Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

30/05/2016

Bernie Sanders, un outsider alla Casa Bianca

L’autobiografia politica di Bernie Sanders, Editore Jaca Book.

La post/fazione di Carlo Formenti

Bernie Sanders è un populista? Sicuramente si autodefinisce tale (in più occasioni ha dichiarato “sono socialista e populista”). Rivendicazione che suona male alle orecchie di una sinistra europea che, pur se simpatizza per lui, è abituata ad associare il populismo ai movimenti nazionalisti e xenofobi di casa propria (nemmeno l’esordio sullo scenario europeo di movimenti come Podemos è riuscito a scalzare del tutto tale pregiudizio). E ancor più suona male sulle pagine dei big media americani, i quali, unanimemente schierati con i candidati “ufficiali” dei due grandi partiti tradizionali, Democratici e Repubblicani, associano Sanders a Donald Trump – l’uomo che sfida l’establishment repubblicano come Sanders sfida quello democratico – considerando entrambi espressione di un fenomeno politico che – soprattutto se uno di loro dovesse vincere la corsa presidenziale – minaccia di sovvertire gli equilibri della società, dell’economia e del sistema politico americani.

Ma Sanders e Trump si somigliano davvero (politicamente parlando, visto che, in quanto individui, non potrebbero essere più diversi)? E ancora: il populismo rappresenta davvero una minaccia per la democrazia? Proviamo ad abbozzare qualche risposta a partire dal secondo interrogativo.

Il filosofo franco argentino Ernesto Laclau sostiene che, perché si diano le condizioni di una rottura populista, un sistema democratico non deve più essere in grado di soddisfare le domande che gli arrivano dai vari settori della società; inoltre deve attraversare una radicale crisi di legittimazione, al punto che i cittadini non nutrano più fiducia nei confronti di partiti e istituzioni, della loro capacità di rappresentarne gli interessi e appagarne bisogni ed esigenze. Negli Stati Uniti queste condizioni sono oggi indubbiamente presenti: un Paese fino a poco fa considerato il più ricco del mondo e capace di garantire il benessere, se non la “felicità”, ai propri abitanti appare oggi tormentato da un’impressionante serie di problemi: ha il più elevato tasso di inuguaglianza del mondo occidentale; milioni di posti di lavoro se ne sono andati durante la crisi, e quelli che stanno tornando con la ripresa sono di bassa qualità, precari e mal pagati; la lunghezza media della vita si è ridotta; aumentano mortalità infantile e suicidi; le carceri sono piene fino all’inverosimile (solo in Russia e in Cina la situazione è peggiore); le minoranze etniche – afroamericani in testa – continuano a essere oggetto di discriminazioni; la gente non crede più di poter cambiare le cose con il voto e quindi non partecipa più alla vita politica, perché pensa che fra Democratici e Repubblicani non vi sia alcuna sostanziale differenza, ed è convinta che la casta politica faccia solo gli interessi di quell’1% di super ricchi che prima ha causato la crisi, poi ne ha fatto pagare le conseguenze al 99%; e l’elenco potrebbe continuare.

Sanders dunque non cade dal cielo. Certo, prima di partecipare alla corsa per la nomination democratica (senza rinnegare il suo status di indipendente), aveva già alle spalle una lunga carriera politica, quella che gli avete sentito descrivere nelle pagine di questo libro: sindaco di Burlington, più volte eletto alla Camera dei Rappresentanti e infine senatore del piccolo stato del Vermont. Certo, le sue imprese avevano già fatto notizia: un socialista che batte ripetutamente la concorrenza di Democratici e Repubblicani nel Paese più antisocialista della storia moderna! Ma il teatro di quelle gesta era la piccola comunità rurale del Vermont, un mondo relativamente chiuso, dove il suo stile “famigliare”, il suo approccio diretto e onesto di persona affidabile che mantiene sempre la parola data in campagna elettorale, la sua capacità di raccogliere coalizioni arcobaleno fatte di brave persone più che di movimenti ideologici, gli avevano guadagnato la fiducia e il sostegno di tutti, senza distinzioni di parte.

Ma il debutto sulla scena nazionale, l’entusiasmo delle folle accorse ad acclamarlo nelle piazze di tutto il Paese, l’adorazione dei giovani americani (si è calcolato che se votassero solo gli under quaranta vincerebbe a mani basse), lo strepitoso, improvviso quanto inatteso successo di un discorso “vecchio” che ripropone gli stessi temi da mezzo secolo (Bernie il noioso lo chiamano), in controcorrente con tutti dettami del pensiero unico neoliberista che egemonizza la cultura americana da decenni, sono tutt’altra cosa e si spiegano solo con la rabbia scatenata dalla situazione descritta qualche riga sopra, dal risentimento che milioni di cittadini provano nei confronti di una minoranza che li ha derubati del “sogno americano”.

“We the 99%” recitava lo slogan dei giovani militanti del movimento Occupy Wall Street che qualche anno fa ha riempito le piazze delle grandi città, a partire dalla “Acampada” di fronte al tempio della finanza globale. È questo risentimento contro le élite dell’1% che ha contagiato la società americana, rendendola ricettiva nei confronti del programma politico «eretico» di Sanders: tagliare drasticamente le spese militari e aumentare le tasse sui ricchi, in modo tale da finanziare radicali politiche sociali: istruzione pubblica gratuita dall’asilo all’università (delizia alle orecchie dei giovani costretti a indebitarsi pesantemente per poter studiare); sistema sanitario pubblico e gratuito per tutti con un unico ente pagatore (miraggio per milioni di persone costrette a rinunciare a curarsi perché non possono permettersi costose assicurazioni private); salario minimo a 15 dollari (oggi sono molti coloro che lavorano per meno della metà); ricostruire le infrastrutture che cadono a pezzi (altre opportunità di lavoro e reddito decente); separare le banche di investimento dalle banche commerciali e ridimensionare quelle “troppo grandi per fallire”; riformare la FED, in modo che non possa più arruolare i propri membri fra quelle élite finanziarie che sarebbe suo compito controllare (“come affidare alla volpe il compito di proteggere le galline”, ironizza Sanders); limitare quei finanziamenti privati delle lobby ai candidati che hanno trasformato i partiti in comitati di affari della casta dei super ricchi (della quale fanno parte la metà degli eletti alla Camera dei Rappresentanti e al Senato); riportare le persone comuni al voto, restituendogli la fiducia che le loro opinioni politiche possano davvero contare.

Socialismo? Forse, ma nulla di sovversivo, ove si consideri che si tratta di obiettivi già ampiamente realizzati dalle socialdemocrazie scandinave che Sanders assume a modello. Ma soprattutto nulla che possa spaventare le nuove generazioni nate dopo il – o pochi anni prima del – crollo del Muro, insensibili allo spauracchio dell’Impero del Male.

Populismo? Sì, perché molte delle caratteristiche che i politologi attribuiscono a tale forma politica sono presenti nel fenomeno Sanders: impegno per abolire o almeno rendere più permeabile il confine che separa l’alto e il basso della società; esaltazione delle virtù delle persone comuni – i common people – contrapposte all’ingordigia e all’egoismo delle élite; mettere le esigenze della comunità davanti quelle dei singoli individui; sfidare la democrazia sul suo stesso terreno, rivendicandone l’estensione all’intero corpo sociale; sanare il sistema politico, emarginando i corrotti ed evitando che ci sia chi può “comprarsi” una carica pubblica; scegliere leader che rispecchino le virtù delle persone comuni che intendono rappresentare, cioè dei “dilettanti” della politica che si votino a una missione e non smaliziati professionisti.

Rivoluzione? Forse la parola è troppo grossa, anche se un Sanders alla Casa Bianca avrebbe certamente dato (il condizionale è d’obbligo, visto che mentre scrivo è sempre più chiaro che la schiacciante potenza della macchina democratica, e delle lobby che la sostengono, finiranno per regalare la candidatura alla donna dell’establishment, Hillary Clinton) una bella spallata a un sistema politico bloccato in un’alternanza incapace di generare reali alternative. La parola è invece del tutto giustificata se riferita al mutamento di rotta che il fenomeno Sanders potrebbe imprimere al campo mondiale – e non solo americano – della sinistra. Il che ci conduce al confronto con Donald Trump.

Ciò che accomuna Sanders a Trump è la forte concentrazione sui temi dell’economia, a partire dalla denuncia degli effetti devastanti della globalizzazione finanziaria e della liberalizzazione degli scambi commerciali sui lavoratori americani, che vedono i propri posti di lavoro volare via verso Paesi dove il costo del lavoro è più basso. Negli ultimi decenni, la propaganda della destra repubblicana ha potuto guadagnare posizioni rispetto alla “sinistra” democratica anche e soprattutto perché quest’ultima ha abbandonato al proprio destino le tute blu, per concentrarsi esclusivamente sui diritti civili della classe medio-alta. Ecco perché gli stati che ospitano un’elevata percentuale di lavoratori bianchi impoveriti non appoggiano solo Sanders ma anche Trump.

Un Trump che rappresenta una minaccia per l’establishment repubblicano, nella misura in cui cavalca temi anti-casta e anti-élite, prospetta misure protezioniste e alimenta retoriche pauperiste, oltre a incarnare – al pari di Sanders – una figura di leader fuori dalle logiche delle caste politiche professionali.

Dunque è vero che i due si somigliano? Assolutamente no. Per Sanders rimettere i temi dell’uguaglianza economica al primo posto non implica rinunciare alla lotta per i diritti civili, laddove Trump non manca di sbandierare le proprie idee razziste, sessiste e xenofobe. Sanders è d’accordo sulla necessità di rinegoziare o disdettare gli accordi per il libero commercio per difendere i posti di lavoro americani, ma ciò non lo induce ad assumere posizioni anti migranti né tantomeno a chiedere, come Trump, di costruire muri al confine con il Messico per bloccare le masse di “concorrenti” che risalgono dal Sud del continente. Insomma: Sanders e Trump pescano nella stessa rabbia popolare ma la indirizzano verso bersagli diversi: il primo verso l’alto, il secondo verso il basso (anche se ricorre a sua volta a retoriche “anti capitaliste”). Infine Sanders è un leader che incarna gli interessi e i sentimenti dei common people, laddove Trump rappresenta quelli degli ordinary people e del popolo-etnia: populismo di sinistra versus “gentismo” e razzismo.

In conclusione: la crisi mondiale e la feroce guerra di classe dall’alto scatenata dal neoliberismo cominciano a produrre reazioni dal basso sempre più forti, reazioni che in molte regioni del mondo tendono ad assumere la forma della rivolta populista. In tale contesto l’avventura politica di Sanders, quale ne sia l’esito, rappresenta (al pari delle rivoluzioni bolivariane in America Latina e dei nascenti populismi europei di sinistra) una lezione fondamentale perla sinistra internazionale: esiste un solo modo che le consentirebbe di tornare protagonista, che consiste nell’abbandonare le vecchie forme organizzative e i vecchi programmi di socialdemocrazie (convertite al liberismo) e micro partiti della sinistra radicale (abbarbicati a un passato irreversibilmente tramontato) e nell’attrezzarsi per contendere l’egemonia della rivolta populista alle nuove destre.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento