negano qualsiasi possibilità di dialettica istituzionale, puntando alla costruzione del “partito unico della nazione”, comunque già operante di fatto sotto l’insegna di quel “partito di cartello” che i muoverà univocamente per mantenere ai propri attori di riferimento lo “status” e il “ruolo” e, in realtà, non farà altro, alla fine, che suffragare la costruzione di un sistema politico legato sostanzialmente alla “moderna” mobilità di capitali (torna sempre alla mente il ruolo della finanza ai tempi di Napoleone III) anziché alla rappresentanza politica delle contraddizioni sociali. Infine, dal punto di vista delle relazioni industriali il riferimento è al “modello Marchionne”: con questo pare proprio aver detto tutto.
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