di Michele Paris
Sempre più vicina alla conquista ufficiale della nomination per il
Partito Democratico, Hillary Clinton si ritrova in una posizione
imbarazzante e decisamente poco comune per un candidato alla Casa Bianca
a questo punto della corsa. Il suo sfidante nelle primarie, il senatore
del Vermont Bernie Sanders, continua a essere una presenza ingombrante
sulla strada della convention Democratica di luglio e il seguito
popolare che ha suscitato negli Stati Uniti sta facendo emergere tutte
le debolezze della prima donna candidata alla presidenza per uno dei due
principali partiti americani.
L’ammissione indiretta dei timori
che circolano nel clan Clinton per una possibile ulteriore perdita di
consensi e di gradimento all’interno del suo stesso partito è apparsa
chiara questa settimana quando Hillary ha respinto una proposta del
network FoxNews di partecipare a un ultimo dibattito pubblico con
Sanders.
L’evento, per il quale Sanders aveva dato la propria
disponibilità, avrebbe dovuto svolgersi alla vigilia del penultimo
appuntamento delle primarie in calendario, previsto per il 7 giugno
prossimo. In quella data voteranno sei stati, di cui quattro con un
numero trascurabile di delegati in palio (Montana, New Mexico, North
Dakota e South Dakota) e due con un bottino molto più ricco, il New
Jersey con 126 e soprattutto la California con 475.
Sanders ha
detto di non essere sorpreso dall’atteggiamento di Hillary, ma comunque
deluso, poiché i due candidati Democratici si erano impegnati a
confrontarsi almeno ancora una volta prima della fine della stagione
delle primarie. La spiegazione data dalla Clinton ha lasciato intendere
che un dibattito a questo punto sarebbe una perdita di tempo e una
distrazione dai preparativi appena iniziati per la campagna
presidenziale vera e propria contro il candidato Repubblicano, Donald
Trump.
Apparentemente, la marcia indietro di Hillary sul
dibattito lascia perplessi. Anche se vicinissima alla nomination,
teoricamente Sanders avrebbe la possibilità di sopravanzarla.
Soprattutto, il senatore del Vermont ha finora vinto un numero
consistente di stati e generato un entusiasmo con pochi precedenti nella
storia recente degli Stati Uniti. Considerarlo una semplice distrazione
sembra avere quindi poco senso.
La vera ragione del rifiuto è da
ricercare piuttosto nella debolezza stessa della candidata Clinton, la
quale evidentemente ritiene che un’apparizione televisiva con Sanders
non potrebbe che costarle dei voti e far aumentare il discredito nei
suoi confronti tra gli elettori. In altre parole, Hillary è giunta alla
conclusione che una sua maggiore esposizione mediatica con un vero
contraddittorio la renderebbe ancora più impopolare.
Queste
conclusioni e le ansie che devono attraversare lo staff di Hillary
Clinton sono d’altronde supportate dai risultati dei sondaggi di
opinione diffusi negli Stati Uniti in queste settimane. Hillary e Trump
continuano a competere innanzitutto nel grado di ostilità che suscitano
tra i potenziali elettori. Entrambi sono ben oltre il 50% per quanto
riguarda il livello di impopolarità e una vasta maggioranza degli
intervistati considera la ex first lady “disonesta”.
A pesare è
una carriera spesa al servizio di multinazionali e grandi banche, grazie
alle quali la famiglia Clinton ha potuto mettere assieme un’autentica
fortuna. Moltissimi americani vedono poi con disprezzo e preoccupazione i
precedenti di Hillary sul versante della politica estera, fatti di
sostegno convinto e promozione in prima persona di numerose aggressioni
militari.
I
più recenti sondaggi stanno registrando inoltre su base nazionale un
netto recupero di Donald Trump, dopo che fino a poche settimane fa
indicavano un vantaggio più che consistente per Hillary. Se è vero che
la campagna elettorale in vista di novembre è ancora tutta da fare, è
altrettanto evidente che la candidata Democratica rischia di ritrovarsi a
breve con altre grane che potrebbero costarle molti consensi.
Non
solo eventuali sconfitte nelle ultime primarie la manderebbero alla
convention di Philadelphia sull’onda di un umiliante trend negativo, ma
le vicende giudiziarie e politiche che la vedono coinvolta potrebbero
esploderle tra le mani da un momento all’altro, garantendo ai
Repubblicani nuove linee d’attacco.
La questione delle e-mail
gestite da un server privato quando era al dipartimento Stato ha dato
vita a vari procedimenti di indagine. Un rapporto interno dell’Ispettore
Generale è stato consegnato al Congresso proprio mercoledì e ha
concluso che Hillary ha violato le norme federali sull’utilizzo della
corrispondenza quando era segretario di Stato. Inoltre, l’indagine ha
evidenziato come Hillary e gli ex membri del suo staff al dipartimento
di Stato si fossero rifiutati di collaborare con l’ufficio
dell’Ispettore Generale.
Sul caso continua a indagare anche l’FBI
e, a breve, almeno un paio di collaboratori di Hillary saranno chiamati
a testimoniare in un’aula di tribunale nell’ambito di una causa sullo
stesso argomento intentata dall’organizzazione conservatrice Judicial
Watch.
I Repubblicani al Congresso stanno inoltre continuando a
tenere alta la pressione su Hillary per fare luce sulle sue possibili
responsabilità nella carenza di misure di sicurezza alla rappresentanza
diplomatica americana di Bengasi, in Libia, attaccata da fondamentalisti
islamici nel settembre del 2012. L’assalto si concluse con la morte
dell’ambasciatore USA, Christopher Stevens, e di altri tre cittadini
americani. Su questi fatti si attende un rapporto della Camera dei
Rappresentanti che, quasi certamente, punterà il dito contro l’ex
segretario di Stato.
Come se non bastasse, Hillary Clinton deve
gestire con estrema prudenza le relazioni con il team di Bernie Sanders e
soprattutto con i suoi sostenitori. Senza dubbio, Hillary e l’apparato
di potere Democratico che ha favorito in tutti i modi la sua candidatura
vedono con ostilità, se non disprezzo, la spinta in senso progressista
emersa attorno alla candidatura del suo rivale.
Non solo ciò è
profondamente contrario alle inclinazioni di Hillary, ma le impedisce
anche di operare lo spostamento a destra che ritiene necessario per
sottrarre voti a Donald Trump tra l’elettorato Repubblicano e per
accreditarsi come la candidata più affidabile agli occhi di Wall Street e
dell’apparato militare e dell’intelligence.
La questione Sanders
promette comunque di rimanere all’ordine del giorno del Partito
Democratico ancora per qualche tempo. Dopo la campagna di discredito
condotta nei confronti del veterano senatore nelle ultime settimane, la
tendenza dei vertici del partito sembra essere parzialmente cambiata,
dal momento che rischiava di alienare ancor più i suoi elettori.
Questa
settimana, così, il Comitato Nazionale Democratico ha concesso a
Sanders la facoltà di nominare cinque membri della commissione che dovrà
redigere la “piattaforma” politica del partito da presentare alla
convention di luglio. Hillary Clinton potrà scegliere invece sei membri e
i rimanenti quattro li nominerà la presidente del Comitato, la deputata
clintoniana della Florida, Debbie Wasserman Schultz.
La
mossa è stata studiata appositamente per cercare di pacificare i
rapporti tra il partito e un Sanders che aveva denunciato in maniera
molto dura le manovre messe in atto fin dall’inizio delle primarie per
favorire la candidatura della Clinton. Se Sanders appare ancora incerto
sull’atteggiamento che intende tenere una volta che Hillary si sarà
assicurata ufficialmente la nomination, la presenza di suoi
rappresentanti nella commissione che stilerà il programma elettorale del
partito potrebbe fornirgli l’occasione per un’uscita di scena indolore,
anche se non esattamente coraggiosa.
In questo modo, cioè,
Sanders avrebbe la possibilità di fare includere una serie di proposte
progressiste, che un eventuale presidente Clinton dovrebbe impegnarsi ad
attuare, consentendogli di affermare che Hillary si è conquistata il
suo appoggio e che la sua campagna ha dato qualche frutto nonostante la
sconfitta.
Com’è noto a chiunque mastichi di politica negli Stati
Uniti, però, le “piattaforme” programmatiche presentate dai principali
partiti alle convention sono, nelle parole del Washington Post,
sostanzialmente “documenti simbolici” a cui, in pratica, “nessuno sembra
interessarsi”.
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